In
questo momento in cui l’Islam è sospettato di essere praticamente disposto a
tutti gli eccessi, non sarebbe male ricordare che due parole, tra le più
ricorrenti nella retorica della demonizzazione, sono nate dentro la sfera del
Cristianesimo: fondamentalismo e integralismo. Una prova – se mai ce ne fosse
bisogno – che nessuna religione è protetta dal fanatismo.
Il
fondamentalismo è nato negli Stati Uniti, nel contesto protestante. Nel 1919,
dei pastori presbiteriani, battisti e metodisti hanno fondato lo World Christian Fundamentals Association,
per difendere i punti della fede a loro avviso fondamentali. Sostenevano particolarmente un’interpretazione
letterale della Bibbia. Prendendo alla lettera il racconto della creazione del
mondo in sei giorni, così come è narrato nella Genesi, rifiutavano le teorie di
Darwin sulle origini dell’uomo e sull’evoluzione.
La
parola "integralismo" è comparsa per la prima volta in Francia,
dentro il mondo cattolico. Nel 1907, il Papa Pio X ha condannato attraverso
l’enciclica Pascendi i "modernismi", una scuola di pensiero
che rivendicava l’esame dei dogmi della fede alla luce della scienza e in modo
autonomo. Gli avversari più violenti dei modernisti si definivano come
cattolici "integrali"
perché difendevano l’integrità della
fede. Furono a loro volta denunciati dal campo opposto sotto la denominazione
di "integralisti".
Nell’universo
cattolico, l’integralista è colui che si rivolge alla "tradizione", cioè ad un vasto
corpus che include eventualmente le Scritture e la loro interpretazione fissata
con autorità dai padri e dai dottori della Chiesa, dai concili e dai papi.
Possiamo dire che l’integralismo materializza, in un determinato momento,
l’interpretazione della Rivelazione. Al contrario, c’è nel fondamentalismo una
volontà di ritornare alle fonti, a una purezza originale della fede che si
sarebbe trovata nelle Scritture, sbarazzata dalle modifiche della tradizione.
In un certo modo, il fondamentalismo nega la mediazione di un’autorità
religiosa – ecclesiastici, Chiesa, dottori della legge – che interpone
abitualmente una chiave d’interpretazione tra il credente e il testo rivelato.
Il
concetto di "fanatismo" è più antico, poiché risale al secolo XVII.
Ma è stato nel secolo seguente, l’età dei Lumi, che ha conosciuto i suoi giorni
di gloria. La parola viene da fanon,
che significa "tempio" in latino. Esso definisce un’attitudine
religiosa. Voltaire denunciava questo enfant
dénaturé de la religion. C’è nel fanatismo una nozione di eccesso: il
fanatico è "animato da un zelo esagerato per la religione" secondo
Littré.
Tutti
questi termini hanno così una storia. La loro trasposizione in un’altra epoca
e, forzatamente, nella sfera di un’altra religione pone di primo acchito un
problema metodologico. Alla fine degli anni '70 del Novecento, quelli che
chiamiamo gli "orientalisti" – esperti nel mondo arabo in generale,
il cui approccio con la realtà musulmana si dà a partire dal suo angolo religioso
– facevano ancora ricorso al concetto di "integralismo" per descrivere l’evoluzione del mondo musulmano,
scosso dalla rivoluzione iraniana. Maxime Rodinson ne ha dato la seguente
definizione: "Aspirazione a
risolvere per mezzo della religione tutti i problemi sociali e politici e
simultaneamente a restaurare l’integrità dei dogmi".
La
dimensione politica si mistura alla religione in questa definizione di
integralismo. All’inizio degli anni '80, un cambiamento importante si è
verificato all’interno degli studi sull’Islam, quando gli esperti in scienze
politiche si occuparono della cultura musulmana usando gli strumenti della
sociologia. Crearono allora il termine "islamismo". Nel suo libro pubblicato nel 1987 (L’islamisme radical, Hachette), Bruno
Etienne popolarizza il concetto di "Islam
radicale", che giustifica così: "Io lo prendo nel senso primo del termine, la dottrina dello Islam alla
radice, e nel senso americano, l’Islam politicamente radicale, quasi
rivoluzionario". L’islamismo (o l’Islam radicale) è concepito quindi
come una ideologia, un progetto di società che unisce intimamente la dimensione
religiosa, sociale e politica.
È
da lamentare il fatto che la parola provoca nel grande pubblico una confusione
con l’aggettivo "islamico" che significa "riguardante
l'Islam". Questo appiattimento di senso è sentito dai musulmani come un
marchio stigmatizzante: una libreria islamica non è per forza islamista.
Nonostante ciò, Olivier Roy sottolinea che i due aggettivi,
"musulmano" e "islamico" non sono sempre sinonimi. "Io utilizzo il termine ‘musulmano’ per
definire ciò che riguarda il fatto ("paese musulmano": paese nel
quale la maggioranza della popolazione è musulmana) e il termine
"islamico" per ciò che riguarda l’intenzione ("Stato islamico",
Stato che fa dell' Islam le fondamenta della propria legittimità).
Oggigiorno
gli esperti che verificano il declino (Gilles Kepel) o le difficoltà (Olivier
Roy) dell' Islam politico fanno ricorso a una nuova terminologia per fare i
conti con l’evoluzione delle società musulmane: loro parlano di "post-islamismo" o di "neofondamentalismo". Così, per
Olivier Roy, il movimento dei talebani può essere considerato "neofondamentalista", nel senso che
la loro base è la legge della charia,
la ripresa della parola del Corano, e nella sunna,
ma non porta in sé un progetto politico coerente.
Queste
analisi sono contestate da innumerevoli studiosi dell' Islam, come François
Burgat et Alain Roussillon. Loro accusano gli scienziati politici di aver
incollato al mondo musulmano dei concetti appartenenti alla sociologia politica
occidentale. Avrebbero in qualche modo "inventato" o "costruito"
questa categoria: l’Islamismo, prima di profetizzare il suo declino... A tali
accuse Olivier Roy risponde che gli attori dell’Islamismo, come l’Iman
Khomeini, hanno loro stessi fatto ricorso a queste categorie politiche di
origine occidentale. (Il dibattito è presentato nella rivista francese Esprit nell’edizione di agosto-settembre
2001).
Il
fatto è che un certo numero di parole come "integralismo" o "fanatismo"
sono ancora segnalate dal contesto polemico che le ha viste nascere. Sono
considerate peggiorative e sono rifiutate da quelli a cui si indirizzano. Uno è
sempre integralista per l’altro... I concetti devono essere trattati con
prudenza. A volte sono altrettanto pericolosi delle armi.
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"Le tragedie di New York e
di Washington sono il folle frutto dell'odio. Un odio viscerale che il mondo
arabo concentra sugli Stati Uniti, e che invece sfiora soltanto i Paesi
europei, che pure hanno alle spalle un passato lungo e nefasto di potenze
coloniali". L'anti-americanismo e l'Islam. Un binomio che sembra
indissolubile. Eppure, per Marco Mozzati, direttore del Centro Studi sui popoli
extra-europei dell'Università di Pavia, è anche un grido di dolore quello che
arriva dal mondo islamico, questo grande cordone incandescente, che dalle
alture dell'Atlante alle rive del Mediterraneo, fino ai bastioni della Muraglia
cinese, tiene in apprensione il mondo occidentale. "Accettare la
diversità, l'originalità dell'Islam - dice il professor Mozzati - e non negarla
o considerarla tutt'al più bisognosa di tutela. Ecco come si poteva evitare una
tragedia di queste proporzioni".
"La situazione attuale è purtroppo il frutto di una
serie di gravi errori, molti commessi proprio dagli Stati Uniti. Altri
storicamente più lontani - continua il docente - e a ben vedere tutto cominciò
con Napoleone". Le truppe francesi del console corso arrivarono ai piedi
delle Piramidi, dove il futuro Imperatore pronunciò la celebre frase: "Noi
siamo l'Islam". "Ovvero - spiega Mozzati - 'noi ci sentiamo di dover
rappresentare l'Islam'. Non li consideriamo capaci di rappresentare loro
stessi, di essere e contare nella politica mondiale. E' quello che Said, il
pensatore arabo, ha definito 'Orientalismo'. L'incapacità degli occidentali di
considerare degno di attenzione e rilevante il mondo arabo". Gli americani
sono oggi una potenza che vuole rappresentare il mondo intero. E la cultura
araba reagisce: "Perché si sentono umiliati - dice Mozzati - e gli Usa
muovono un odio duro e crudele, pur presentandosi come grandi innovatori. Ma la
libertà americana non ha portato ai risultati sperati, per un fatto culturale:
ho parlato spesso con amici dal mondo arabo. Ci sentono "estranei e
invadenti". La reazione è folle, ma è il frutto della sedimentazione
storica di tutte queste che sentono come crudeli ingiustizie". Un nuovo
colonialismo. Più subdolo e nauseante, perché non ha bisogno di armi.
La crisi afgana, e il richiamo all'Islamismo
fondamentalista rischiano ora di dare quella coesione spesso inseguita e mai
ottenuta al mondo arabo. "E' un rischio che non si corre - sostiene Mozzati
- perché l'Islam non è unico. Ci sono moltissime culture differenti che
proliferano sotto lo stesso albero. Del resto la crisi del Golfo, poco più di
dieci anni fa, era per certi versi simile, ma non c'è stata una risposta
uniforme da parte del mondo arabo".
Così come la rete mondiale del terrorismo islamico non
ha possibilità di far presa in tutti i paesi legati all'islamismo: "E non
solo perché alcuni Paesi hanno preso subito una posizione molto moderata nei
confronti del terrorismo. Molti Paesi sono ormai più vicini di quanto si creda
al mondo occidentale: non è un caso che il leader libico Gheddafi non sia
entrato neanche di striscio tra i sospettati. Per decenni il mondo occidentale
ha tenuto la Libia in uno stato di confino, sbloccato poi proprio dal governo
italiano. E i risultati si sono visti subito. Non è solo un fatto economico, ma
ancora una volta culturale: i rapporti commerciali e gli affari si sono sempre
portati a termine tra Europa e Gheddafi, anche nel periodo peggiore per i
rapporti internazionali, ma il colonnello voleva il riconoscimento dei danni
morali da parte dell'Italia, per il suo passato e i suoi misfatti coloniali:
voleva le scuse. E questo vogliono anche le altre civiltà mussulmane: uscire
dalla cattività. Questi Paesi - conclude il professore - stanno chiedendo di
non essere emarginati, disprezzati, isolati. Questo è il denominatore comune,
non una rete mondiale di cellule terroristiche. E il fallimento della
conferenza di Durban sul razzismo, ai loro occhi, non ha fatto invece che
confermare che gli Stati Uniti non riescono ad accettare altri punti di vista
se non il loro".
Marco Mozzati,
studioso del mondo arabo, è professore, centro studi sui popoli extra-europei
dell'Università di Pavia
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QUEL
GIORNO, TRA I SEGUACI DI BIN LADEN
Il mondo non è più quello che conoscevamo, le nostre vite sono definitivamente
cambiate. Forse questa è l’occasione per pensare diversamente da come abbiamo
fatto finora, l’occasione per reinventarci il futuro e non rifare il cammino
che ci ha portato all’oggi e potrebbe domani portarci al nulla. Mai come ora la
sopravvivenza dell’umanità è stata in gioco.
Non c’è niente di più pericoloso in una guerra — e noi ci stiamo entrando — che
sottovalutare il proprio avversario, ignorare la sua logica e, tanto per
negargli ogni sua possibile ragione, definirlo un “pazzo”. Ebbene, la Jihad
islamica, quella rete clandestina e internazionale che fa ora capo allo sceicco
Osama Bin Laden e che, con ogni probabilità, ha avuto la mano nell’allucinante
attacco-sfida agli Stati Uniti, è tutt’altro che un fenomeno di “pazzia” e, se
vogliamo trovare una via d’uscita dal tunnel di sgomento in cui ci sentiamo
gettati, dobbiamo capire con chi abbiamo a che fare e perché.
Nessun giornalista occidentale è riuscito a passare del tempo con Bin Laden e a
osservarlo da vicino, ma alcuni hanno potuto avvicinare e ascoltare la sue
gente. A me capitò, nel 1996, di passare una giornata in uno dei campi di
addestramento che lui finanziava al confine fra il Pakistan e l’Afganistan. Ne
uscii sgomento e impaurito.
Per tutto il tempo in mezzo ai mullah, duri e sorridenti, e tanti giovani dagli
sguardi freddi e sprezzanti, mi ero sentito un appestato, il portatore di un
qualche morbo da cui non mi ero mai sentito affetto. Ai loro occhi la mia
malattia era semplicemente il mio essere occidentale, rappresentante di una
civiltà decadente, materialista, sfruttatrice, insensibile ai valori universali
dell’Islam.
Avevo provato sulla pelle la conferma che, con la caduta del muro di Berlino e
la fine del comunismo, la sola ideologia ancora determinata ad opporsi al Nuovo
Ordine, che, con l’America in testa, prometteva pace e prosperità al mondo
globalizzato, era quella versione fondamentalista e militante dell’Islam.
L’avevo intuito per la prima volta viaggiando nelle repubbliche musulmane
dell’Asia Centrale ex sovietica e l’avevo sentito con la stessa precisione
incontrando i guerriglieri anti-indiani nel Kashmir e intervistando uno dei
loro capi spirituali che mi salutò dandomi in regalo una copia del Corano — la
mia prima — perché ci “imparassi qualcosa”.
Vedendo e rivedendo, allibito come tutti, le immagini degli aerei che si
schiantavano facendo una carneficina nel centro di New York, così come nei
giorni prima leggendo le notizie degli uomini-bomba palestinesi che si facevano
saltare in aria mietendo vittime per le strade di Israele, mi tornavano in
mente quei giovani di varie nazionalità, ma di una unica, ferma fede, che avevo
visto in quel campo di addestramento: erano gente di un altro pianeta, di un
altro tempo, gente che “crede” come noi stessi abbiamo saputo fare in passato,
ma non sappiamo più, gente che considera il sacrificio della propria vita per
una causa “giusta” come una cosa “santa”. Questi giovani erano d’una pasta che
noi abbiamo difficoltà ad immaginare: indottrinati, abituati ad una vita
spartanissima, ritmata da una stretta routine di esercizi, studio e preghiere,
una vita tutta disciplina, senza donne prima del matrimonio, senza alcol, senza
droghe.
Per Bin Laden e la sua gente quello delle armi non è un mestiere, è una
missione che ha radici nella fede acquisita nell’ottusità delle scuole
coraniche, ma soprattutto nel senso di scacco e di impotenza, nell’umiliazione
di una civiltà — quella musulmana — un tempo grande e temuta, che si vede ora
sempre più marginalizzata e offesa dallo strapotere e dall’arroganza
dell’Occidente.
E’ un problema che varie altre civiltà hanno dovuto affrontare nel corso dei
due secoli passati. Quell’umiliazione la provarono i cinesi davanti “alle barbe
rosse” degli inglesi che imposero loro il commercio dell’oppio, la provarono i
giapponesi davanti alle “navi nere” dell’ammiraglio americano Perry che voleva
aprire il Giappone al commercio. La prima reazione fu di smarrimento.
Come poteva la loro civiltà, di gran lunga superiore a quella degli
stranieri-invasori, essere messa al muro e resa così impotente? I cinesi
cercarono una soluzione innanzitutto con un ritorno alla tradizione (la rivolta
dei Boxer), poi imboccarono la via della modernizzazione di stile sovietico e
ultimamente di stile occidentale. I giapponesi, già alla fine dell’Ottocento,
fecero questo salto tutto in una volta, mettendosi ad imitare ossessivamente tutto
ciò che era occidentale, copiando le uniformi degli eserciti europei,
l’architettura delle nostre stazioni e imparando a ballare il valzer.
Occidente diabolico
Questo problema del come sopravvivere al confronto con l’Occidente,
mantenendo una propria identità, si è posto ovviamente nel Novecento anche per
i musulmani e anche nel loro caso le risposte hanno oscillato fra il rifugio
nel tradizionale, come nel caso dell Yemen o dei Wahabi, e varie forme di
occidentalizzazione: la più ardita e radicale è stata quella attuata in Turchia
da Kemal Ataturk il quale negli anni Venti, riscrivendo la Costituzione,
togliendo il velo alle donne, sostituendo la legge islamica con una copia del
codice civile svizzero e una di quello penale italiano, mise il suo paese sulla
strada che oggi sta portando Istanbul, pur con qualche sussulto, a diventar
parte della Comunità Europea.
Per i fondamentalisti questa occidentalizzazione del mondo islamico è un
anatema e mai come ora questo processo minaccia ai loro occhi la sua identità.
Secondo loro, con la fine della Guerra Fredda l’Occidente ha scoperto le sue
carte e sempre più chiaro appare il progetto — per loro diabolico — di
incorporare l’intera umanità in un unico sistema globale che, grazie alla
tecnologia in suo possesso, dia all’Occidente l’accesso e il controllo di tutte
le risorse del mondo, comprese quelle che il Creatore — non a caso, secondo i
fondamentalisti — ha messo nelle terre dove è nato e si è esteso l’Islam: dal
petrolio del Medio Oriente al legname delle foreste indonesiane.
Guerra agli Usa
E’ solo negli ultimi dieci anni che questo fenomeno della
globalizzazione, o meglio della americanizzazione, si è rivelato nella sua
ampiezza. Ed è esattamente nel 1991 che Bin Laden, fino allora un protegé degli americani (il suo primo
lavoro in Afghanistan fu quello di costruire per la Cia i grandi bunker
sotterranei per lo stoccaggio delle armi destinate ai mujaheddin), si rivolta
contro Washington. Lo stazionamento di truppe americane nel suo Paese, l’Arabia
Saudita, durante e dopo la guerra del Golfo, gli parve un insopportabile
affronto e una violazione della santità dei luoghi sacri dell’Islam. La
posizione di Osama Bin Laden divenne chiara nel 1996 quando lanciò la sua prima
dichiarazione di guerra contro gli Stati Uniti: “Le pareti di oppressione e
umiliazione non possono essere abbattute che con una grandine di pallottole”.
Nessuno lo prese molto sul serio. Ancora più esplicito fu il manifesto della
sua organizzazione, Al Qaeda, reso noto nel 1998 dopo una riunione dei vari
gruppi associati a Bin Laden. “Da sette anni gli Stati Uniti occupano le terre
dell’Islam nella penisola araba, saccheggiando le nostre ricchezze, imponendo
la loro volontà ai nostri governanti, terrorizzando i nostri vicini e usando le
loro basi militari nella penisola per combattere i popoli musulmani vicini”.
L’appello rivolto a tutti i musulmani fu quello di “confrontare, combattere e
uccidere” gli americani. L’obiettivo dichiarato di Bin Laden è la liberazione
del Medio Oriente. Quello sognato in nome dell’eroico passato è forse molto più
vasto. I primi attacchi della jihad sono sferrati contro le ambasciate in
Africa e provocano decine e decine di morti. Washington risponde bombardando le
basi di Bin Laden in Afghanistan e una fabbrica di medicinali in Sudan
provocando centinaia, altri dicono migliaia di vittime civili (il numero esatto
non fu mai accertato perché gli Stati Uniti bloccarono un’inchiesta dell’Onu
sull’incidente).
La controrisposta di Bin Laden è venuta ora a New York e a Washington. Non
potendo colpire i piloti dei B-52 che sganciano le loro bombe da altezze
irraggiungibili, né arrivare ai marinai che lanciano i loro missili dalle navi
al largo, la soluzione è quella terroristica di attaccare masse di civili
indifesi. Le azioni di questi uomini sono atroci, ma non sono gratuite, sono
atti di guerra, una guerra che da tempo non è più quella cavalleresca, una
guerra in cui il bombardamento di popolazioni inermi è già stato un fenomeno
comune a tutti i belligeranti dell’ultimo conflitto mondiale, da quello dei V2
tedeschi su Londra, al bombardamento atomico su Hiroshima e Nagasaki col suo
bilancio di oltre duecentomila morti: tutti civili.
Da tempo ormai si combattono con mezzi e metodi nuovi guerre non dichiarate,
lontano dagli occhi del mondo che si illude oggi di vedere e capire tutto solo
perché assiste in diretta al crollo delle Torri Gemelle. Dal 1983 gli Stati
Uniti hanno bombardato a più riprese nel Medio Oriente Paesi come il Libano, la
Libia, l’Iran e l’Iraq. Dal 1991 l’embargo imposto dagli Stati Uniti all’Iraq
di Saddam Hussein dopo la guerra del Golfo ha fatto, secondo stime americane,
circa mezzo milione di morti, molti dei quali bambini a causa della mal
nutrizione. Cinquantamila morti all’anno sono uno stillicidio che certo genera
in Iraq e in chi si identifica con l’Iraq una rabbia simile a quella che
l’ecatombe di New York ha generato nell’America e di conseguenza anche in
Europa.
Importante è capire che fra queste due rabbie esiste un legame. Ciò non
significa confondere le vittime coi boia, significa solo rendersi conto che, se
vogliamo capire il mondo in cui siamo, lo dobbiamo vedere nel suo insieme e non
solo dal nostro punto di vista. Non si può capire quello che ci sta succedendo
solo a sentire le dichiarazioni dei politici, costretti come sono a ripetere
formule retoriche, condizionati a reagire alla vecchia maniera a una situazione
completamente nuova e incapaci di ricorrere alla fantasia per suggerire ad
esempio che, invece di fare la guerra, questo è il momento di fare finalmente
la pace, a cominciare da quella fra israeliani e palestinesi. Invece guerra
sarà.
In queste ore una strana coalizione si sta mettendo in moto attraverso gli
automatismi di trattati nati per un fine e ora usati per un altro e attraverso
l’adesione di paesi come la Cina, la Russia, e forse anche l’India, ognuno
spinto dai propri interessi strettamente nazionalistici. Per la Cina la guerra
mondiale contro il terrorismo è una buona occasione per cercare di risolvere i
suoi vecchi problemi con le popolazioni islamiche nei suoi territori di
confine. Per la Russia di Putin è un’occasione per risolvere innanzitutto il
problema della Cechenya e mettere a tacere tutte le accuse per le spaventose
violazioni dei diritti umani da parte delle truppe di Mosca laggiù. Lo stesso è
vero per l’India e il suo annoso conflitto per il controllo del Kashmir.
Il problema è che sarà estremamente difficile far apparire questa guerra solo
come una campagna contro il terrorismo e non come una guerra contro l’Islam.
Stranamente la coalizione che oggi si sta formando assomiglia molto a quella
che secoli fa l’Islam si trovò a combattere su due fronti: a Occidente i
Crociati, a Oriente le tribù nomadi dell’Asia Centrale e i mongoli. In
quell’occasione i musulmani resistettero e finirono per convertire all’Islam
gran parte dei loro avversari.
Questa è la scommessa che Bin Laden e i suoi possono aver fatto sferrando il
loro attacco al cuore dell’America. Forse contano proprio su una rappresaglia
del mondo occidentale per coagulare una massiccia resistenza islamica e fare di
quella che oggi è una minoranza, pur determinata, un fenomeno più esteso.
L’Islam si presta bene, per la sua semplicità e il suo innato carattere di
militanza, a essere l’ideologia dei dannati sulla Terra, di quelle masse di
poveri che oggi affollano, disperate e discriminate, il Terzo Mondo
occidentalizzato.
Intreccio di interessi
Più che rimuovere i terroristi e chi li ha appoggiati (forse ci sorprenderà
sapere quanti personaggi, alcuni anche insospettabili, sono coinvolti), sarebbe
più saggio rimuovere le ragioni che spingono tanta gente, soprattutto fra i
giovani, nelle fila della jihad e fanno loro apparire come una missione il
compito di uccidersi e uccidere.
Se noi davvero crediamo nella santità della vita, dobbiamo accettare la santità
di tutte le vite. O siamo invece pronti ad accettare le centinaia, le migliaia
di morti — anche quelli civili e disarmati — che saranno vittime della nostra
rappresaglia? Basterà alle nostre coscienze che quei morti ci vengano
presentati, nel gergo da pubbliche relazioni dei militari americani, come
“danni collaterali”? Dipende da noi quel che faremo, da come reagiremo a questa
orribile provocazione, da come vedremo la nostra storia di ora nella scala
della storia dell’umanità, il tipo di futuro che ci aspetta. Il problema è che
fino a quando penseremo di avere il monopolio del “bene”, fino a che parleremo
della nostra come civiltà, ignorando le altre, non saremo sulla buona strada.
L’Islam è ovunque
L’Islam è una grande e inquietante religione con una sua tradizione di
atrocità e di delitti (come tante altre fedi peraltro), ma è assurdo pensare
che un qualsiasi cowboy, pur armato di tutte le pistole del mondo, possa
cancellare questa fede dalla faccia della Terra. Meglio sarebbe aiutare i
musulmani stessi a isolare, invece che a renderle più virulente, le frange
fondamentaliste e riscoprire l’aspetto più spirituale della loro fede. L’Islam
è ormai ovunque. Nell’America stessa ci sono tanti musulmani quanti ebrei (sei
milioni, la gran parte, non a caso, afro-americani, attirati dal fatto che
l’Islam è stato fin dal suo inizio al di sopra del concetto di razza). Sul
territorio americano ci sono già 1.400 moschee, una persino nella base navale
di Norfolk.
Non dobbiamo ora farci trascinare da visioni parziali della realtà, non
dobbiamo diventare ostaggi della retorica a cui oggi ricorre chi è a corto di
idee per riempire il silenzio di sbigottimento. Il pericolo è che, a causa di
questi tragici, orribili dirottamenti, finiamo noi stessi, come esseri umani,
per essere dirottati da quella che è la nostra missione sulla Terra. Gli
americani l’hanno descritta nella loro costituzione come “il perseguimento
della felicità”. Bene: perseguiamo tutti assieme questa felicità, dopo averla
magari ridefinita in termini non solo materiali e dopo esserci convinti che noi
occidentali non possiamo perseguire una nostra felicità a scapito della
felicità di altri e che, come la libertà, anche la felicità è indivisibile.
L’ecatombe di New York ci ha dato l’occasione di ripensare a tutto e ci ha
messo dinanzi a nuove scelte. Quella più immediata e di aggiungere o togliere
al fondamentalismo islamico le sue ragioni di essere, di trasformare i balli
dei palestinesi, da macabre esultazioni per una tragedia altrui, in espressioni
di gioia in una loro riguadagnata dignità. Altrimenti ogni bomba o missile che
cadrà sulle popolazioni del mondo non-nostro non farà che seminare altri denti
di drago, e dar vita a nuovi giovani disposti a urlare “Allah Akbar”, Allah è
grande, pilotando un altro aereo carico di innocenti contro un grattacielo o,
domani, lasciando una bomba batteriologica o atomica in qualche nostro
supermercato.
Se solo riuscissimo a vedere l’universo come un tutt’uno in cui ogni parte
riflette la totalità e in cui la grande bellezza sta nella sua diversità,
cominceremo a capire chi siamo e dove stiamo. Altrimenti saremo solo come la
rana del proverbio cinese che, dal fondo di un pozzo, guarda in su e crede che
quel che vede sia tutto il cielo. Duemilacinquecento anni fa un indiano,
chiamato poi “illuminato”, spiegava una cosa ovvia: che “l’odio genera solo
odio” e che “l’odio si combatte solo con l’amore”.
Pochi l’hanno ascoltato. Forse è venuto il momento.
ANTONIO NANNIPIERI
In questa fase storica nessuno dovrebbe avere la presunzione di "aver
capito tutto". Tutti stiamo cercando di capire di più, e l'unica via è
quella di confrontare i propri pensieri con gli altri, approfondire, studiare,
riflettere... Non aiutano molto gli operatori dei media, che fino a ieri non
avrebbero nemmeno saputo collocare l'Afghanistan sulla cartina, ed ora ci
narrano gli eventi travolti dalla manipolazione dei messaggi attuata dagli
strateghi di comunicazione delle due parti in conflitto. Credetemi, la maggior
parte degli operatori dei media è in balia delle grandi strategie di
comunicazione più o meno allo stesso modo del pubblico, come già avevano
rilevato le teorie mass-mediologiche negli anni '60 (la Teoria Critica della
Scuola di Francoforte e l'approccio "culturologico" di estrazione
britannica, per chi vuole documentarsi). L'unico inconveniente è che i media
rilanciano i messaggi al vasto pubblico, che attribuisce ai media e al
telegiornale una credibilità e un azione di filtro (in senso positivo), in
realtà (purtroppo) sempre più carente.
Quotidiani
e Tv tendono in questi giorni a raccontare gli eventi con le solite formule
linguistiche ingessate, sclerotizzate, e perfino grottesche data la gravità del
momento.
"Bombardamenti
sempre più intensi", riferito agli attacchi USA... e non è vero: le
missioni aeree sono poche e sempre meno per mancanza di obbiettivi, è solo la
classica sceneggiatura della guerra in Tv, finalizzata a trasmettere un senso
di tensione crescente, semmai non ce ne fosse abbastanza. "Discorso
delirante", riferito al messaggio di Bin Laden... ma quale delirante!?!
parlava con tono pacatissimo, seguendo un filo logico preciso e pulito, usando
argomenti che sono in buona parte gli stessi di molti opinionisti occidentali.
Già... ma il discorso del "terrorista fanatico" in Tv è sempre e
comunque "delirante", come "la pioggia" è sempre
"battente" e "le lamiere" (nella cronaca di incidenti
stradali) sono sempre "contorte". Il giorno dopo un tele-giornalista
chiedeva a Caracciolo (direttore di Limes) cosa ne pensava delle "velate
minacce" che Bin Laden aveva lanciato nel suo video-messaggio, al che
Caracciolo - un pò sbigottito - ha risposto che non gli parevano per niente
"velate", che Bin Laden aveva detto chiaramente e direttamente
"l'America subirà altri attacchi... l'America non avrà mai pace
finché..." Povero tele-giornalista... è che solitamente al telegiornale le
"minacce" sono "velate", gli è uscito spontaneo...
E'
tragico e preoccupante che i media continuino a seguire questi schemi,
nonostante quanto è accaduto. Continuano come prima? No! Molto più di prima.
Perchè Bin Laden ha colpito al cuore dell'immaginario collettivo mediatico
occidentale. I media sono spiazzati, disorientati. Molti film hollywoodiani in
uscita sono stati bloccati, dato il momento inopportuno; molti spot
pubblicitari sono stati modificati o sospesi perchè utilizzavano, in maniera
superficiale e svuotata di senso, formule linguistiche di tipo
"guerresco" attualmente improponibili, perché hanno di colpo
riacquistato la loro originale semantica ("Guerra dichiarata / ai capelli
bianchi!" diceva una bella modella, avete più visto quello spot in questi
giorni?). I media hanno paura di dire qualcosa di sbagliato, di scabroso, di
dannoso. Avrebbero dovuto farlo da sempre, e ora sono impreparati.
Nell'incertezza totale ci si aggrappa molto più di prima (come è naturale, come
uno studente interrogato che non sa la risposta) alle formule linguistiche
stereotipate, alle sequenze filmiche trite e ritrite. Una sola cosa buona hanno
fatto i telegiornali in questi giorni: si sentono un pò meno spesso quelle
stupide musiche da film thriller usate nei servizi per sottolinearne la
drammaticità. Qualcuno ha deciso che una dichiarazione filmata di un portavoce
dei Taleban non ha bisogno di ulteriore drammatizzazione. Complimenti!
L'intelligenza
mediatica di Osama Bin Laden è terrificante. Da dieci anni a questa parte, da
quando seguo personalmente queste cose con approccio "scientifico",
non avevo mai visto un leader con la sua abilità comunicativa. Oltre al valore
simbolico dell'attacco alle Twin Towers ed al Pentagono, tutti hanno
riconosciuto l'abilità con cui è stata confezionata la cassetta del famoso
messaggio. Quante cose ci comunica Bin Laden con quel messaggio... senza troppe
paranoie sul cerone e sull'acconciatura dei capelli, ma usando i canoni
iconografici da sempre utilizzati nella comunicazione visiva per fare
propaganda (dagli affreschi alle statue, ai quadri del rinascimento). Non è questo
il luogo per un analisi dettagliata di quel video, che altri stanno facendo
certamente meglio di
me.
Ma si osservi la semplicità. In quel video Bin Laden ci dice: "Io sono
sereno, non temo attacchi" (parla alla luce del giorno, in esterno);
"Io mi sto nascondendo, dovete venire a cercarmi" (si vedono i tratti
della grotta, in realtà potrebbe essere ovunque, anche in un geometrico bunker
di cemento, ma qua in occidente parlavamo di grotta, e lui ci ha dato una
"grotta" che più grotta di quella è difficile vederne); "Io sono
un musulmano osservante" (con il turbante e la barba); "Io sono un
combattente e un veterano" (sullo sfondo c'è il famoso mitra, si dice in
giro, strappato ad un generale russo in combattimento); "Ma io sono stato
aiutato dagli americani in passato" (quella divisa era in dotazione ai
marines, come ha riconosciuto un ufficiale americano); "Ho confidenza con
i segni della modernità occidentale" (con il microfono e quell'orologio
ostentato, di modello americano anch'esso, oltretutto lo stesso che aveva al
polso Clinton quando si faceva riprendere mentre faceva jogging, un classico
mediatico dei presidenti americani).
E
da questa parte abbiamo media impacciati, e un establishment non abituato a
fronteggiare un nemico che sa usare i mezzi, le forme, i tempi della
comunicazione di massa. Lo fa attraverso Al Jazeera ("la CNN del mondo
arabo", la chiamano), di cui i nostri media farebbero volentieri a meno,
ma non possono. Le routine di "produzione della notizia" impongono certi
ritmi e certo materiale. Se l'unica fonte è quella, a quella ci si deve
aggrappare. La CNN stavolta rincorre. Negli Stati Uniti si è cercato di porre
rimedio, attuando una specie di censura concordata sui comunicati e i filmati
veicolati attraverso Al Jazeera. Hanno paura dell'abilità propagandistica del
nemico (in verità ho paura anch'io) e lo censurano. Vecchia storia, ma non
c'eravamo più tanto abituati.
Adesso
arriva l'attacco biologico per via postale, direttamente ai media, per ottenere
un'amplificazione automatica esaltando i loro meccanismi autoreferenziali. In
questo "attacco biologico" si può addirittura percepire dell'ironia
da parte di Bin Laden, se pensiamo che il primo obbiettivo è stata una casa
editrice di tabloid di taglio nazional-popolare (tipo Novella 2000, per
intenderci), e tutto il nostro parlare di "virus informatici" inviati
per posta elettronica.Tutti riceviamo lettere, che dovremmo fare? Quanta
insicurezza trasmette quest'azione con strumenti così semplici! Quanto terrore!
(sarà banale, ma è bene ricordare che è questo il fine del terrorismo, oltre
l'attacco in sé). Per non parlare dell'immaginario dell'epidemia, atavico, e
inflazionato nella nostra cinematografia, studiatissimo dalla sociologia delle
comunicazioni di massa. Se questa situazione durerà abbastanza a lungo,
possiamo essere sicuri che spunterà la psicosi dell'untore, anche in forma
violenta. Se durerà oltre, e Bin Laden continuerà a nascondersi con successo,
spunteranno anche i predicatori che straparlano di maledizione divina inviataci
per la cattiveria dei nostri leader, dei ricchi e dei potenti (lo schema della
psicosi dell'epidemia è quello da sempre, e stavolta si applica facilmente).
L'abilità
di Bin Laden nella comunicazione è indiscutibile, ed è bene affermarla, visto
che qualcuno ha pateticamente tentato di dipingerlo come una "mezza
tacca". Anche perché bisogna distinguere. E' molto più comune l'abilità di
un pubblicitario che spinge la gente a comprare un prodotto perché identificato
con una promessa di benessere (schema applicato anche da qualche politico, a
destra e a sinistra), del carisma reale e profondo di chi convince qualcuno a
suicidarsi per una causa, sebbene facilitato da fattori religiosi. Non si
trattava, poi, di adolescenti disperati della striscia di Gaza, frustrati dalla
miseria e costretti all'ignoranza, bensì di giovani del ceto medio, che hanno
vissuto in occidente ed hanno pure, in qualche caso, studiato all'occidentale.