La solitudine del traduttore
Maria
Antonietta Saracino
SOTTO L'EMBLEMA DI BABELE GLORIE E
FATICHE DI UN'ATTIVITÀ LETTERARIA "INVISIBILE"
DAL RINASCIMENTALE LEONARDO BRUNI AL SEMIOLOGO PAOLO FABBRI, UN SENTIERO DI
LETTURA INTORNO ALLA TRADUZIONE COME SFIDA NECESSARIA E IMPOSSIBILE A TROVARE
UN ALFABETO COMUNE TRA LINGUE DIVERSE
A dar forma di parola alla necessità del tradurre, alla urgenza di trovare un
alfabeto comune tra culture e lingue diverse prima ancora che attorno a questo
tema si articolasse una riflessione, è stata forse una immagine, rivisitata più
volte nel corso dei secoli: l'immagine della Torre di Babele, icona e simbolo
di violenza, ma anche di creatività; minacciosa nella forza che promana, eppure
vitale nella spinta centripeta che è anticipazione di movimento, di nuovi tragitti
futuri. Come recita la Genesi: "E il Signore disse: 'Ecco, essi sono un
solo popolo e hanno tutti una lingua sola; questo è l'inizio della loro opera e
ora quanto avranno in progetto di fare non sarà loro impossibile. Scendiamo
dunque e confondiamo la loro lingua, perché non comprendano più l'uno la lingua
dell'altro'. Il Signore li disperse di là su tutta la terra ed essi cessarono
di costruire la città. Per questo la si chiamò Babele, perché il Signore
confuse la lingua di tutta la terra e di là il Signore li disperse su tutta la
terra". È possibile che proprio nel gesto del dio che colpisce l'arroganza
di una comunità ribelle condannandola alla pena più grande, la pena del non
poter comunicare, si sia fatta strada negli esseri umani la convinzione che
alla base di ogni trasmissione del sapere vi sia un atto di traduzione; per ciò
stesso ingenerando il bisogno di accoglierlo, quell'atto, di riconoscerlo e
infine codificarlo. Ma che il tradurre sia davvero l'esito di un gesto tutto
umano di ricomposizione del conflitto, o che così non sia, sta di fatto che il
mito di Babele è all'origine di numerosi saggi contemporanei su questo tema. Se
n'era occupato, tra i primi, Jacques Derrida, che in un saggio intitolato per
l'appunto Des tours de Babel - apparso in italiano nel 1982, con titolo
francese, sulla rivista "aut aut" - individuava nel gesto di Dio che
impedisce l'edificazione della torre la fine del progetto di una lingua
universale, ma anche la fine di una filiazione genealogica. Spezzando la sua
stessa discendenza Dio avrebbe proibito e contemporaneamente imposto la
traduzione, che per ciò stesso diveniva necessaria e impossibile.
Un passaggio impossibile Ed è proprio dalla energia che sempre si genera nello
scontro/incontro di elementi antitetici tra loro, la necessità e la
impossibilità, che ha origine una disciplina di difficile definizione. Che vera
disciplina non è, quanto piuttosto una competenza che si acquisisce più con la
pratica che con la riflessione teorica, ma che dell'una e dell'altra non può
fare a meno.
Indispensabile e paradossale: indispensabile perché consente il assaggio,
altrimenti impossibile, della comunicazione tra lingue diverse, ma paradossale
in quanto competenza che sembra esprimersi al massimo grado proprio quanto più
riesce a farsi invisibile, fin quasi a scomparire. Perché la traduzione
migliore, è opinione diffusa, sarebbe una traduzione talmente ben fatta da
consentire la fruizione di un testo, in una lingua altra da quella in cui è
stato scritto, come se quel testo non fosse mai stato tradotto. Un'idea,
questa, fortemente avversata da uno dei massimi teorici contemporanei della
traduzione, Lawrence Venuti, che nel saggio L'invisibilità del traduttore
(uscito nel 1999 per Armando) criticava con forza l'idea secondo cui solo il
testo-sorgente sarebbe da ritenersi l'opera, intesa come voce del suo autore,
di cui la traduzione potrebbe rappresentare, al meglio, solo una pallida copia.
Espressione, questa, di un'utopia di un mondo senza conflitti, di un passaggio
tra codici e sistemi linguistici che si produca annullando le differenze,
attraversando indenne le culture.
Intorno a questo passaggio, vero e proprio viaggio intorno alla torre biblica,
si articola un volume che è una pietra miliare nel campo del rapporto fra
traduzione e letteratura, ma anche fra traduzione e storia del pensiero e della
cultura (laddove per pensiero e cultura l'autore esplicitamente si riferisce a
quella occidentale), Dopo Babele di George Steiner, pochi mesi fa ripubblicato
da Garzanti (pp. 613, euro 21,50). Il testo, del 1975, è infatti stato
costantemente ristampato e aggiornato nella bibliografia e nelle prefazioni
autoriali, che danno conto al lettore dei passi che la disciplina ha compiuto
nel tempo. Un volume di oltre seicento pagine, un monstrum, come lo definisce
non senza autocompiacimento il suo autore, proprio nella nuova prefazione
all'ultima edizione. La riflessione di Steiner comincia ai piedi della torre di
Babele, allorquando, distrutta l'utopia della lingua unica, ogni atto comunicativo
può svolgersi unicamente passando attraverso forme di traduzione.
Presupposto di partenza è che la traduzione è implicita in ogni atto di
comunicazione: "Capire significa decifrare. La percezione dell'intenzione
di significare è una traduzione. Di conseguenza, i mezzi e i problemi
essenziali dell'atto della traduzione...sono tutti presenti negli atti del
discorso, della scrittura e della codificazione pittorica all'interno di
qualsiasi lingua".
Anche se è ovvio, prosegue Steiner, che la traduzione nel senso più usuale del
termine avvenga quando si incontrano due lingue. Luogo privilegiato sul quale
verificare la portata di tale incontro è per Steiner la letteratura. Eppure,
sostiene a ragione lo studioso, nella storia e nella letteratura la traduzione non
è mai stata un argomento di primaria importanza. In altri termini la si è
spesso usata come fatto di necessità, al tempo stesso sottacendone la presenza,
quasi che il sottolinearne l'esistenza sminuisse l'importanza del testo stesso,
portando alla luce una velata manipolazione. Ammettere di aver bisogno di
servirsi di una traduzione vuol dire infatti non disporre delle necessarie
competenze per accostarsi a un testo in lingua originale, essere costretti a
mantenere, nei confronti del testo in questione, una sorta di distanza.
E sarà certo per via di questo senso di disagio, che del tradurre venivano
spesso evidenziati i limiti, più che i pregi. Le traduzioni venivano accusate
di tradire il testo (come spesso peraltro accade), senza che a bilanciare le critiche
intervenissero altrettante riflessioni propositive.
Eppure, accanto alla produzione letteraria in senso stretto, esiste da lungo
tempo un'area di riflessione critica, rivolta alla traduzione, un'area
impossibile da codificare in quanto eterogenea, essendo ognuna delle
riflessioni che la compongono una sorta di esperienza a sé, frutto della
cultura, della sensibilità, degli interessi del singolo saggista. E che fin
dalle origini, di questo percorso, tra il 1420 e il 1426, si pone un
interrogativo: quale sia, e se esista, la traduzione perfetta. De
interpretatione recta si intitola uno dei primi moderni trattati sulla teoria
della traduzione, scritto in latino da Leonardo Bruni e di recente apparso in
italiano, con testo a fronte e un ricco apparato critico, sotto il titolo Sulla
perfetta interpretazione (Liguori, pp. 336, euro 15,50). Siamo all'inizio del
Quattrocento, e Bruni prende una precisa posizione critica nei confronti dei
traduttori del suo tempo, stabilendo le regole del tradurre. Una traduzione
recta sarà quella che aderirà all'originale "verbum ad verbum",
piuttosto che "ad sensum", o "ad sententiam", e alla quale
dovrà fare seguito una coerente capacità di esposizione da parte del
traduttore; il tutto esposto con una profusione di critiche e suggerimenti
talmente dettagliata, da fare di questo testo, come scrive Paolo Viti nella
solida prefazione che accompagna il volume, un punto di riferimento importante,
sul tema, nel panorama della cultura umanistica del primo Quattrocento. E se i
libri sono innanzitutto cibo spirituale, ecco Martin Lutero porsi, con grande
lucidità e in prima persona, nel 1530, il problema della traduzione del testo
biblico, in un tedesco che egli definisce lingua "perfettissima" in
sintonia con il suo tempo, dichiarando nella sua Lettera del tradurre - edito
qualche tempo fa da Marsilio, con testo a fronte in una edizione critica
ottimamente curata da Emilio Bonfatti - di aver conosciuto sulla sua pelle
quale difficile impresa sia il tradurre, quanto gli sia costato rimanere fedele
al dettato del testo sacro, ragion per cui non ammette critiche, perché, scrive
"quale arte e quale fatica sia tradurre, io l'ho provato davvero; per
questo non tollero che mi si giudichi, e mi si biasimi da parte di asini, asini
papisti, o asini quadrupedi, che non vi si sono cimentati affatto. Chi non
accetta il mio tradurre, lo lasci dov'è". E questo a differenza di quanto
avrebbe dichiarato, di lì a pochi decenni Cervantes, facendo dire a Don
Chisciotte che "tradurre dalle lingue facili non richiede alcun ingegno né
eloquio, così come non lo richiede copiare qualcosa passandola da un foglio a
un altro"; citazione, questa, con la quale il linguista Benvenuto
Terracini apriva nel 1983, Il problema della traduzione, uno tra i primi illuminanti
saggi teorici a comparire in Italia in tempi recenti, dando visibilità, in
maniera articolata, non solo ai molteplici aspetti del rapporto
letteratura-traduzione, ma anche, tra i primi, alla figura del traduttore, che
egli definisce, affettuosamente, un "cambiavalute del linguaggio".
Nei molteplici modi di affrontare questo tema, vale la pena di ricordare come,
all'interno dell'ampio settore degli studi culturali (ma con un taglio più
marcatamente antropologico) si collochino diversi volumi che, pur non entrando
in maniera specifica nel merito della traduzione, intesa come disciplina, a
questo strumento fanno riferimento nei termini di una consapevolezza della
importanza della traduzione nell'incontro tra culture, e in special modo tra
culture dominanti e culture colonizzate. Studi nei quali una antropologia e una
etnografia non più segnate da un marcato eurocentrismo, ma anzi da una reale
apertura critica, lavorano fianco a fianco con la sociologia, la letteratura,
l'economia e la demografia, avvalendosi degli apporti di studiosi indiani,
africani o del sud del Pacifico, soprattutto provenienti all'ambito delle
scienze umanistiche. Capofila di questa tendenza è senza dubbio James Clifford,
di cui - dopo Strade. Viaggio e traduzione alla fine del secolo XX e I frutti
puri impazziscono. Etnografia, letteratura e arte nel secolo XX, editi entrambi
da Bollati Boringhieri - è uscito da poco Ai margini dell'antropologia
(Meltemi, pp. 215, euro 12) che raccoglie cinque interviste al grande studioso,
sui temi della sua ricerca, da parte di altrettanti etnologi provenienti da
diverse aree del pianeta, che danno vita a una sorta di "pensare insieme
ad alta voce" sui cambiamenti di una comune disciplina. E partendo da una
prospettiva di multilinguismo e di multiculturalismo torna ora a occuparsi di
traduzione in una raccolta di scritti brevi, intitolata Segni del tempo. Un
lessico politicamente scorretto (Meltemi, pp. 262, euro 20,50), il semiologo
Paolo Fabbri, che già aveva affrontato questo tema in Elogio di Babele. La
nostra Babele quotidiana, scrive Fabbri, è diventata una evidenza fattuale. Ma
forse "siamo così soprappensiero da perdere di vista un concetto
sottomano: il tradurre. È evidente che la multiculturalità impone uno sforzo
costante e ininterrotto di traduzione, linguistica e culturale ... Questa
traduzione non è parola per parola, ma discorso per discorso; non riguarda solo
il linguaggio, ma tutti i sistemi di segni... Non è soltanto comunicazione, ma
trasformazione; il traduttore è un traditore, inevitabile e
indispensabile".
E proprio la figura - "inevitabile e indispensabile" - del
traduttore, senza la quale ogni discorso sul tema verrebbe meno, ha ispirato un
gran numero di riflessioni e racconti. Filtro umano, parete di vetro,
traditore, interprete, mediatore, traghettatore di parole: le definizioni e i
sinonimi non si contano.
Protagonista di avventure della parola, di un mestiere poco apprezzato e mal
pagato, solitario, spesso solo. Scrive Paul Auster: "A. siede nella sua
stanza a tradurre il libro di un altro, ed è come se entrasse nella solitudine
di quell'uomo facendola propria. Ma questo è irrealizzabile, perché quando si
apre una falla nella solitudine, quando di una solitudine si impossessa qualcun
altro, non è più solitudine, ma una specie di compagnia. Anche se nella stanza
c'è una persona sola, in realtà ce ne sono due".
Cavalieri erranti
Della vita del traduttore parla con ironia lieve Laura Bocci nel recente Di
seconda mano. Né un saggio né un racconto sul tradurre letteratura (Rizzoli,
pp. 193, euro 15), ma poche narrazioni, su questo tema, possono competere per
intensità ed emozione con La vita agra, un testo del 1962 di Luciano Bianciardi
(ripubblicato nel 2001 da Bompiani), autobiografia di un traduttore in forma di
romanzo. E di questa nobile e faticosa attività, converrà in conclusione
ricordare quanto hanno detto due grandi traduttori, Fruttero e Lucentini, nei
Ferri del mestiere. Manuale involontario di scrittura, uscito per Einaudi qualche
mese fa: "Il problema del tradurre è in realtà il problema stesso dello
scrivere e il traduttore ne sta al centro, forse ancor più dell'autore. A lui
si chiede di essere insieme, e a freddo, Napoleone e il suo più infimo furiere,
di avere lo sguardo d'aquila dell'uno e la maniacale pignoleria dell'altro. Gli
si chiede di dominare non una lingua, ma tutto ciò che sta dietro una lingua,
vale a dire un'intera cultura, un intero mondo, un intero modo di vedere il
mondo... Gli si chiede infine di condurre a termine questa improba e tuttavia
appassionata operazione senza farsi notare, senza mai salire sul podio o a
cavallo... per questo i cinici editori l'hanno sempre retribuito male. Essi
sanno di avere a che fare con un asceta, un eroe essenzialmente disinteressato,
pronto a dare tutto se stesso in cambio di un tozzo di pane e a scomparire nel
crepuscolo, anonimo e sublime, quando l'epica impresa è finita. Il traduttore è
l'ultimo, vero, cavaliere errante della letteratura".