Io
traduttrice rompiscatole
Serena
Vitale
La mia prima traduzione (Praga non tace, Guanda, 1969) vide la luce
quando avevo ventiquattro anni; la firmai con uno pseudonimo, "Ljudmíla
Nováková", che mi permise di tornare più o meno indenne nella
Cecoslovacchia 'normalizzata' dai carri armati. E poi ho tradotto (dal ceco,
dal russo) almeno altri trenta libri. Di una traduzione mi vergogno, su alcune
tornerei per correggere e limare, di due o tre sono quasi soddisfatta. Ho
'rivisto' non so più quante traduzioni altrui, ho contagiato con l'amore per la
traduzione un numero incalcolabile di studenti, ho eroicamente lottato con due o
tre insensibili, un po' ottusi traduttori stranieri (francesi, soprattutto) dei
libri da me scritti. Oggi traduco, per i Meridiani Mondadori, tutta l'opera di
Osip Mandel'stam, il poeta che più amo. In certi momenti di esaltazione e
megalomania immagino che Dio mi regalerà dieci anni in più del previsto per
darmi il tempo di tradurre tutto Dostoevskij. Ho un unico libro nel cassetto:
le lettere (e-mail da qualche tempo) scritte a traduttori principianti; con
suggerimenti, correzioni, esortazioni, a volte tremende sfuriate. Evito come
luoghi di malaffare dibattiti e tavole rotonde sul tema;
"traduttore-traditore", "belle e infedeli". Mi fa
rabbrividire come quando le unghie, a scuola, raschiavano l'ardesia della
lavagna anche il suono della parola "traduttologia".
Nel trionfo di Master, Stage, "Moduli professionalizzanti", altri
impiastri e cerotti con cui si cerca di chiudere (forse solo dissimulare) le
piaghe della moribonda università patria, nelle facoltà letterarie è molto di
moda, oggi, la traduttologia: "scienza del tradurre". Se scienza è un
"insieme definito di conoscenze e di metodi per estenderle", la
traduttologia non può esserlo: non ha non può avere uno degli aspetti
costitutivi delle scienze, quello normativo. I sogni non si regolamentano, non
si "normalizzano". Giacché la traduzione di una cosa (poesia,
racconto, romanzo) è il nostro sogno di quella cosa.
Gli elementi del reale - di un organismo verbale si riaggregano in un ordine
imprevisto, che nessuna teoria può prevedere: un'assonanza impossibile al verso
13 riaffiora di colpo al verso 31, un gioco di parole "intraducibile"
nell'epilogo si impone come necessario nel titolo. Diversa distribuzione degli
atomi di un corpo vivo, riunione di segni e sensi secondo nuove leggi
spazio-temporali.
Ma proviamo per un attimo a immaginare una scuola ideale, con tutti gli
insegnamenti indispensabili (la lingua italiana, innanzitutto, e poi l'immenso
scibile: dall'Agronomia alla Zootecnia), e uno studente ideale: sagace,
zelante. Terminati a pieni voti gli studi, sarà per questo, automaticamente, un
bravo traduttore? No, è verità lampante.
Conosco ottimi traduttori che possono sbagliare parlando la lingua da cui
traducono, e che nella vita sono persone scialbe, noiose, apparentemente prive
di qualsivoglia talento. Conosco per contro illustri e brillanti accademici,
maestri nella conoscenza della lingua madre e della lingua matrigna, che
traducono in modo scialbo, noioso, senza suscitare in chi legge l'amore per ciò
che sta leggendo.
Il fatto è che il mestiere del traduttore letterario (di mestiere si tratta, e
i giovani dovrebbero stare lungamente a bottega, apprendendo per imitazione e
simbiosi) richiede "materie" difficilmente insegnabili.
Provo a farne un elenco sommario.
L'orecchio: per la lingua madre, innanzitutto. Imporre a un autore, per esempio
a Dostoevskij, paroline come "gratificante",
"coinvolgente", "piuttosto che" eccetera è peccato più
grave che scambiare (stanchezza e lapsus sono sempre in agguato) "bianco"
per "nero".
La passione: per il testo da tradurre, come per un amante clandestino.
Continuare a pensare a lui mentre ci si lava i denti, si fa la spesa,
borbottarlo mentre si cammina per strada, spesso scambiati per pazzi.
Ripeterlo finché il ritmo e il respiro giusti non si impongono con l'evidenza
della follia, dell'allucinazione sonora. Il traduttore: Posseduto.
L'umiltà: non innamorarsi delle proprie parole, annullare completamente il
proprio vanitoso ego stilistico per ri-crearsi ogni volta nel linguaggio dello
scrittore che si traduce. Non cercare di abbellirlo, di fare meglio di lui. Il
traduttore: AntiNarciso.
La perseveranza: alzarsi mille volte dal tavolo, arrampicarsi su sgabelli e
scale per raggiungere enciclopedie, atlanti, dizionari, manuali, andare in
biblioteca, telefonare a consulenti (cugino-seminarista, zio-ingegnere,
nonno-generale in pensione) mai vergognarsi di chiedere. Il traduttore:
Rompiscatole, temibile e temuto.
La disciplina: andare ogni mattina allo scrittoio come un operaio al tornio.
Consultare sempre il dizionario. Continuare a studiare, sempre, anche a
sessanta, settant'anni.
La rinuncia: al sonno, a un film, a una passeggiata eccetera.
All'estetica - non ho mai conosciuto bravi traduttori senza un po' di cellulite
o di pancia. Più ancora che le mani e la testa, la parte più importante del
corpo di un traduttore è il sedere. E ancora buon gusto, eleganza, letture,
letture, letture. Infine: un buon redattore, più prezioso di qualsiasi teoria
traduttologica.
La ricompensa? Non il denaro (ma bisogna pretendere il massimo, perché sarà
comunque il minimo, parafrasando la massima di Peppo Pontiggia).
Non il tuo nome a stampa (che tanti editori dimenticano comunque dì stampare).
E non nei cieli, o in un'altra vita. Molto più vicino: da qualche parte nella cassa
toracica, a sinistra.
("Il Sole-24 Ore", 23
gennaio 2005