C’ERA UNA VOLTA IL FUTURO
Remo Bodei
Guardando indietro alla
storia umana, si rischia di essere colti da un sentimento di sgomento al pensiero
delle fedi politiche e religiose ripudiate, delle lingue morte, dei popoli
scomparsi, delle vite che non hanno lasciato alcuna traccia di sé. Tutto ciò,
per fortuna, non impedisce a individui e comunità di ricominciare sempre da
capo a riprogrammare il futuro.
Se ci domandiamo quali sono state le speranze o le paure che hanno sorretto o
orientato centinaia di milioni di uomini nel Novecento appena trascorso, ci
accorgiamo che le previsioni ideologicamente più accreditate non si sono finora
adempiute. Sembra così trovare conferma la tesi di John Maynard Keynes, secondo
cui “ l’inevitabile non accade mai, l’inatteso sempre”. Il “tramonto
dell’Occidente” non si è verificato; la marxiana “società senza classi” è
sostanzialmente scomparsa dall’orizzonte delle attese, al pari dell’avvento del
liberale “regno della libertà” o del trionfale e omogeneo progresso prefigurato
dal positivismo. Anche le più recenti, catastrofiche prospettive del Club di
Roma sull’imminente esaurimento delle risorse si sono rivelate eccessivamente
pessimistiche.
Sta, in ogni caso, drasticamente diminuendo la capacità di pensare a un futuro
collettivo, di immaginarlo al di fuori delle nostre aspettative private. La
storia appare orfana di quella logica intrinseca che si credeva dovesse
indirizzarla verso un determinato obiettivo. Tramonta una cultura, che – tra
Ottocento e Novecento – aveva indotto miliardi di uomini a ritenere che gli
eventi marciassero ineluttabilmente in una certa direzione, annunciata o
prevedibile. A lungo, infatti, essi sono stati abituati a ritenere che
l’intervento umano consapevole fosse in grado di abbreviare il tempo necessario
al prodursi dell’inevitabile, di “accelerare le doglie del parto”. Caduta,
senza essere stata confutata, l’idea di un’unica Storia orientata, il nostro
tempo storico sembra, ora più che mai, disperdersi in una pluralità di storie
(con la s minuscola) non coordinate, in peripezie personali
blandamente collegate alle vicende comuni. Non potendoci più situare
all’interno di un’epoca che si rapporta a un passato di tradizioni
relativamente salde o a un futuro remoto di aspettative prestabilite,
l’avvenire riacquista la sua natura di assoluta contingenza o di luogo di
esplicazione di forze che sfuggono al controllo degli uomini (si mostra cioè
meno programmabile o, di nuovo, nelle mani di Dio).
I contraccolpi di questa situazione sono molteplici. Si trasforma, in primo
luogo, l’idea del futuro come tempo dell’attesa, dell’imminenza del Regno di
Dio o della Rivoluzione. L’immagine della propria esistenza come momento
preparatorio a un’altra vita, in senso religioso, o come strumento laico di
edificazione di un avvenire radioso – che però conosceranno solo i nostri
pronipoti – diventa arduo da concepire e da difendere. Molte situazioni, della vita
delle persone (dolore, malattia, vecchiaia, morte) vengono ora intimamente
giudicate irredimibili, perché non possono più essere ritenute seriamente
riscattabili né in un aldilà religioso, in una condizione di beatitudine
celeste, né in un futuro terreno di armonica ricomposizione dei conflitti. La
trasformazione “alchemica” delle sofferenze patite nel presente per mezzo delle
gioie fatte balenare nell’avvenire, sembra ormai a molti impraticabile.
La contrazione delle aspettative all’arco della sua sola esistenza fisica,
immerge il singolo nel tempo irredimibile della caducità, lo costringe a
elaborare il lutto causato dal dover trapiantare le radici del proprio io dal
solido e immutabile terreno dell’aldilà o dai tempi epocali della storia non
friabile e transeunte suolo del proprio corpo, della propria biografia o dell’entourage
delle persone e delle istituzioni a lui più vicine. Spesso, a questo disagio
reagisce oggi mediante la strategia di mettersi a coltura intensiva il
presente, di farlo fruttare al più presto, senza preoccuparsi di quel che
avverrà nel futuro prossimo. Ciò comporta però la desertificazione
dell’avvenire e rischia inoltre di creare una mentalità opportunistica e
predatoria.
In secondo luogo, il tramonto delle grandi attese collettive, che sino a una
decina di anni fa (quando il mondo era ancora diviso in due blocchi)
orientavano, seppur ideologicamente, miliardi di uomini, porta tendenzialmente
a una privatizzazione del futuro stesso e alla fabbricazione di utopie su
misura, fatte in casa. Non s’intravede né la realizzazione degli ideali di
eguaglianza, né l’effettiva espansione della libertà a un numero sufficiente di
individui. Nascono e si diffondono così le frustrazioni. Le società
tradizionali possedevano, infatti, strumenti abbastanza efficaci sia per
compensare gli uomini degli eventuali svantaggi della loro condizione, sia per
giustificare le gerarchie. L’accettazione dei limiti e delle privazioni della
vita trovava il proprio risarcimento nella prospettiva di una ricompensa in
cielo e le prassi politiche dominanti facevano sì che di rado venisse in mente
ai più sfavoriti di aspirare ai livelli alti della scala sociale. Le società
democratico-egualitarie moderne hanno invece aperto una falla nel dispositivo
di inibizione delle aspettative, collaudato da millenni. Proclamando
solennemente il diritto di tutti gli uomini all’effettiva eguaglianza e
all’eliminazione di tutti gli ostacoli che potrebbero frenarla, legittimano le
aspirazioni di ciascuno a superare la soglia della propria condizione di
partenza per innalzarsi ai vertici della piramide sociale, alle cariche, alla
ricchezza o al prestigio.
Di fronte al presagibile naufragio dei molti che non riusciranno mai a far
collimare i propri ideali con la realtà, tali società hanno dovuto elaborare
molteplici tecniche per gestire le frustrazioni che nascono dal fatto che le
loro promesse non possono essere esaudite. I progetti di donazione di un senso
collettivo alla storia costituivano, appunto, una delle forme di compensazione
e di risarcimento differito per le attese individuali inappagate. Rinviando la
realizzazione di una società perfetta alle future generazioni, legittimando il
sacrificio delle generazioni presenti, riempivano di senso la vita degli
individui. Oggi questo transfert, questo meccanismo di dilazione non funziona
più.
Come possiamo oggi “defuturizzare” il futuro, aumentare cioè le nostre capacità
di previsione, passare da una cultura della necessità a quella della congettura
razionale e della complessità e incertezza a essa collegata? L’attuale turbine
degli eventi, la moltiplicazione degli attori sociali (più di sei miliardi di
uomini distribuiti in oltre duecento Stati), lo sviluppo impressionante delle
tecniche e dei saperi scientifici, la volatilità dei mercati finanziari, la
situazione storica in cui le grandi civiltà della Terra continuano a non
riconoscersi sufficientemente nei loro peculiari valori, la biforcazione tra
processi centripeti e processi centrifughi di isolamento, lo strabismo tra
integrazione e frammentazione che caratterizzano il nostro presente storico,
permettono ancora un qualche credibile pronostico razionale d’insieme?
È evidente che alcune previsioni a livello locale o in campi specialistici
ristretti mostrano una sufficiente attendibilità. È però altrettanto chiaro che
la loro confluenza, il loro incastro o il loro montage in un disegno
complessivo rivelano un’arbitrarietà e un’incertezza ben misurabili attraverso
lo scarto, nella terminologia di Niklas Luhmann, tra il “futuro presente”
(ossia il futuro ipotizzato oggi) e il “presente futuro” (quello in cui la
previsione odierna si sarà più o meno realizzata). Pur disponendo di un
altissimo numero di informazioni e di scenari alternativi – come accade al
presidente americano Kennedy durante la crisi dei missili a Cuba nel 1962 –, il
rischio e l’incertezza dell’agire lascia larghi e ineliminabili margini di
indecidibilità. Come aveva già osservato Max Weber nel saggio La borsa
del 1894, l’imprevedibilità dipende soprattutto da imponderabili fattori
emotivi, come il panico. Dall’invenzione della moneta cartacea all’andamento
delle borse, essi mostrano, infatti, come nel frutto stesso della razionalità
economica moderna possa annidarsi il verme dell’irrazionalità.
Nessun individuo od organizzazione appare oggi capace di fornire previsioni
globali a medio raggio su cui fare affidamento (con l’eccezione, forse, delle
proiezioni demografiche sino al 2030). Ciò non esclude, ovviamente, che si
debba puntare a una ricomposizione “ben temperata” di congetture parziali,
razionalmente ed empiricamente vagliate nei loro gradi di probabilità. Anzi, è
questo l’imperativo più urgente, soprattutto perché il tempo per rimediare a
situazioni di crisi annunciate sembra sempre più scarso.
Che fare? Siamo tutti emigranti nel tempo: ci spostiamo dal presente noto verso
un comune futuro ignoto. Ogni istante serve da ponte e, insieme, da cesura
rispetto al successivo. Abbiamo bisogno della memoria del passato come
esperienza e dell’attenzione del presente teso a “defuturizzare” l’avvenire. Ma
anche, e indissolubilmente, della rischiosa apertura al futuro, della capacità
di pensare il nuovo e il possibile, cui si accede mettendo in gioco le
posizioni raggiunte, con una audacia progettuale in grado di appellarsi a quelle
riserve di energia che si manifestano nei momenti di pericolo. Molte previsioni
non si realizzano, molte speranze sfioriscono, ma noi testardamente continuiamo
ad andare avanti, riformulando le nostre aspettative. Del resto, cos’altro
potremmo fare?
(Tratto da “Il Sole 24
Ore” del 15 Agosto 2004)