LA STORIA DEL MAGGIORE SIMIN'KOV
Anatolij Gavrilov
...Esiste un'idea
generale che a volte conferisce a tutti questi individui austeri riuniti
insieme la bellezza dell'autentica grandezza: l'idea dell'abnegazione.
ALFRED DE VIGNY, Servitù e grandezza della vita militare
È poco probabile che la
storia dell'ufficiale della guardia Nikolaj Ivanovich Simin'kov, che ora mi
accingo a raccontare, abbia avuto a suo tempo qualche risonanza nelle alte
sfere dei militari di carriera delle Unità Missili, eppure oggi, col passare
degli anni, mi appare tristemente significativa.
Alla metà degli anni sessanta, un giovane ufficiale con un'aria da dandy fece
la sua apparizione nel battaglione missili dove io, con il grado di capitano,
comandavo una compagnia di posatori di mine. La divisa di taglio perfetto, la
valigia di pelle naturale, il portasigari d'argento ornato di un monogramma e
dell'emblema delle Unità Missili, le sigarette Erzegovina Flor che fumava,
l'aroma delicato della sua costosa acqua di colonia, l'andatura, il modo di
parlare, tutto in lui rivelava un uomo di mondo estremamente sicuro di sé, un
uomo fuori del comune.
Ora mi permetto di dire qualche parola sulla dislocazione del nostro
battaglione e sul suo stile di vita.
Il nostro battaglione stazionava nel folto di boschi paludosi completamente
circondati da fili di tantalio del sistema d'allarme, dalla ragnatela d'acciaio
delle trappole e dai fili ad alta tensione, ma noi alloggiavamo con le nostre
famiglie nel villaggio di Glyboch, a una quarantina di chilometri di distanza.
A quel tempo il nostro battaglione era comandato da Fedor Stepanovich Suprun,
un militare che aveva laboriosamente percorso tutti i gradi della carriera, da
quello di maresciallo a quello di tenente colonnello. Era una persona dal
carattere piuttosto duro e, come si suoi dire, portata agli eccessi. Non si
faceva troppi scrupoli a lasciare il suo battaglione per alcune ore sotto la
pioggia o la neve senza che ce ne fosse una ragione particolare, a ordinare ai
suoi uomini di assistere alle lezioni di educazione politica con le maschere
antigas o a umiliare un ufficiale davanti ai suoi soldati... Compensava le sue
lacune nella preparazione tecnica – e noi avevamo apparecchiature
particolarmente sofisticate, – con uno zelo fanatico per tutto ciò che
riguardava l'ordine e la disciplina. Pur avendo una famiglia, poteva restare
per settimane o anche per mesi senza abbandonare il suo battaglione, magari
solo per arrivare a mettere in luce qualche piccolezza. Ciò nonostante,
sembrava che i suoi soldati gli volessero bene, e anche lui, forse perché
memore degli inizi della sua carriera, li amava a suo modo. Detestava invece
gli ufficiali, soprattutto i giovani ufficiali istruiti che tentavano di
mostrare in un modo o nell'altro la loro indipendenza di giudizio o d'opinione.
E, con disprezzo, li soprannominava `ballerine'.
Così, tenuto conto anche di una certa monotonia tipica della nostra vita e del
carattere di Suprun, non fu senza una certa eccitazione curiosa che comparimmo
al Quartier Generale per la cerimonia di presentazione di un nuovo arrivato,
classificabile per l'aspetto esteriore e le maniere, senza dubbio, nella
categoria delle `ballerine'.
Ormai, purtroppo, non ricordo più i dettagli, ma posso affermare con certezza
che il giovane Simin'kov superò degnamente quella prima prova. Non un muscolo
del suo bel viso fremette di fronte alle offese e alle parole di scherno del
comandante. "Sarà pure un dandy, ma è un osso duro," pensammo noi, "chissà
che cosa lo aspetta?"
Lo aspettavano, come era da immaginarsi, altre prove. Il giovane e inesperto
ufficiale fu nominato comandante del reparto più difficile sotto tutti gli
aspetti: la squadra rifornimento carburante della 5' compagnia di lancio. Il
ragionamento del colonnello Suprun era chiaro come il sole: e adesso,
ballerina, vediamo come te la cavi con le piroette!
Da allora non passò giorno senza che Suprun non facesse una visita alla
compagnia e sbeffeggiasse Simin'kov a proposito di questa o di quell'altra
inadempienza, e le inadempienze lì non mancavano di certo. A quel tempo la 5'
compagnia era comandata dal capitano Viktor Petrovich Naumchik che,
abbandonandosi continuamente a eccessive libagioni di alcol etilico, non era
nelle condizioni di prendere le difese di Simin'kov.
Simin'kov, dal proprio canto, con la sua impassibilità non faceva altro che
buttare legna sul fuoco. Così, una volta che rimanemmo soli a pranzo, gli
consigliai di non irritare più il vecchio ma, al contrario, di trovare il modo
di accattivarsi la sua benevolenza.
– Vouz comprenez, mon cher, – rispose Nikolaj Ivanovich picchiettando una
sigaretta sul coperchio del suo splendido portasigari. – Il mio unico principio
è il regolamento, sicché non ho alcuna intenzione di assecondare i capricci di
Suprun; dover discutere con lui sarebbe per me di una noia mortale, mi creda...
I Suprun passano, ma noi restiamo. Il mio dovere è servire la Patria. Tutto il
resto sono sciocchezze, n'est-ce pas, mon cher?
A questo punto devo aggiungere che Simin'kov aveva studiato in una fra le più
prestigiose accademie militari dove gli allievi ricevevano un'istruzione
esemplare che garantiva loro favorevolissime prospettive per il futuro. Quando
lo venimmo a sapere, fummo sorpresi non poco di vedere che un ufficiale di tale
levatura fosse stato inviato nello sperduto paese in cui ci trovavamo. A questo
proposito, nei suoi riguardi, giravano nelle file del nostro battaglione voci e
congetture tra le più svariate, ma la versione più accreditata riportava che
l'ufficiale sarebbe stato mandato al confino a causa di certi contatti con la
massoneria... Del resto Nikolaj Ivanovich non confidava i suoi segreti a
nessuno, conduceva una vita isolata e nulla sembrava interessarlo a parte il
servizio.
Dopo qualche tempo riuscì a far sì che il suo reparto risalisse la china, e
perfino il Gatto Nero in persona (era questo infatti il soprannome del
comandante di divisione), il generale Bondarenko, lodò le sue esercitazioni. In
seguito fu chiaro che la sua ascesa era voluta dall'alto, contro la volontà e i
desideri di Suprun.
Sei mesi più tardi fu nominato aiutante tecnico del comandante della 5'
compagnia e un anno dopo era già capitano e comandava la medesima compagnia al
posto dello sfortunato Naumchik che ormai era diventato alcolizzato cronico ed
era stato trasferito all'intendenza. Tutto questo veniva compiuto, come ho già
detto, scavalcando Suprun.
Questi era infuriato, ma la sua era già la furia dell'impotenza: non poteva
certo opporsi alla volontà del Gatto Nero... E così dagli attacchi diretti
passò ai colpi bassi, e bisogna dire che eccelleva anche in quest'arte.
Simin'kov però continuava a mostrare sangue freddo, seguiva il regolamento alla
lettera con una certa ostentazione e suscitava l'ammirazione di tutti anche
perché non aveva mai, in alcuna occasione, fatto pesare la sua posizione
illuminata dalla stella del generale...
Il compito che Nauméik gli aveva lasciato in eredità non era dei più facili: la
5' compagnia si distingueva sia per le sue sregolatezze che per una forte
propensione al dolce far niente, e tuttavia Nikolaj Ivanovich riuscì, in un
tempo assai breve, non solo a disciplinarla, ma perfino a renderla un'unità
esemplare. Il gagliardetto rosso non abbandonava più la sala Lenin della
compagnia che sotto il suo comando era stata completamente trasformata
divenendo un modello di design militare, di maturità politica e di comfort
quasi domestico. Pure la caserma con tutti i suoi magazzini, i suoi locali di
servizio e il suo territorio circostante risplendeva di ordine e pulizia. E per
quanto riguardava i corsi di educazione politica, le lezioni di Nikolaj
Ivanovich erano straordinariamente interessanti. Parlava sempre con
spontaneità, senza i soliti appunti, senza la pesantezza e le sgrammaticature
tipiche degli altri oratori. Era proprio un piacere starlo a vedere e sentire,
cosa che noi facevamo, cercando di farci invitare alle sue lezioni...
Era immancabilmente cordiale con i soldati i quali però, almeno così credo, non
potevano non avvertire dietro questa cordialità una certa freddezza insita
nella sua natura, e pertanto, più che volergli bene, ne erano un po'
intimoriti. Non ho difficoltà ad ammettere che qualcosa potesse irritarli in un
comandante di questo tipo e persino, a volte, suscitare il loro odio, come ad
esempio l'espressione `mio caro' con cui lui puntualmente si rivolgeva loro e
che poteva essere benissimo seguita da una lavata di capo se non da una
punizione. Questa espressione, tra l'altro, irritava pure Suprun, anzi lo
faceva andare su tutte le furie. Spesso forniva il pretesto per vari processi
disciplinari e perfino ricorsi al Comando Supremo destinati a rimanere,
tuttavia, senza gravi conseguenze per Simin'kov...
Quanto al resto, devo far notare che il nostro eroe era scapolo e che le donne
mostravano un certo interesse nei suoi confronti che lui corrispondeva solo
limitandosi a pronunciare galanti frasi di circostanza, senza stringere con
loro quei rapporti che tra noi ufficiali indicavamo con l'espressione
'ritorcere lo spago'.
Ripenso al giorno dell'anniversario del reggimento quando, al concerto che si
tenne in presenza anche delle nostre consorti, la moglie del vice commissario
politico Tkacevskij strizzava l'occhio ora al nostro comandante ora al
marito...
Credo di aver già menzionato il fatto che Nikolaj Ivanovich conducesse una vita
piuttosto ritirata: non partecipava alle nostre abituali bisbocce, evitava le
barzellette e le volgarità.
Spesso la mattina eravamo mosci, cupi e irritabili, tanto più che ci aspettava
un tragitto di una quarantina di verste di scosse lungo una strada tutta buche
che era stata spianata tra i boschi da ignoti forzati Dio sa quanti anni prima;
lui, invece, ogni giorno alla solita ora si dirigeva con passo energico verso
l'automezzo, saliva con un salto leggero e, facendo scorrere lo sguardo sulla
nostra triste comitiva, sorrideva e domandava puntualmente: "Qu'est-ce que
c'est, carissimi?"
Una volta che ero di servizio, dopo aver considerevolmente alzato il gomito con
il capitano Postoj, rientrando nell'albergo degli ufficiali sbagliai porta e mi
ritrovai nella camera di Simin'kov, anche lui di servizio quella settimana.
Dentro non c'era nessuno e io, credendo che fosse la mia camera, mi accingevo
già ad andare a letto per fare una bella dormita, quando all'improvviso gettai
per caso un'occhiata al tavolo illuminato e mi resi subito conto di trovarmi
nella camera di qualcun altro. Sul tavolo c'era un portasigari con il
monogramma SNIM che voleva dire `Simin'kov Nikolaj Ivanovich, Missili', un
posacenere di gesso a forma di teschio fabbricato dal soldato Prokatov, un
bravo artigiano del nostro battaglione, e un grosso libro, sulla cui copertina,
dopo essermi avvicinato al tavolo, potei leggere il titolo: Bonaparte.
"Ecco come stanno le cose!" pensai io, ridiventato immediatamente
lucido, mentre battevo in ritirata...
Nikolaj Ivanovich non rimase a lungo comandante di battaglione. Durante le
esercitazioni la sua compagnia dimostrò uno straordinario affiatamento e
un'eccezionale abilità pratica, e quando l'avversario convenzionale fu
convenzionalmente distrutto da una convenzionale testata nucleare, il Gatto
Nero diede a Simin'kov una pacca sulla spalla, proprio lì dove in brevissimo
tempo sarebbe comparsa una splendente stella di maggiore. E poco più avanti fu
nominato capo dello Stato maggiore del nostro battaglione al posto di Viktor
Mitrofanovich Korzuk che era andato in pensione.
Ormai non ci meravigliavamo più della carriera folgorante del giovane ufficiale
e immaginavamo la sua ascesa verso sfere ancora più elevate. I più lungimiranti
fra noi già da tempo cercavano di guadagnarsi la sua amicizia, si profondevano
in lusinghe e adulazioni. Solo Suprun lo guardava cupo: aveva infatti buoni
motivi per pensare che la successiva promozione di Simin'kov sarebbe ricaduta
sul suo posto, il posto di Suprun, il posto di comandante di battaglione.
Era chiaro ormai che doveva rinunciare persino ai suoi colpi bassi, e solo
malcelati sguardi di disprezzo e ostilità rivelavano i suoi veri sentimenti nei
confronti del giovane ufficiale. Quegli sguardi sembravano voler dire: è ancora
presto per cantar vittoria...
Simin'kov invece lo trattava con semplicità e naturalezza, lo chiamava per nome
e patronimico e sembrava non serbargli alcun rancore, anche se indubbiamente
dietro quella sua semplicità si poteva intuire una sorta di accondiscendenza
nei confronti del vecchio. Suprun lo sentiva e s'andava incupendo sempre più...
Anche nell'esercizio delle sue nuove funzioni Simin'kov mostrò le sue doti
migliori, e noi aspettavamo con una certa impazienza la sua ennesima
promozione, quando di colpo avvenne... la caduta.
Sebbene io utilizzi questa parola in senso lato, alludo in primo luogo
all'effettiva caduta di Simin'kov durante una marcia solenne e in presenza di
alte personalità dell'esercito con il Gatto Nero, il generale Bondarenko, in
testa.
Andò così. Dopo tre giorni di esercitazioni e un bilancio provvisorio in cui
eravamo stati giudicati assai favorevolmente, ora il nostro battaglione se ne
stava allineato sulla piazza d'armi per il cambio della guardia. Il tempo era
inclemente. Nuvole pesanti si trascinavano sopra il bosco autunnale e
riversavano ora pioggia minuta, ora neve, ora grandine. Quei tre giorni ci
avevano spossato e attendevamo con impazienza un buon pranzo nel calore della
mensa degli ufficiali, e magari con l'occasione il generale Bondarenko, tenendo
conto dei nostri lodevoli sforzi, ci avrebbe permesso di bere un bicchierino o
due perché potessimo riscaldarci e rilassarci un po'.
Anche Bruj, militare in ferma volontaria che prestava servizio presso
l'intendenza, era stato visto uscire un attimo sul terrazzino della mensa col
suo tanto rinomato fusto pieno di alcol, e questo ci restituiva le forze e
alimentava le nostre speranze. La cerimonia del cambio della guardia seguiva il
suo corso ordinario: venivano gridati i comandi, venivano ascoltati i rapporti.
La bandiera venne lentamente issata all'attacco dell'inno nazionale, dopodiché
il nostro battaglione girò a destra; al suono della marcia trionfale, divisi in
batterie, fronte a sinistr, passammo davanti alla tribuna dove la figura del
Gatto Nero, con un imponente copricapo in testa che torreggiava sopra lo
sguardo fiammeggiante, si stagliava contro lo sfondo del suo seguito. Un po'
più in là, alla sua sinistra, si poteva vedere Suprun, curvo e con
un'espressione cupa sul volto...
Nikolaj Ivanovich Simin'kov conduceva il nostro battaglione. Devo ammettere che
non c'era persona, non solo nel nostro battaglione e nel nostro reggimento, ma,
suppongo, neanche in tutta la divisione, che potesse uguagliarlo nella figura,
nel portamento e nel passo. Nel suo passo cadenzato l'alta precisione del
militare si sposava in maniera sorprendente con la leggerezza e la grazia
dell'aristocratico; era un passo di alta classe che non avrebbe sfigurato in
una parata del rango più alto. Ed era triste vedere questo passo perire nel
nostro paesino sperduto, com'è triste e straziante vedere in un campo
kolchosiano di cereali ridotto in poltiglia dalla pioggia, fra contadine
sfinite, stivali sporchi e camicioni pesanti, una ragazza di campagna di
straordinaria bellezza...
Ma torniamo alla nostra storia... Dunque, procedendo con il suo passo perfetto,
Nikolaj Ivanovich portava avanti il battaglione quando, dopo che si era già
messo sull'attenti per l'allineamento a sinistra davanti alla tribuna, a un
tratto barcollò, agitò le mani e stramazzò al suolo, ritrovandosi col
fondoschiena per terra... Se fosse scivolato, se un crampo improvviso gli
avesse paralizzato le membra, se invece avesse influito la stanchezza dei tre
giorni di esercitazioni oppure avesse inalato per caso vapori di gas
propellente, be', questo Dio solo lo sapeva... Un profondo sospiro attraversò
le nostre file, il generale Bondarenko distolse lo sguardo, un ghigno balenò
sul viso cupo del colonnello Suprun...
Questa caduta, d'altra parte, durò non più di qualche secondo. Nikolaj
Ivanovich si rialzò di scatto, si ricompose e riprese a cadenzare il suo passo
perfetto. Ma fu proprio da allora che noi cominciammo a notare in lui i primi
segni della caduta...
In quel giorno nefasto rimase abbattuto al punto da non farsi vedere nemmeno a
pranzo, anche se si sapeva che sarebbe stato servito del borse ucraino, ottime
polpette con purè di patate e una razione non ufficiale di alcol reso più forte
dall'aggiunta del rosolio di amarena proveniente dalle riserve personali del
militare in ferma volontaria Bruj...
E la sera di quello stesso giorno, una volta rientrato a casa mia a Glyboch,
ebbi la sorpresa, quando aprii la porta in risposta a un trillo di campanello,
di vederlo sulla soglia. Nikolaj Ivanovich teneva in mano una bottiglia di
vodka "Stolichnaja" da un litro e tutto il suo aspetto esprimeva un
grande imbarazzo. Mi affrettai a farlo entrare, lo pregai di fare come se fosse
a casa propria e mi scusai per il mio abbigliamento: quando aveva suonato io e
mia moglie ci eravamo appena accomodati di fronte al televisore a guardare il
notiziario, e naturalmente eravamo in vestaglia da camera. Allungammo
immediatamente il tavolo che ricoprimmo con la tovaglia dei giorni di festa.
Gli antipasti non ci misero molto ad arrivare: la mia cara Nina, comprendendo
il carattere straordinario di quella visita, si dimostrò particolarmente
ospitale e attenta. Poco dopo, quando mi fui ripreso ed ebbi familiarizzato con
il ruolo di confessore che Simin'kov mi aveva assegnato quella sera, cercai di
calmarlo e di consolarlo, ricordandogli persino le parole che lui stesso aveva
pronunciato quel giorno alla mensa, che l'importante era servire la Patria, e
tutto il resto erano sciocchezze. Perciò non era il caso di farsi prendere
dallo sconforto a causa di un ridicolo incidente che tutti avevano già
dimenticato! E a mo' di esempio gli raccontai il caso del capitano Pridybajlo
che una mattina, durante un controllo d'ispezione, dopo aver passato la notte a
offrire il suo tributo a Bacco, non era stato in grado di dire il suo nome
all'ispettore. – E sa cos'è successo? Nulla. Continua tranquillo il suo
servizio! – dissi io. – E lo faranno pure maggiore, aspetti e vedrà se non ho
ragione!
Presi in mano la chitarra, la mia Nina si ravviò i capelli vaporosi e i ricci
sparsi sulle spalle e cantò per noi una romanza; ebbi cura che i bicchierini
fossero sempre pieni, mi vennero in mente persino alcune barzellette – in
breve, cercai di fare del mio meglio – e a poco a poco il nostro Nikolaj si
rianimò, diventò più allegro, si mise a ridere a crepapelle e a chiamare mia
moglie Ljudmila Zykina, paragonandola alla famosa cantante. Volle persino
ballare... Lo accompagnai alla porta che era già notte fonda, camminavamo
abbracciati e cantavamo a squarciagola una canzone, mi pare, di Vysockij.
L'episodio che sto per raccontare rappresentò una svolta definitiva nel destino
di Simin'kov e persino noi, ufficiali del battaglione, che non avevamo niente a
che vedere con l'accaduto, ne rimanemmo sconvolti e ci sentimmo come smarriti.
Ecco come andarono i fatti. Alla vigilia dell'anniversario della Rivoluzione
d'ottobre Nikolaj Ivanovich fu convocato dallo Stato maggiore del reggimento
per ricevere alcuni documenti di particolare importanza. Quella mattina parti
per presentarsi allo Stato maggiore accompagnato dalla scorta necessaria e
verso sera tornò all'Unità, chiuse il plico di documenti nella cassaforte e
appose i sigilli. Oggi è difficile far congetture su come sia potuto succedere
che l'indomani mattina, facendo l'inventario dei documenti, Nikolaj Ivanovich
scoprisse che ne mancava uno. Secondo le istruzioni lui avrebbe avuto l'obbligo
di informare il reggimento dell'accaduto quanto prima, ma non lo fece, capendo
benissimo che una telefonata del genere avrebbe significato automaticamente
scavarsi la fossa con le proprie mani. A quei tempi, nelle nostre Unità
Missili, chiudevano un occhio su molte cose, molti peccati venivano perdonati
salvo uno che veniva rigorosamente e implacabilmente punito: la violazione del
segreto militare. In questi casi non si poteva contare su alcuna indulgenza e
veniva dato il massimo della pena. E in ogni caso una macchia di questo genere
veniva considerata indelebile ed equivaleva alla perdita dell'onore militare.
Era meno grave essere sorpresi in stato di ubriachezza o persino a rubare – non
arriverò a dire che queste azioni fossero ritenute normali, ma in ogni caso con
il tempo venivano dimenticate, in qualche modo cancellate, – che essere
accusati di violazione del segreto militare. Questo rendeva l'ufficiale un
paria tanto agli occhi dei suoi superiori quanto a quelli degli amici e dei
colleghi. Stringere la mano a una persona simile era un atto d'eroismo.
È facile perciò capire lo smarrimento e la disperazione di Simin'kov. Lui si
sarebbe probabilmente sparato un colpo di pistola se non fosse stato per il
timore di macchiare ancor più, con questo atto, il suo nome e la sua memoria.
In quel caso, infatti, sarebbe stato certamente sospettato non solo di viltà,
ma forse anche di connivenza con i servizi segreti stranieri.
Salvare il proprio onore, ritrovare il documento smarrito era ormai l'unico
scopo della vita di Simin'kov. Per prima cosa, perso il controllo di sé,
picchiò a sangue lo scrivano dello Stato maggiore Romasko che, a parer suo,
doveva essere venuto a contatto con il plico. In seguito diede l'allerta al
battaglione e mise tutti al lavoro: noi, divisi in quadrati, passammo la
giornata a lavorare senza raddrizzare mai la schiena, a frugare in tutti gli
angoli e gli angoletti, a scavare fra le foglie marce, nella cenere, nei
rifiuti e tra avanzi alimentari, controllando ogni pezzo di carta. Malgrado
l'evidente impossibilità di ritrovare il documento perduto, Simin'kov persisteva
nella sua follia, provocando il malcontento dei soldati e turbando persino noi
che lo appoggiavamo.
Verso sera rivolse i suoi sforzi alle latrine e ordinò di avvicinare il gruppo
elettrogeno, alcuni riflettori e una pompa. Scoperchiammo la fossa, ci infilammo
dentro i tubi e cominciammo a pompare e a filtrare il suo contenuto. Simin'kov
controllava di persona il filtro e il liquame pompato ed esaminava le carte a
una a una sotto la luce deI riflettore.
Verso mezzanotte, quando ormai crollavamo letteralmente dalla stanchezza,
ordinò di portare il braccio della gru 8-u 208 sopra la fossa, si abbigliò con
una tuta metallizzata di protezione (una di quelle che venivano usate nelle
esercitazioni missilistiche), si infilò la maschera antigas e si calò con la navicella
della gru sul fondo della fossa per assicurarsi di persona che tutto fosse
stato pompato e che il fatidico documento non ci fosse per davvero.
In alto la luna illuminava i boschi autunnali, e in basso, sotto la luce
accecante dei potenti riflettori il povero Simin'kov vagava fra pareti di
cemento gocciolanti di liquame verdastro. Dal fondo della fossa tentava ancora
di dare dei comandi, ma a noi giungevano solo suoni lamentosi, gemiti e
mugolii. Di colpo si interruppe, si strappò la maschera antigas, guardò intorno
a sé e poi diresse lo sguardo in alto con aria da animale braccato. Ricordo che
in quel momento mi venne da pensare che quella fossa di cemento sarebbe stata
un rifugio perfetto in caso di disastro atomico, ma dando un'occhiata a Simin'kov
rigettai subito quell'idea con disgusto. Ci affrettammo a tirare su Simin'kov
dalla fossa, lo ripulimmo usando pompe antincendio sotto i raggi dei riflettori
e riportammo in braccio il poveruomo, ormai completamente fuori di sé, agli
alloggi degli ufficiali.
Gli venne un attacco di febbre e per circa dieci giorni rimase a letto
nell'infermeria del battaglione sotto la sorveglianza del nostro bravo
esculapio, Stepan Pynzar', grande amatore di donne e di storielle salaci. Lui
era riuscito, Dio sa con quali espedienti, a far assumere la sua bella in
qualità di istruttore sanitario della nostra infermeria. E così lei girava in
mezzo a noi con indosso una gonna attillata color cachi nominandoci a turno
suoi accompagnatori. Erano loro due, Stepan, vale a dire il tenente Pynzar', e
la bella Ljuba, a prendersi cura del nostro Simin'kov.
Ma lui era ridotto in un pessimo stato, era in preda a una cupa malinconia e
ripeteva incessantemente che avrebbe dovuto cercare meglio nella fossa.
In quegli stessi giorni mi venne comunicata la mia nuova destinazione nella
regione di N*** e partii senza attendere la fine di questi tristi avvenimenti.
Fu lì che mi congedai con il grado di maggiore e me ne andai per sempre a
vivere nella piccola località marittima di N**K. Per lunghi anni non ebbi più
notizie di Simin'kov e cominciai persino a dimenticarmene, tutto preso com'ero
dagli impegni quotidiani e dai problemi familiari della mia nuova vita civile.
L'estate scorsa, trovandomi nella capitale e girando tra la folla dei grandi magazzini
GUM nella speranza di trovare un paio di comunissime calze per mia moglie, di
colpo mi imbattei in Ljubin, giocatore di biliardo, poeta e libero pensatore
del nostro battaglione. Fu lui a riconoscermi per primo. Ci abbracciammo con
gli occhi umidi per l'emozione.
– Senti un po', – mi domandò lui all'improvviso – te lo ricordi Simin'kov? – e
mi raccontò com'era finita la storia.
Dopo la sparizione del documento, non solo Simin'kov non era stato privato
della libertà, ma non gli erano stati neppure tolti i gradi: era solamente
passato a un livello inferiore. L'indagine di diversi giorni condotta dai
servizi speciali dello Stato maggiore dell'esercito aveva rivelato che il
documento smarrito non era altro che il foglio con le istruzioni d'uso della macchina
per la pulitura delle patate che si trovava nella mensa dei soldati. Nonostante
questo, era inammissibile che Simin'kov rimanesse nello Stato Maggiore del
reggimento dopo quella storia, perciò era ritornato nella sua 5’ compagnia come
comandante di batteria. Ma, secondo Ljubin, non era più lo stesso Simin'kov.
Comandava con una specie di svogliatezza e si era messo pure a bere e a
bestemmiare. Di tutto il suo brillante passato rimaneva soltanto, come un
monito amaro, il famoso portasigari con l'emblema e il monogramma.
Alla prima occasione che gli si era presentata aveva dato le dimissioni. I suoi
superiori gli avevano proposto di dirigere un nuovo centro d'allevamento di
maiali a Glyboc, ma lui aveva risposto con un secco rifiuto ed era sparito per
sempre.
– Non vuoi vederlo? – domandò Ljubin.
Io lo guardai senza capire.
– È qui, a Mosca, al parco Sokol'niki! Possiede un tiro a segno! È ingrassato,
si è calmato, ma un bicchierino non lo rifiuta mai. Perché non lo andiamo a
trovare, scambiamo quattro chiacchiere, ci beviamo un birra e ricordiamo i bei
tempi andati?
Ma io, adducendo come pretesto un malessere o la mancanza di tempo, declinai la
sua insistente proposta e cambiai subito argomento.
(Racconto tratto
dall’antologia I fiori del male russi, a cura di Viktor Erofeev,
Voland editrice, Roma, 2001)
Anatolij Gavrilov è nato a Mariupol’, nel 1946.
Dopo aver svolto il servizio militare nell’esercito sovietico lavora in
un’industria metallurgica. Nel 1978 si laurea all’Istituto do ltteratura. nel
1984 si trasferisce a Vladimir, dove lavora come impiegato alle poste. In
Unione Sovietica le sue opere non vengonmo pubblicate fino al 1989. È autore
delle raccolte di racconti Alle soglie della vita nuova, Il
vecchio e loscemo, Per l’arrivo di N. I racconti di Gavrilov sono
stati pubblicati in Finlandia, negli Stati Uniti, in Germania.