HASSAN

Riccardo Terrazzi


“Are you a believer?”
Questa è una scorrettezza, Hassan, un vero colpo basso. Stiamo discutendo di affari, come ti viene in mente di chiedermi se credo in Dio? No, non dirmi niente. Conosco già il tuo argomento: voi europei fate tante distinzioni, ma siete incoerenti. Vi arrampicate sugli specchi pur di non fare i conti con la morale e con la religione.
Abbi pazienza, Hassan, vediamo di capirci. Ogni quindici giorni tu e io ci incontriamo a questo tavolo. Passiamo venti ore a discutere, poi ci diciamo arrivederci e io torno in Europa a far rapporto, a ricevere istruzioni. Apparentemente, lavoriamo per mettere in piedi una società: come due sensali di matrimonio contrattiamo a chi toccherà allestire la cucina e a chi la camera da letto. In realtà, mentre discutiamo di investimenti, manodopera e tecnologia, sappiamo bene che il punto è: quanto costa tutto ciò? E in ultima analisi: ne vale la pena?
Ma c'è dell'altro: tu e io vogliamo far carriera, uno a spese dell'altro, se necessario. Vogliamo consegnare ai nostri superiori un risultato del quale possano valersi per ascendere lungo una scala infinita, che si perde nelle nuvole di chissà quale Paradiso. Perché l'unico modo per far carriera è diventare vassallo di chi sta un gradino più su e salire con lui montando sulle spalle degli altri, tutti impegnati a salire la stessa scala. Eppure, troppi sono i gradini. La speranza di raggiungere una condizione beata, presto o tardi, si trasforma in un imperativo fine a se stesso. Che differenza fa arrivare al centesimo o al millesimo scalino se, tanto, in cima non si arriva mai?
Tu, Hassan, sei sicuro di farcela. Io ho paura di essermi impelagato in un'impresa più grande di me. E intanto combattiamo: tu per fede, io per senso del dovere, duelliamo fingendo di volere la stessa cosa in due modi diversi. Io metto in campo molta tattica e poca strategia. Tu apri tranquillamente un nuovo fronte: "Are you a believer?"
Non lo so, Hassan, non lo so più. C'è stato un tempo in cui credevo di saperlo, ma da allora sono successe tante cose. Tu, che in vita tua non hai mai assaggiato una fetta di prosciutto o un bicchiere di vino, ti prostri a terra cinque volte al giorno e ti prepari ad andare alla Mecca vestito di un lenzuolo: girerai sette volte attorno a un presunto meteorite e tornerai a casa. Io sorrido e mi sento carico di laica saggezza.
Ma gli europei hanno poco da stare allegri: dopo aver razionalizzato, demistificato, destrutturato, chissà se sono diventati migliori. Negli ultimi due secoli hanno instaurato l'idolatria della libertà, e solo adesso cominciano a capire che, nel preciso istante in cui se ne fa uso, la libertà diventa limite a se stessa. Tu, Hassan, nella pausa per il thè fumi una sigaretta con gli occhi persi al di là di ogni possibile orizzonte, poi torni sulla terra e mi domandi: "Are you a believer?"
A cosa dovrei credere, Hassan? Gli europei sanno di venire al mondo condannati a morte e hanno reagito aumentando la durata della vita media. Hanno sette anni in più da vivere, ma nessuno immagina di usarli per fare qualcosa che dia significato ai settanta precedenti: abbiamo smesso di sognare. La nostra civiltà era fondata sui miti: li abbiamo degradati a etichette per i disturbi mentali. Non credo più in me stesso, Hassan, come vuoi che creda in Dio? Il caso mi ha destinato a vivere in un lunghissimo tramonto dove tutto marcisce lentamente. Intorno a me, a una a una, muoiono le certezze e io, che non so come sostituirle, mi limito a farne a meno.
Ma tu hai diritto a una risposta, Hassan. Conto di dartela al mio ritorno, fra due settimane, quando avrò ricevuto istruzioni.


(Pubblicata sulla rivista “ La Mosca” di Milano, n° 11, Novembre 2004)

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