LA CITTÀ SENZA PECCATO
– un
articolo pubblicato sulla stampa italiana nei primi anni ’50 –
Tommaso Landolfi
Vi ricordate il tempo che s'era studenti e che una città nuova non ci pareva di
conoscerla davvero se prima, simili ai cani quando si incontrano per la strada,
non s'era messo il naso in uno di “quei posticini”? E non avevamo tutti i torti
perché, senza contare che i medesimi sono ottimi osservatori della vita e dei
traffici cittadini, dove o donde meglio si potrebbe penetrare lo spirito intimo
di un luogo che tra le braccia di una sua gentile abitatrice? Naturalmente
allora si principiava dal posticino migliore e più caro, così come la visita
delle antichità comincia dalla cattedrale, salvo poi a “consumare” o
“sacrificare” (secondo si diceva, e non serve dichiarare a quale dea) in uno
più a buon mercato; ma questo non c'entra.
Beh, uno ha un bell'essere uomo fatto e mézzo, ritrovarsi in quella fase della
vita che con blando eufemismo chiamano “virilità decrescente”, aver magari
moglie e figliuoli: gli può capitare ugualmente di ricadere d'un tratto in
adolescenza e di manifestare, almeno a se stesso, inclinazioni studentesche.
Sarà malinconia, umore, stagione, o piuttosto un “presentimento lontano della
fossa” (e non tanto lontano), sarà quello che volete, il fatto resta e le
giustificazioni son superflue. Una cosa simile, poi, può capitare nella
bellissima città di Padova come in ogni altro luogo. E per finirla a me è
capitata di recente a Padova, dove pure (lo ripeto) c'è tanto di meglio e di
più importante da fare, dico che dar corso a improvvise e romantiche fantasie.
Giacché insomma, per chi non lo avesse ancora capito, io mi ero messo in testa
di visitare uno dei posticini qui sopra rammentati e lodati; visitarlo, così,
alle brutte da amatore.
Più presto detto o progettato che fatto. La città, se non ignota, m'era troppo
imperfettamente nota; e d'altra parte un tale con capelli grigi e borse sotto
gli occhi non può proprio fermare un passante e chiedergli tondamente: Non
saprebbe per caso indicarmi... O almeno non son io il tale che possa. Io
trascorsi sì quella fine di pomeriggio a scrutare i passanti coll'idea di
trovarne uno tanto più peritoso di me, che fosse lui a rimanere turbato dalla
domanda; ma, trovatolo (se era vero), mi mancò ugualmente il coraggio di
interpellarlo. E del pari mi mancò col cameriere della trattoria dove andai a
cena, un biondino mingherlino e timidissimo, che perfino mi divertii a
confondere altrimenti; e col vigile piantato all'angolo d'una via, il quale mi
rese una lunga occhiata benevola e incoraggiante, poiché s'era accorto che ero
lì lì per chiedergli qualcosa; e coll'autista di un'auto pubblica, a cui feci
fare un interminabile giro vizioso, sempre meditando di interrogarlo
dall'ombra. In breve, il coraggio mi mancò con tutti i possibili informatori.
La mia ricerca non poteva dunque procedere che indizialmente; e qui dovetti
fare appello ad alcune mie antiche teorie relative ai nomi propri in generale
nonché, estensivamente, ai nomi delle strade. Cerchiamo di capirci: che,
trovandomi di fronte a una delle case cercate, avrei saputo riconoscerla, non
era da dubitare; ma gli è che di fronte avrei potuto trovarmici solo per caso,
quand'anche avessi imbroccato a lume di naso il quartiere giusto, ché neppure
d'un sol quartiere mi sarebbe certo stato possibile percorrere passo passo
tutte le vie. Ne veniva la necessità di valutare almeno ciascuna via, per dir
così, a priori. E in che modo? Ecco dove le mie teorie potevano soccorrermi, e
ricevere conferma o refutazione. Esse, infatti, riguardavano in particolare
l'innegabile e stretto rapporto corrente tra i nomi (col loro suono, la loro
composizione, la loro struttura semantica etc.) e le persone che li portano; e
analogamente, come già accennato, tra i nomi delle vie e i loro abitatori o le
loro abitazioni. (Tutto ciò apparirà magari complicato, ma lo è soltanto in
parole. Ad ogni modo, lo si vede bene, io mi arrampicavo sugli specchi).
Orbene, scelto un quartiere oscuro di là dalla Piazza delle Erbe, detti
principio all'investigazione: leggevo e interiormente chiosavo i nomi delle
strade, me li rigiravo dentro per cavarne il loro senso riposto, talvolta li
sussurravo per lasciarmi penetrare dal loro suono. Due o tre di essi mi parvero
avere i requisiti richiesti, e ispezionai attentamente le strade
corrispondenti.
Macché: o le mie teorie non valevano niente, o le applicavo male. Fatto sta che
in capo a un'ora dovevo ritirarmi sconfitto sul centro della città. Ripresi le
ricerche da un'altra parte, e stavolta a caso: non ebbi miglior successo.
Intanto s'era fatto piuttosto tardi.
Intorno al famoso caffè Pedrocchi sostavano come sempre gruppi di studenti; il
che mi dette un'idea. Sarà proprio vero, mi dissi, che tra questi baldi giovani
non ce ne sia taluno il cui animo inclini a divertimenti più sostanziosi? Ché
pel momento eran lì tutti ritti, la maggior parte ridacchiando o ridendo
sguaiatamente, coi soliti “Dài” e le consuete manate sulle spalle; la minore,
distribuita in pochi capannelli, confabulando gravemente, e udendosene a tratti
non so che di “istanze sociali”. Se comunque, proseguivo meco stesso, un
gruppetto si staccasse dagli altri e, con quella speciale aria tra maliziosa e
furtiva, prendesse per buio calle, io non avrei probabilmente che da seguirlo
per trovare quanto cerco. Sicché osservai quei giovani con rinnovato interesse.
E finalmente mi sembrò di avere individuato i miei uomini: due soli, e uno per
di più aveva un forte accento siciliano. Si allontanarono; li seguii a una
certa distanza. Ben presto attraversammo strade deserte, per cui udivo
distintamente i loro discorsi.
“... Tu sai certo a memoria la definizione aristotelica dell'anima?”.
“Io? Beh... “.
“Male, se non la sai. Te la dirò io: l'anima è la perfezione prima di un corpo
naturale che abbia la vita in potenza. E dunque che significa questo?”.
“Mi par chiaro: l'anima, in quanto anima dormiente, è appunto entelechia prima,
ma è anche una exis rispetto alle sue funzioni”. Si, d'accordo, ma Aristotele
arriva per gradi alla sua definizione; e se non si ha ben chiaro il concetto di
sinolo... “.
Altro che decadenza della odierna gioventù. Ma, per tornare allo scopo del mio
pedinamento, fin qui nulla di male: infatti non è raro il caso di gente che,
mentre corre o meglio perché corre al soddisfacimento dei propri vizi, si
intrattenga di argomenti elevati.
Il male fu invece quando, giunti davanti a un tenebroso portoncino, i due si
separarono tranquillamente, assicurando l'uno di avere gli esami entro pochi
giorni, l'altro dichiarando di aver sonno, sbadigliando sgangheratamente, e
proseguendo per breve tratto fino a infilarsi in un secondo e altrettanto
rispettabile portoncino.
Con questo nuovo fallimento della mia scienza psicologica ero giunto in una via
fuori mano, affatto deserta e con un canale d'acque limacciose che correva da
un lato. E qui d'un tratto mi tornò a mente che già altra volta, forse un
quarto di secolo prima, m'ero ritrovato in una situazione simile.
Da poco laureato, soggiornavo a Padova per studi privati e non ci conoscevo
nessuno; sicché soffrivo di malinconia e mi sfogavo contro tutto e tutti in
distici a rima baciata, quali: “Corre il popolo come un sol coglione: Il
federale parla dal balcone” (il balcone era appunto quello sopra il caffè
Pedrocchi). O più distesamente, evitando giudizi espliciti: “... E per le
strade vanno processioni Di giovani gridando: Hu hu hu, Siam la Mezzomo, il
covo dei leoni!”. (Piuttosto cani che leoni, a giudicare dalle voci che
emettono – mi osservò un giorno un vecchio gentiluomo, forzatamente fermo come
me all'angolo della via, dopo essersi assicurato con lunga ispezione che io ero
tale a cui si poteva confidare i propri sentimenti). O ancora, genericamente e
triplicemente, su orme altrui: “Padoa Padoa, città dello sconforto, O piove o
tira vento o suona a morto; Padoa Padoa, città che al pianto muove, O tira
vento o suona a morto o piove; Padoa Padoa, città dello sgomento, O piove o
suona a morto o tira vento”. Etc.
Sarà superfluo avvertire che, se anche ai tempi gloriosi non faceva eccezione
in fatto di federali, di Mezzomo o altre simili organizzazioni, in realtà
l'inclita Padova non è per nulla sconfortante né lacrimogena né sgomentevole.
No, la ragione vera delle mie invettive e maledizioni deve senza dubbio
cercarsi in questi due versicciuoli che ho serbati per ultimi: “Padoa, città
che Dio ti maledica: E un problema trovare anche la...”.
Immagino poi che allora riuscissi bene a risolverlo, l'accennato problema. Ma
ora la soluzione chi se la rammentava? E magari non sarebbe stata più valida.
Non già, intendiamoci, che non fosse notevolmente sbollito il qualunque
sentimento da cui ero stato mosso all'infruttuosa ricerca, ma a tenerne il
luogo era sopravvenuto una specie di puntiglio con relativa ansia. Epperò
seguitavo da insensato a vagabondare per viuzze sempre più squallide, ora
ammirando (se l'incorruttibile lume di luna soffondeva il tristo paesaggio
inclinandomi a contemplazione) la purezza di quella città che pareva senza
peccato e idealmente confrontandola con certe figurazioni pittoriche in essa
custodite, per esempio colle scene idilliche degli Scrovegni; ora (dove il
chiaro di luna lasciava gurgiti d'ombra e quasi risvegliava interni tenebrori)
alla stessa maledicendo. Possibile, mi chiedevo poi in termini più pratici, che
davvero qui non ce ne sia neanche uno, di codesti posticini da me cercati; che
un barbaro prefetto o una spietata amministrazione li abbia tutti chiusi; che
qui siano state prese sul serio le dicerie di senatrici invide degli altrui
obliosi abbandoni? Tuttavia, fattesi le cosiddette ore piccine, dovetti pur
dispormi a rincasare. E fu al termine di questa lunga passeggiata di ritorno,
come dire all'ultimo momento, che la mia costanza fu premiata e punita al tempo
stesso: cioè premiata in quanto costanza (che è sempre una virtù) e punita in
quanto persistente fantasia peccaminosa.
Per circostanze che sarebbe lungo esporre e che d'altronde non interesserebbero
nessuno, io non stavo in albergo, ma ero ospite (pagante) di un'annosa
gentildonna con crocchia e miseria quanto basta per affittare le proprie stanze
anche a giornata. La casa era ed è situata in capo a una via stretta e
tortuosa, e verso il fondo uncinata; che non avevo mai percorsa se non in
minima parte, preferendo uscirne per la più spiccia. Ma stavolta mi ritrovai
all'altro capo e la imboccai dal fondo. Non era tanto dissimile dalle molte che
avevo frugate quella notte. Camminavo distrattamente, strascicando i piedi,
ancora combattuto tra rabbia e sconforto; quando d'improvviso scorsi a due
passi, a un passo da me...
Le tre porte di cui dico stavano l'una accanto all'altra e parevano ammiccare
beffardamente dal loro lustrore; silenziose del resto e perentorie come pietre
tombali. La prima era verniciata di rosso pompeiano, la seconda d'un bel
gridellino, la terza d'un verde tenero; tutte e tre recavano lucenti targhe
d'ottone, e in due di esse era iscritto un vago appellativo femminile,
nell'ultima un nome celeste, poniamo “Eden” o “Paradiso”.
Non c'era caso di sbagliarsi, e insomma era lì appunto, sotto casa, il mio
sognato porto; eh sì, chiuso, o se preferite bloccato, come poi dovevo
aspettarmi data l'ora tarda.
Così ebbe fine, non pace, in tetro e spopolato sonno la mia infelice avventura.
Dalla quale non avendo potuto, io né il lettore, trarre diletto, voglio almeno
che ambedue “traggiamo utile insegnamento”, e concludo pertanto con un paio di
morali. La prima, assai ovvia, che il cercato è sempre più vicino di quanto non
si pensi; la seconda, non meno ovvia ma di maggior momento ed uso, che alla
nostra età certe fantasie, comunque giustificabili dalla nostra petulanza
intellettuale, dalla nostra oziosità o dall'infinita pietà e sollecitudine che
abbiamo per noi stessi, certe fantasie bisogna lasciarle da parte.
(Tratto
dal libro Se non la realtà, Adelphi, Milano, 2003, che ripropone gli
articoli di Landolfi pubblicati sulla stampa italiana tra il 1952 e il 1959)