UMILTÀ E BELLEZZA DI UN LIBRO
STORICO
– 1952 –
Alberto Moravia
La Resistenza offre molti
punti di somiglianza con il Risorgimento. Come nel Risorgimento, la parte più
consapevole del popolo italiano insorse contro l'oppressore straniero e i gruppi
nazionali che lo appoggiavano. Come nel Risorgimento l'oppressore era il
tedesco e i gruppi nazionali che lo sostenevano e ne erano sostenuti. Fu più
numeroso l'apporto popolare nella Resistenza? Può darsi, ma non è dimostrato.
Come nel Risorgimento, d'altra parte, alla varietà sociale corrispose una
grande varietà politica, quanto dire poi che la lotta fu condotta prima di
tutto in nome della libertà o, se si preferisce, della liberazione e poi, per
ciascun gruppo, in nome delle diverse ideologie o posizioni. Finalmente, come
nel Risorgimento, anzi più che nel Risorgimento, una volta finita la guerra
civile, la Resistenza sembrò incapace, per moltissimi motivi in maggior parte
non dipendenti da essa, di trasformare quel primo slancio in un nuovo assetto
politico. Il che poi riconferma il suo carattere di lotta per la libertà senza
attributi, per quella libertà immediata e contingente che la presenza degli
hitleriani e dei fascisti negava e impediva. Ne dedurremo forse che la
Resistenza ha fallito i suoi scopi? No, certamente, semmai diremo che troviamo
in essa la conferma una volta di più, di alcuni caratteri in genere della lotta
politica in Italia, legati a loro volta alla storia e alle condizioni concrete
del popolo italiano. Qui il discorso si farebbe troppo lungo ed esorbiterebbe i
limiti di questa nota. Ci basterà additare uno di questi caratteri: il
personalismo degli italiani, la loro scarsa inclinazione ad agire e ragionare
per motivi, istinti e direzioni di massa. Carattere questo che è quello che è;
e può essere considerato indifferentemente una qualità o un difetto secondo il
punto di vista dal quale ci si mette.
Dal punto di vista psicologico ed estetico, questo carattere si può definire
senz'altro la più originale e amabile qualità degli italiani. Guardate per
esempio queste “Lettere di condannati a morte della Resistenza Italiana”
pubblicate in questi giorni dall'editore Einaudi; e ditemi in quale paese una
simile raccolta riuscirebbe così varia, così ricca e così graduata nelle sue
varie sfumature sociali, politiche, psicologiche, di cultura e di sentimento.
Il motivo della morte di questi uomini è sempre lo stesso; ma è commovente
vedere come ciascuno di loro cerchi di raccomandarsi alla nostra memoria con un
suo accento personale, particolare, inconfondibile.
Chiameremo forse quest'atteggiamento individualistico, nel senso deteriore che
ha ormai questa parola? No, il fatto stesso che ciascuno di questi uomini abbia
tuttavia affrontato la morte per una causa comune, ci dice che quest'atteggiamento
ha un suo aspetto positivo insieme ancestrale e ingenuo, un aspetto che,
insomma, distingue il nostro popolo da tutti gli altri.
La raccolta è molto importante perché fornisce una documentazione inoppugnabile
sul candore, la freschezza ideale e lo slancio morale col quale moltissimi
abbracciarono la causa della Resistenza e morirono per essa. La stessa varietà
degli atteggiamenti politici e delle estrazioni sociali degli autori di queste
lettere sottolinea d'altra parte il carattere nazionale, unanime della
Resistenza. Libro, dunque, diciamolo con enfasi, molto importante dal punto di
vista storico ed educativo.
Ma c'è anche una bellezza poetica ed evocativa in queste lettere di condannati
a morte. Noi che siamo artisti oltre che uomini, siamo particolarmente
sensibili a questa bellezza, la quale, se è vero che il bello e il buono non
possono distinguersi, dovrebbe essere una prova di più della validità della
causa per la quale questi uomini hanno dato la vita. È di questa bellezza che
noi vogliamo soprattutto parlare.
Diciamo subito che le lettere che ci hanno colpito di più sono quelle dei
contadini, degli operai e in genere delle persone meno provviste di cultura.
Probabilmente sono le meno edificanti dal punto di vista propagandistico; ma
non è in tal genere di letteratura che andremo a cercare pensieri di alta
filosofia o ragionati testamenti politici e spirituali. Per un Boezio che
scrive il suo libro in carcere, quanti milioni che non hanno saputo esprimere
la filosofia che purtuttavia la loro vita e la loro morte sottintendevano. Le
lettere pubblicate dall'editore Einaudi, salvo alcune eccezioni in genere non
oltrepassano il livello medio culturale e più spesso rimangono assai al di
sotto, ossia non escludono echi di letture affrettate, posizioni politiche che
col tempo si sarebbero modificate e, persino, la struggente retorica propria a
tali documenti. Così i contadinelli illetterati, i semplici operai e, in
genere, gli uomini meno provvisti di cultura, proprio perché illetterati,
semplici e incolti, sono i più rappresentativi e commoventi.
Ecco per esempio due toscani, nati ambedue a Radicofani e fucilati insieme dai
tedeschi, Renato Magi di anni 19, contadino, e Vittorio Tassi di anni 41,
brigadiere dei carabinieri. La Toscana è terra antica e prima dei latini era
abitata dagli Etruschi, il popolo delle tombe, delle necropoli e del costante
sospetto dell'al di là. Dante prima ancora che italiano e cristiano era
etrusco, ciò è attestato dalla sua opera, unica per i suoi strani e originali
caratteri, nella storia letteraria di tutti i tempi e di tutte le nazioni. I
due di Radicofani, in quell'estremo istante della loro vita, trovano accenti
che non è esagerato chiamare danteschi. L'ansietà per il destino del proprio
corpo, sacro vaso dell'anima, il senso della morte come di qualche cosa che non
possa in realtà interrompere la vita, la commovente topografia, queste sono
cose dantesche.
Scrivono i due toscani:
Cara mamma, oggi 17 alle ore 7, fucilati innocenti. La mia salma si trova di
quà dalla scuola cantoniera, dove sta Albegno, di quà dal ponte. Potete venire
subito a prendermi. (Renato Magi)
Cara Olga, oggi 17, ore 7, fucilato innocente, la mia salma si trova di quà dal
fiume, di quà dalla scuola cantoniera, dove sta Albegno. (Vittorio Tassi) Scrive
Dante:
L'ossa del mio corpo sarieno ancora
in co' del ponte, presso Benevento...
(Purg. III 127)
Ancora due semplici contadini, ambedue del Senese, Adorno Borgianni e Renato
Bindi, ambedue di 19 anni:
Cara mamma, gli uomini mi condannano a morte ”. (Renato Bindi)
“ Io mi trovo condannato con la mia pena di morte, ormai il mio destino è
questo... e vorrei la grazia di essere seppellito al mio paese con un
bellissimo trasporto... ”. (Adorno Borgianni)
Dove quell'allusione agli uomini (non ai tedeschi e ai fascisti) dà un senso di
innocenza completa e cristiana; e l'estrema volontà di avere un bel trasporto
esprime una vanità gentile e religiosa.
Altri trovano accenti diretti con parole dirette che commuovono: “ Tuo
figlio... non era che un semplice socialista che ha dato la vita per la causa
degli operai tutti ” (Quinto Bevilacqua, anni 27, operaio mosaicista); “ è
finita per il vostro figlio Mario, la vita è una piccolezza, il maledetto
nemico mi fucila ” (Mario Brusa Romagnoli, di anni 18, meccanico aggiustatore);
“... muoio da soldato e da italiano non portarci odio a nessuno di questi che
mi uccidono perché sono gli unici soldati che ho trovato nel mio cammino”
(Guido Galimberti, di anni 38, operaio); “Picco Aldo, classe 1926, di Venaria
(Torino) fucilato a Savona il 2181944. Chi va a Venaria, vada dalla mia mamma”
(Aldo Picco, di anni 18, meccanico); “Addio per sempre. Lascio 40 lire.”
(Sabatino Tigrino, di anni 44, operaio); “... non pensate a me se muoio, la mia
disgrazia è questa.” (Primo Simi, di 19 anni, contadino); “... Chiesero la mia
condanna a morte col sorriso sulle labbra e hanno pronunciato la mia condanna
ridendo sguaiatamente come se avessero assistito ad una rappresentazione
comica.” (Giovanni Mecca Ferroglia, di anni 18, elettricista); “vengo fucilato
questa mattina e sono contento perché in Italia verrà la distruzione; così io
sarò già a posto e non avrò più da vedere queste cose che verranno troppo
brutte.” (Ignoto).
Oppure, per tutti altri motivi, vogliamo trascrivere qui gli accenti dolorosi e
pieni di umiltà di due uomini non più giovani che avevano molte ragioni per non
lottare accanto ai tanti ragazzi della Resistenza e che pur lottarono e
morirono. Giuseppe Perotti, generale dell'esercito, di anni 48, nella sua lunga
lettera alla moglie, confessa ad un certo punto: “... non voglio fare il
bilancio della mia vita; si chiude in modo così tragico che non so come
classificarla. Debbo giudicare che sono sempre stato un fallito...”.
E, a sua volta, Venanzio Gabriotti, di 61 anni, professionista e segretario del
partito popolare di Città di Castello: “Miei cari tutti forse sono le ultime
ore di questa mia vita disgraziata che non ha mai avuto un raggio di luce...”.
Qualcuno osserverà che questa è un po' la Resistenza minore, ossia veduta da un
angolo visuale troppo limitato. Ma a noi premeva, come abbiamo detto, mettere
in rilievo il carattere umano, estetico e personale di queste lettere. Ce ne
sono altre naturalmente, come per esempio quella di Leone Ginzburg o quella dei
sacerdote Aldo Mei che contengono la testimonianza estrema di una
consapevolezza completa e intelligente. Ma queste lettere parlano da sé, esse
sono, in altre parole, esemplari. Noi invece abbiamo voluto chinarci a
raccogliere i fiori più umili della Resistenza, le lettere di coloro che,
oscuri, sono morti per una Causa luminosa.
(Tratto
da La voce della resistenza, a cura del Comitato nazionale dell’Ampi –
Roma, 1981)