IL PESO DELLE ORE

José Ovejero

Con insolita insistenza – talmente eccessiva che Joaquin rimase a fissarla sconcertato senza muoversi – gli mise il soprabito sul braccio, la ventiquattrore in mano, gli diede l'immancabile bacio e con una spinta nervosa lo accompagnò alla porta. Aspetti qualcuno? chiese Joaquin sulla soglia, un po' scherzoso.
Che scemo, rispose lei, un po' seria. È che se non ti sbrighi arriverai tardissimo.
Carmen lo vide guardare l'ora e stringersi nelle spalle.
Ma se ho ancora un sacco di tempo.
Un lampo di sospetto gli balenò negli occhi. Vabbè, se mi cacci, mi sa proprio che dovrò andarmene. E, finalmente, la porta si chiuse scongiurando il pericolo.


Le tre meno dieci. Carmen si lasciò cadere sul divano, abbandonando il contegno che aveva dovuto tenere nell'ultima ora. Cominciò a piagnucolare. Il tempo le era sembrato un'eternità; mai come in quel momento aveva odiato la sciocca flemma di Joaquin, quel suo modo pigro di vagare da una stanza all'altra senza uno scopo preciso, blaterando sciocchezze – che non sa se papà verrà a passare il fine settimana da noi e, se non ti dispiace, inviterò anche mio fratello, è un sacco che la famiglia non si riunisce, però ti prego, cerca di essere un po' più gentile dell'ultima volta, sei stata davvero impossibile, questo maledetto cassetto si chiude male, ricordami di passare un po' di grasso sulle guide, mi sa che i Villanueva se ne vanno, c'è un camion dei traslochi fermo davanti casa loro, ehi, qui ci sono solo cinque tazzine, non dirmi che ne hai già rotta una. – Quella tiritera insensata, che già di per sé faceva impazzire Carmen, oggi le sembrava davvero insopportabile, dal momento che erano quasi le tre e Joaquin era ancora lì – in genere, mangiava a scuola e il fatto che si fosse presentato a mezzogiorno, senza avvertire, l'aveva colta del tutto impreparata – e temeva che, da un momento all'altro, potesse accadere l'inevitabile, che il telefono squillasse prima che Joaquin fosse uscito, e lui ascoltasse la conversazione – o meglio, il suo silenzio – dopodiché l'avrebbe torturata di domande: chi è, cosa dice, da quanto tempo va avanti, che voce ha, perché non me l'hai detto, e così via, giorno dopo giorno, notte dopo notte quest'assillo, l'implacabile rimuginare del cervello di Joaquin, e ancora domande, forse per anni a venire, perché lui non dimentica mai nulla, neppure i dettagli più insignificanti – i compleanni di tutti i suoi amici, a chi presta ogni singolo libro, e Mariapi l'estate scorsa si è portata via un vassoio e non l'ha ancora restituito, bisognerà dirle qualcosa – per tutto questo Carmen era terrorizzata dalla possibilità che Joaquin venisse a saperlo, e da qui l'ansia, la disperazione nel vedere che non se ne andava e, una volta rimasta sola, il pianto che sciolse l'inquietudine.
Le tre e venti. Carmen non piangeva più. Sorvegliava attentamente il telefono, quella belva silenziosa: la sua calma, la sua apparente indifferenza erano solo uno stratagemma. Sarebbe bastato distogliere lo sguardo un attimo perché l'apparecchio la colpisse a tradimento. Non aveva senso mettersi a fare le pulizie o a cucire bottoni, e neppure accendere la televisione, tanto ogni minuto i suoi occhi sarebbero tornati lì e ogni rumore l'avrebbe fatta trasalire di spavento: era meglio aspettare senza fare nulla. Comunque la telefonata sarebbe arrivata entro poco tempo; l'unico aspetto positivo era forse la puntualità, la certezza che l'incubo si sarebbe ripresentato tra le tre e le quattro, consentendo al resto della giornata di scorrere in modo relativamente tranquillo.

Erano le tre e mezza quando il telefono iniziò a squillare spaventando Carmen, che nel frattempo si era persa dietro ai suoi pensieri. Come al solito aspettò che lo squillo si ripetesse sei o sette volte, nella speranza – sempre vana – che chi chiamava si pentisse all'ultimo momento e le concedesse un giorno di tregua. Il telefono continuò a suonare. Carmen sollevò la cornetta, rassegnata: Pronto? disse con voce tremante, desiderosa di sentire un timbro diverso da quello roco e artefatto di sempre e che, invece, ha già iniziato la sua solita litania appassionata e ha preso a descriverle, con sorprendente precisione, il suo corpo nudo, avvertendola, in tono confidenziale, che glielo infilerà dentro ben bene, ed è allora che Carmen inizia a strillare: Chi è lei? Mi lasci in pace! Ma lui prosegue imperterrito a raccontarle come se la immagina, tutte le notti, distesa sul letto, sudata, nuda, mentre le mordicchia i seni, descrivendole il piacere che prova vedendo che lei lo ricambia prendendogli il membro tra le mani, tra le labbra, – Chi è lei? Perché mi tortura così? – ma l'uomo si perde in uno scandaloso orgasmo e Carmen mette giù il ricevitore, piangendo istericamente e chiedendo insistente, a chi ormai non può più sentirla, chi è e perché la tormenta a quel modo.


Dopo, come sempre, una rabbia, una sensazione di impotenza che Carmen sfogava a volte scagliando a terra un piatto o un vaso, oppure scaraventando giù dagli scaffali intere file di libri che si andavano a schiantare sul pavimento; poi, in fretta, ogni cosa al suo posto, prima del rientro di Joaquin.
Ma niente riusciva a tranquillizzarla. Carmen tremava, odiandosi per le reazioni del proprio corpo e per la loro persistenza: l'inturgidimento dei capezzoli e quella specie di tensione tra le gambe che comparivano, indipendentemente dalla sua volontà, quando sentiva parlare dei suoi seni, della sua – la parola la nauseava – fica, e quando ascoltava i gemiti di piacere di quell'essere ripugnante che si appropriava del suo corpo per lordarlo, facendole venir voglia di graffiarsi per cancellare dalla propria immaginazione quelle mani che la esploravano incuranti di qualunque resistenza, e per allontanare dal viso quella bocca piena di bava.
Mentre lavava il pavimento con impeto esagerato, Carmen si mise a cantare a squarciagola per sopraffare la voce maschile che le risuonava in testa con quel modo di pronunciare il suo nome, di costringerla a prendere parte alle sue fantasie immaginandosela attiva, sì, Carmen, così, sì, sì, Carmen...
Quando Joaquin rientrò a casa, trovò sua moglie che cantava ancora. Sei proprio allegra oggi. C'è qualcosa da festeggiare? No, niente. Non posso essere allegra così, solo perché mi gira bene? Certo, cara.


Avrebbe voluto che Joaquin le dicesse che era stanco e che andava a letto senza cenare. Desiderava restare sola prima possibile per potersi abbandonare alle proprie solitarie elucubrazioni senza dover controllare ogni gesto e sentirsi addosso la muta vigilanza del marito. Prima però le toccò ascoltare le lamentele e la lunga lista di soprusi che, come di consueto, lui riportava a casa da scuola: l'intrinseca cattiveria degli studenti, la loro irrimediabile ignoranza, e non solo, c'erano anche l'invidia di Carvajal, lo stipendio che ritardava, e due per tre che anche quel giorno faceva sei. Poi, come se non bastasse, davano alla televisione un film di Henry Fonda, che a Joaquin piaceva un sacco. Era ormai quasi mezzanotte quando lui si alzò, sbadigliò assente, bene, per oggi è tutto, e annunciò che andava a dormire, per favore spegni le luci prima di coricarti.


Joaquin era appena uscito dal salotto e già Carmen era tornata a chiedersi: chi sarà? Aveva compilato una piccola lista di sospetti e tutte le sere la ripassava mentalmente, e ne modificava la graduatoria a seconda che nuovi indizi suggerissero una maggiore o minore probabilità di colpevolezza. All'ultimo posto c'era lo stesso Joaquin, ma in realtà l'aveva praticamente scartato, anche se all'inizio l'aveva colpita il fatto che il pervertito non telefonasse mai quando lui era in casa. Questo era stato il motivo dell'inclusione, insieme forse al segreto piacere di immaginarlo ridotto a fare sconce dichiarazioni per telefono, costretto all'anonimato per dar voce a quanto i suoi principi morali gli negavano. Ma Carmen avrebbe senz'altro riconosciuto la voce del marito, per quanto questi si fosse sforzato di mascherarla. Eppure non si rassegnava a cancellarlo dalla lista. Non si sa mai con questi bacchettoni, diceva a se stessa, maliziosamente divertita da un'accusa di colpevolezza quasi certamente infondata.
Un sospetto più verosimile era invece Julio, il vicino dell'appartamento di fronte. Dopo tutto godeva di una posizione privilegiata che gli consentiva di controllare tutti gli spostamenti di Joaquin. Senza contare l'aura inquietante che lo circondava, originata forse dal contrasto tra il suo modo elegante di vestire e la barba e i capelli incolti. Joaquin diceva che un tipo con occhiaie simili non poteva essere una persona per bene. Tuttavia non erano le occhiaie di Julio a infastidirlo, Carmen lo sapeva benissimo, bensì il fatto che, incontrandoli per strada, lui si fermasse ogni volta a salutarli e sorridesse a lei in modo sfrontato. Che faccia tosta, a me nemmeno mi guarda, si lamentava Joaquin. E non sapeva – e Carmen non aveva nessuna intenzione di dirglielo – che in sua assenza il sorriso di Julio si faceva ancora più esplicito ed era spesso accompagnato da una strizzatina d'occhio. Malgrado questi indizi però Carmen non riusciva a credere che l'anonimo pervertito e Julio fossero la stessa persona. No, la voce di Julio era troppo effeminata, non avrebbe potuto trasformarsi a tal punto. Peraltro, il maniaco aveva un leggero accento sudamericano, anche se era possibile che lo imitasse di proposito per celare meglio la propria identità.


L'accento sudamericano le faceva venire in mente un collega di Joaquin, incontrato una volta a cena, con cui però il marito aveva in seguito rotto l'amicizia a causa di un brutto scherzo, uno di quei colpi bassi di cui spesso e volentieri era vittima. L'uomo, una persona molto educata, per tutta la sera si era comportato con lei in modo davvero squisito, affascinandola con piccole delicatezze e attenzioni, come spostarle la sedia per farla accomodare a tavola o aspettare il suo ritorno dalla cucina prima di iniziare a mangiare, tutte cose che, a cena finita, avevano suscitato l'ilarità di Joaquin, che le considerava pacchianerie. Inoltre, sebbene per tutto il tempo l'ospite non le avesse rivolto la minima allusione, né sguardi espliciti, Carmen era certa, in virtù del famoso istinto delle donne, di non essergli risultata indifferente. Ma come era possibile che un uomo così distinto concepisse simili sconcezze? D'altro canto però alla radio avevano detto, riferendosi al caso di un padre che violentava la figlia, che proprio le persone considerate da tutti incapaci di far male a una mosca, persone educate, perfino sensibili, possono macchiarsi di orribili indecenze, crimini efferati e stragi.
La cosa più probabile era che nessuno dei tre fosse l'autore delle telefonate, quanto piuttosto uno psicopatico qualunque, che non le sarebbe mai venuto in mente: un commesso del supermercato, il farmacista, un vicino mai neanche notato.


In più di un'occasione aveva cercato di far ragionare il folle, di instaurare con lui una sorta di conversazione normale, per convincerlo che le stava facendo del male con quelle telefonate e contemporaneamente per provare a carpirgli elementi utili per l'identificazione. Senta, gli aveva detto una volta dopo essersi fatta coraggio, vorrei che parlassimo da persone civili; forse non si rende conto che questa persecuzione costante mi sta logorando i nervi – sì, Carmen – e sta pure compromettendo la convivenza con mio marito; se anche lei ha famiglia – sì, Carmen, sì... – Ma lei non mi ascolta. La supplico di smetterla di importunarmi con le sue telefonate o, se proprio non può farne a meno perché si sente solo, eviti certe oscenità – oh, Carmen, continua a parlare, la tua voce, la tua voce. Carmen allora, rendendosi conto che l'uomo non le dava retta e non aveva alcuna intenzione di cambiare comportamento, perdeva le staffe e passava direttamente alle minacce: se non mi lascia in pace chiamo la polizia, perché so benissimo chi è lei, mi ascolta? – ascolta, ascolta tu, Carmen, ti piace? – e alla fine il pianto di Carmen nell'udire quel rumore ritmico, come una lingua umida che si separa ripetutamente dal palato – ascolta, Carmen, ti piace? – e un miscuglio di insulti, maiale schifoso, lasciami in pace una volta per tutte, e suppliche – continua, Carmen, sì, così – singulti, gemiti.


La voce di Joaquin la spaventò. Non mi dire che hai dormito tutta la notte in poltrona, e per giunta con la luce accesa; ecco come arrivano certe bollette. A Carmen ci vollero alcuni secondi per capire dove si trovava. Mi sono addormentata senza volerlo. Joaquin non rispose e non disse una parola finché non uscì per andare a scuola, come faceva di solito quando voleva mostrarsi risentito. Persino i suoi movimenti lenti, il suo corpo, più curvo del solito, lanciavano a Carmen muti rimproveri, impedendole al tempo stesso di difendersi dall'accusa appena formulata. Carmen fu contenta di vedere uscire il marito. Si sentiva di ottimo umore e non aveva affatto voglia di rovinarselo. Quella notte, forse in una pausa tra un sogno e l'altro, aveva preso una decisione: al momento della telefonata non avrebbe sollevato il ricevitore, neppure se il telefono avesse continuato a squillare per ore. Sarebbe stata una dura battaglia di nervi, ma era pronta a mettere fine a quell'incubo.


La giornata passò in un soffio, alleggerita del suo peso abituale da una nuova sensazione di libertà. Carmen si sentiva forte e in grado di portare a termine la sua impresa. Avrebbe dimostrato a quel pervertito che non l'aveva in pugno.
Alle dodici il telefono squillò per la prima volta. Carmen esitò; se ora rispondeva ed era lui, sarebbe stata la fine, perché quella voce esercitava su di lei una sorta di attrazione ipnotica che le impediva di reagire come avrebbe dovuto – riattaccare immediatamente – e la obbligava ad ascoltare il messaggio fino alla fine, tra suppliche, pianti e inutili minacce, ben sapendo che le sue preghiere servivano solo a prolungare quel gioco osceno.
Tuttavia, non poteva essere lui: la battaglia sarebbe iniziata, come sempre, tra le tre e le quattro. Era Leonor. Quell'ubriacone del marito l'aveva picchiata di nuovo e lei aveva bisogno di vederla, sempre alla ricerca di una spalla su cui piangere le lacrime che negava al diretto interessato. Alle due e mezza, più in prossimità del pericolo, il telefono squillò nuovamente: la madre di Carmen, niente di speciale, solo sapere come stava, visto che lei non chiamava mai... Si sganciò appena le fu possibile senza sembrare troppo scortese. Alle tre meno cinque tremava tutta per l'eccitazione.
Prese un pacchetto di sigarette dal suo nascondiglio, il cassetto delle tovaglie, dove Joaquin non sarebbe mai andato a frugare. In circostanze come questa, non era peccato concedersene una. Non le diede alcun gusto, però continuò a fumarla per tenere occupate le mani. Alle tre e cinque, misericordiosamente puntuale, il telefono squillò di nuovo. Carmen fece finta di essere diventata sorda. Si sforzò di pensare ad altro: le feste di Natale si avvicinavano, era il momento di iniziare i preparativi e di comprare i regali, perché poi se si riduceva all'ultimo minuto doveva fare tutto di corsa, e al dunque risultava sempre che si era dimenticata qualcosa, e chi lo sentiva Joaquin, acerrimo nemico dell'improvvisazione.
Ascoltava lo squillo come se venisse da molto lontano, desiderando che cessasse, ma senza pensarci troppo, proprio come una persona addormentata che si sveglia lentamente e si sorprende perché continua a sentire il campanello della porta anche dopo averla aperta, e non si rende conto, se non più tardi, che quel campanello è la sveglia. All'improvviso sussultò, come se in effetti si fosse risvegliata da un sogno: l'apparecchio si era appena zittito. Probabilmente si era trattato di un falso allarme: magari era Joaquin per dire che quella sera sarebbe rientrato più tardi, e poi le avrebbe chiesto dov'era alle tre, lui aveva fatto squillare il telefono a lungo, avrebbe dovuto mentirgli, sono scesa un attimo in piazza, anche se era sicura che non le avrebbe creduto, che strano, non credeva mai alle spiegazioni logiche degli imprevisti, come se l'ordine dei giorni, per lui rigo-roso, potesse essere alterato solo da accadimenti straordinari, tipo la morte di un parente o l'esplosione di una bombola di gas.
Il telefono riprese a squillare. Era lui. Carmen contava i trilli mentre, contemporaneamente, inseguiva con lo sguardo il lento movimento della lancetta dei secondi, sorpresa di vederla ripassare per la posizione verticale così tante volte, com'è possibile tanta testardaggine, tanta ossessione. Di nuovo il silenzio, che stavolta non ingannò Carmen, di sicuro si starà riposando un attimo per recuperare le forze in vista di un assalto ancora più ostinato. Sa che sono qui, altrimenti avrebbe lasciato perdere, sono dieci minuti che insiste, sa che sono in casa, che i miei nervi non reggeranno ancora per molto, che ha già la vittoria in pugno, gode nel torturarmi, nel perseguitarmi con la sua insistenza, è Julio, non c'è dubbio, per questo è tanto sicuro che non sia uscita, mi vede dalla finestra, si starà facendo due risate, quel pervertito, porco, ma adesso gliene vado a dire quattro... no, non la passerai liscia. È questo che vuoi, eh? che sollevi il ricevitore e allora... Continua pure, vigliacco, io esco, così non dovrò continuare a sentirti, me ne vado in chiesa, Joaquin ne sarà contento, dopo tanti anni; non dovrà darsi più pena per la salvezza della mia anima. Un quarto d'ora, Dio santo, è un quarto d'ora che insiste, e se non fosse lui? Magari è successo qualcosa di grave, un incidente, è successo qualcosa a Joaquín, un infarto o, ancora peggio, è la mamma, poverina, le ho dato così poco retta prima, magari sta male, è un po' che quel maledetto rene la fa penare. Carmen riappese la borsa che aveva tirato fuori dall'armadio, si diresse verso il telefono con passo indeciso, indugiò ancora un istante con la mano sul ricevitore, temendo di stare per cadere in trappola, di fare il gioco di Julio, o chi per lui, ma consapevole di non poter resistere l'intera giornata con la preoccupazione che fosse successo qualcosa di grave a sua madre. Portò la cornetta all'orecchio.
– Si?
La sua cauta domanda arrivò tardi. Avevano riattaccato.
Carmen sprofondò nella poltrona. Sospirò sollevata e, tuttavia, scoppiò in lacrime.


La giornata trascorse in uno stato di stordimento da cui neppure il ritorno di Joaquin riuscì a scuoterla. Gli sforzi di quest'ultimo per cercare di attirare la sua attenzione mediante il racconto epico della vittoria sugli altri professori del dipartimento – il coordinatore non ci ha messo neanche un secondo a capire da che parte stesse la ragione – furono del tutto vani. Né un cortese "bravo", né un "non mi dire" mal simulato. Persino il quiz televisivo non sortì effetto migliore. E il colmo fu quando Joaquin si infuriò perché la cena non era ancora pronta e nel frigorifero non c'era niente con cui farsi un panino, che diamine hai fatto tutto il santo giorno? Perché nemmeno la casa si può dire proprio pulita, accidenti alla menopausa. Malgrado questo, Carmen restò assolutamente immobile e ascoltò, sbalordita, l'inspiegabile silenzio che si faceva largo tra gli strati più spessi del quotidiano, quel mutismo che trasformava il resto degli eventi in gesti fini a se stessi, lontani, estranei, come le innumerevoli disavventure di un cattivo del cinema muto.


La mattina dopo, Carmen riemerse dal suo stordimento come chi si alza dal letto dopo una lunga malattia, meravigliandosi dell'elasticità del quotidiano che le permetteva di tuffarsi nuovamente nella routine di tutti i giorni come se nulla fosse cambiato in sua assenza.
Dal bagno le giungeva il ronzio del rasoio elettrico del marito, dalla cucina il motivetto di Radio Hora, le otto e due minuti, l'ora di alzarsi, il caffellatte, il pane tostato, la camicia di Joaquin. Dopo che questi se ne fu andato, anche Carmen iniziò a prepararsi per uscire, sapendo che non avrebbe saputo resistere alla tensione di una nuova attesa. Avrebbe fatto la spesa, si sarebbe presa un caffè al Brillante, magari avrebbe fatto una visita a Leonor, che ne sarebbe stata felicissima, o alla mamma, le avrebbe fatto un'improvvisata, qualunque cosa pur di non trovarsi in casa al momento della telefonata; esisteva la possibilità che in questo modo il suo carnefice finisse per stancarsi del gioco e la lasciasse finalmente in pace.


Mentre usciva lanciò una rapida occhiata alle finestre di Julio: le serrande erano abbassate. Probabilmente dormiva ancora, quel mascalzone. Il rumore del mercato riuscì a distrarla per qualche minuto. Carmen contemplò quasi con gioia l'andirivieni regolare degli scaricatori, lasciandosi ammaliare dal loro vociare superfluo e appena decifrabile. Si fermò davanti a ogni chiosco senza intenzione di comprare, ma solo per farsi incantare dalla rigorosa disposizione dei limoni nelle cassette, o dalla velocità suicida con cui il macellaio separava gli scarti dalle parti nobili, o ancora dallo sguardo acquoso e risentito dei merluzzi. E fu quasi sul punto di dimenticare tutto, il telefono, la voce roca, il suo corpo inerme di fronte alle fantasie dello sconosciuto, e di perdersi in quel mondo variopinto, in quel caleidoscopio di colori, rumori, odori, quando un altro suono cominciò a farsi strada in quel mare magnum sonoro e a imporsi poco a poco: da un luogo imprecisato, il temuto e familiare trillo veniva strisciando a ricordarle che era lì per dimenticare e che il suo mondo era altrove. Carmen, con lo sguardo fisso a terra, in preda al timore quasi infantile che la gente la guardasse come se stesse commettendo un'azione ignominiosa, si allontanò a passo svelto dal mercato, finché non smise di sentire il trillo. Prima di entrare al Brillante verificò preoccupata che il telefono non stesse squillando anche lì.
Le ore scivolarono parsimoniosamente, come gocce d'olio. Carmen immaginava Julio – il quale, senza una ragione apparente, era balzato ai vertici della classifica – seduto al buio al centro della stanza, nell'atto di tamburellare impaziente con le dita sul bracciolo della poltrona, lo sguardo fisso all'orologio – proprio come lei – che storceva il naso di fronte alla lentezza delle lancette e si alzava di tanto in tanto per andare al telefono, accarezzarne il freddo dorso, dopo di che consultava di nuovo l'orologio, sospirava, spiava attraverso le fessure delle serrande e tornava a sedersi chiedendosi come mai anche le serrande di Carmen fossero abbassate quando al massimo alle otto e mezza... L'impazienza di Julio procurava a Carmen un piacere innegabile, sebbene il poveretto le facesse anche un po' pena, tutto il giorno appeso a quest'appuntamento, roso dal non poter rivelare a nessuno il suo peccato segreto e consapevole di non avere alcuna possibilità di tenere fra le braccia la donna adorata. E comunque si meritava questo e altro: come pretendeva di essere degno di compassione un essere capace di proferire simili porcherie?


Quando suonarono le dodici Carmen si alzò, pagò i suoi caffè e lasciò il locale. Si diresse verso la casa di sua madre, rallegrandosi in anticipo per la piacevole distrazione che le avrebbe procurato il gaio chiacchiericcio dell'anziana. Non trovarla fu un autentico dispiacere. Vagò un po' per le strade senza decidersi ad andare da Leonor: altri problemi, altre cattiverie. Entrò in un grande magazzino. Pur non avendo intenzione di fare acquisti, si provò alcuni capi: un bikini esageratamente succinto – a Joaquin sarebbe preso un colpo vedendoglielo addosso anche se, modestamente, non le stava affatto male – un paio di scarpe con racchi impossibili, una camicetta di seta naturale, molto carina ma audace nella sua trasparenza, e carissima. Quasi sul punto di svenire per stanchezza, si diresse verso casa; erano appena suonate le quattro.


Joaquin la trovò distesa sul letto, tutta tremante e sudata. Santa donna, perché ieri non mi hai detto che stavi male. Resta sdraiata, io mi arrangio con quello che trovo.
Carmen passò una notte agitata, in dormiveglia. Provava un freddo eccessivo per le miti temperature di quell'autunno. Spesso si svegliava di soprassalto, credendo di sentire il telefono e restava in ascolto, trattenendo nervosamente il respiro, finché non era assolutamente certa di essersi sbagliata. Poi si rimetteva giù, raggomitolata sotto le coperte e pregava che il sonno si impadronisse di lei.
La mattina dopo, quando Joaquin si alzò, Carmen rimase a letto. Sonnecchiò fino a dopo mezzogiorno, svegliandosi ogni tanto ma senza mai essere del tutto cosciente; riusciva ancora a sentire la voce dello sconosciuto e le sue parole insistenti.
Si trattava dell'amico di Joaquin, non c'erano dubbi: quel modo di trascinare stancamente la voce, passando in rassegna una a una, con pigro compiacimento, le delizie della pelle di Carmen e soprattutto quelle dei suoi incavi. Sognò di lui in modo lieve. Era seduto sulla poltrona di un salotto, in penombra, e stava componendo un numero di telefono. Girava il disco con mano nervosa. Era nudo. Una volta composto il numero cominciò ad accarezzarsi tra le gambe. Un vaso che adornava il tavolino del telefono, senza altra sollecitazione se non quella del filo dell'apparecchio, cadde a terra rompendosi in mille pezzi.
Ai piedi dell'uomo una pozza silenziosa prese pian piano forma. Carmen si alzò. Si diresse verso il salotto avvolta nella vestaglia. II vaso era lì, intatto, sul tavolino. Erano già le tre. Si sedette sulla poltrona aspettando la telefonata. Non aveva senso continuare a difendersi; non appena avesse squillato, avrebbe risposto ancora una volta e avrebbe ascoltato di nuovo quella voce sinuosa, le sue promesse oscene, il suo piacere meschino e il blando, quasi sottomesso, epilogo della sua passione.
Alle tre e venti non aveva ancora chiamato. Era come sempre: quel dipendere e vivere in funzione di un solo momento che avrebbe rappresentato il punto cardine della giornata. Esistevano il prima, il durante e il dopo la telefonata. La vita ruotava attorno a un unico evento da cui traeva il proprio senso. La tensione, l'attesa e il fremito crescevano col trascorrere della mattina, quindi, in un punto qualsiasi sulla linea compresa tra le tre e le quattro, la rottura: la violazione, le suppliche, la sconfitta. Il resto della giornata era un'appendice superflua, un ostinato rimuginare su quanto già accaduto che neppure il ritorno di Joaquin riusciva a interrompere.
Le tre e mezza e ancora silenzio. Gli occhi di Carmen correvano dall'orologio al telefono e dal telefono all'orologio. Santo cielo, se almeno chiamasse una volta per tutte e la smettesse di tenerla in bilico, in quello stato di eccitazione insopportabile. Verificò che la cornetta fosse agganciata correttamente. Si sentiva terribilmente stanca. Stette un istante con gli occhi chiusi e la mano sul cuore, ascoltandone i battiti. A meno un quarto si alzò dalla poltrona e cominciò ad aggirarsi per la stanza. Quell'imbecille, poteva pure farla questa maledetta telefonata. Cosa stava aspettando? Alzò il telefono per accertarne il corretto funzionamento e lo rimise giù in fretta. Si sedette di nuovo e continuò ad aspettare. Che altro poteva fare?
Quando suonarono le quattro, Carmen non poteva crederci. Non aveva chiamato. Non era possibile che si fosse arreso solo perché non aveva risposto per due giorni di seguito! Doveva essere in ritardo per qualche motivo. Non valeva neppure la pena di mettersi a sistemare la casa perché, di sicuro, il telefono avrebbe squillato di lì a poco. Sentì battere il quarto d'ora e poi la mezz'ora. Alle cinque e dieci, o e un quarto, a seconda che guardasse l'orologio del salotto o quello da polso, andò in camera sua e si lasciò cadere sul letto. Morse il cuscino in preda a un misto di rabbia e disperazione. Poi si raggomitolò e rimase a lungo in questa posizione. Cominciava vagamente a percepire lo smantellarsi della sua esistenza e la disintegrazione del suo irrinunciabile ordine. Si rese conto di aver vinto la battaglia: il telefono non avrebbe più squillato tra le tre e le quattro, non in quel modo insistente e ormai familiare. Seppe anche – erano circa le cinque e quarantacinque – che quella era stata la sua ultima avventura e che, a partire da quel momento, avrebbe affrontato da sola il ritmo omogeneo del passare dei giorni, sola con Joaquin.


(Tratto dalla raccolta Come sono strani gli uomini, Voland editrice, Roma, 2003, traduzione di Federica Frasca)


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