La natura dell’intervento per il quale mi appresto a dare una mia umile riflessione è delicatissima; risulta altresì lampante come tale riflessione non possa e non debba considerare solo l’episodio che mi ha “regalato” lo spunto – la rimozione del crocefisso da parte di una insegnante, poi sospesa dall’incarico, in una scuola della provincia di La Spezia -, ma altresì sia permeata da elementi che “vivono” in ogni ambito dell’attuale società, come tragicamente e limpidamente confermato dai fatti dell’11 settembre.
Ho letto con crescente interesse i vari interventi
di sapienti colleghi in merito all’argomento, e ho tratto dagli stessi
l’impressione di un sentimento di “tolleranza” (e mi perdonino i miei
interlocutori per il termine improprio) nei confronti del gesto “coraggioso”
dell’insegnante, un gesto che non può definirsi “sbagliato” nel senso letterale
del termine, ma che nel contempo rompe un orientamento consolidato.
Quanto sopra emerge con chiarezza dalle parole del
Dott. Salvatore Prisco che, nel sentito intervento del 16 novembre 2001 al
Forum on line dei Quaderni Costituzionali, afferma che, “educato da cattolico
secondo la fede dei miei genitori e di altri prima di loro, mi sento da lungo
tempo un laico problematico, epperò consapevole con Benedetto Croce (ecco il
punto) che non possiamo non dirci
cristiani”.
Risulta così come, pur vivendo l’ambito religioso
come intriso di problematiche sociali, lo stesso riesca ad imporsi nel nostro
modo di vivere alla stregua di un dato predefinito che può essere modificato in
alcuni aspetti esteriori, ma che rimane intatto e perfetto nella sua essenza
più intima.
Quanto sopra emerge in maniera lampante anche e
soprattutto dal lavoro intellettuale dei primi giuristi; scriveva Ulpiano nel
primo libro delle Istituzioni a proposito del diritto che esistono due tipi di
diritti: il diritto pubblico considerato di competenza dello Stato unitamente a
quello privato che viene finalizzato all’utilità dei singoli cittadini.
Ma l’elemento che maggiormente interessa questo
intervento risulta essere la sottodivisione del diritto privato che – sempre
secondo il pensiero di Ulpiano – è costituito da precetti legati alla Natura
contrapposti ai precetti legati ai popoli; proprio tale ultima “famiglia” trova
la propria essenza e fallibilità nella nascita ad opera dell’ingegno umano,
essendo costretta così a ricorrere al diritto naturale come fonte infallibile e
inderogabile.
Lo stesso pensiero si deduce dagli scritti di
Ermogeniano in merito all’istituto dell’affrancamento, in cui la pratica della
schiavitù viene intesa come opera dell’uomo – in quanto secondo il diritto
naturale tutti gli uomini nascono liberi, tutti sotto il “dominio” di Dio – ed identificando
quindi l’istituto dell’affrancamento come unico mezzo per ristabilire un
equilibrio divino e assolutamente giusto, precedentemente “bypassato”.
Mi vorranno perdonare i lettori per questa breve
quanto inadeguata dissertazione in materia di Diritto comune, ma quanto sopra
scritto per dimostrare come il pensiero religioso abbia rappresentato per
secoli un sentiero chiaro pronto a guidarci alla vetta del monte e pronto a
salvarci dall’incertezza di non sapere realmente cosa ci aspetta dopo l’inevitabile
passaggio.
E senza poi andare troppo indietro nella storia
dell’umanità, basti vedere l’attuale influenza religiosa nella visione del
diritto penitenziario, e, più nello specifico, nella visione del lavoro da
parte del detenuto all’interno dell’Istituzione totale; una influenza che vede
il detenuto – punito per crimini commessi nei confronti della società civile, e
quindi “reati laici” – relegato in un limbo dove il suo unico compito è quello,
tradizionalmente cattolico, di espiazione della pena, intesa come momento in
cui tutte le normali attività sono precluse, a vantaggio di un isolamento
culturale e lavorativo che trova la propria essenza nel concetto del
pentimento.
Niente a che vedere con l’orientamento di stampo
anglosassone risalente al diciannovesimo secolo, in cui il detenuto, proprio
perché “contrario” alle norme istituzionali di un contesto civile, deve essere
“rieducato” al rispetto di tali norme attraverso lavori sociali che lo
identifichino nuovamente come “consociato” e non alla stregua di una pedina
impazzita all’interno di un meccanismo perfetto; quanto sopra per giustificare
la visione del lavoro dei detenuti nel modello inglese ed americano e per
condannare l’assoluta inerzia lavorativa del detenuto italiano che si deve
misurare con un sentimento antistorico e ancorché poco utile ai fini della
tanto conclamata “risocializzazione”(1).
Di poi – in ambito prettamente sociale - anche e
soprattutto l’attuale prevalere di visioni antropocentriche che si sono
contrapposte alla cultura monoteistica e panteistica e si sono affermate come
punto centrale di inizio e di dibattito in merito a problematiche quali
l’eutanasia o le tecnologie della riproduzione assistita (2); tali visioni,
aiutate dall’emersione di una società dai caratteri marcatamente laici e
complice un innegabile progresso della scienza medica, hanno provocato una
netta flessione dei sentimenti religiosi, ritenuti ormai obsoleti e poco
consoni al nuovo assetto sociale.
Quanto detto mi induce ad una necessaria
riflessione: forse il sentimento religioso è nato ed è prosperato nei secoli
sotto l’ègida dell’alibi? Forse proprio l’eterna incertezza si è posta come
terreno fertile per la nascita di valori che nulla hanno a che vedere con il
contesto sociale ma che si affermano solo come elementi di “felicità apparente”
(3)?
Sono d’accordo con il Dott. Prisco (4) quando
ricorda le sapienti parole dell’insigne giurista e colto pubblicista
Calamandrei, ma nel contempo non posso scordare come lo stesso Calamandrei ha
affermato che il giudice “deve essere tanto sicuro del suo dovere, da
dimenticare, ogni volta che pronuncia la sentenza, l’ammonimento eterno che gli
viene dalla Montagna: Non giudicare”
(5).
Non quindi portatore di giustizia semidivina, ma
dispensatore di una giustizia fallibile, perché umana, necessaria, perché in
sua assenza si avrebbe un clima di anarchia; una giustizia che afferma “il nome
di giudice che è un nome onesto ed austero, come quello che distingue un ordine
religioso” (6), ma in questo caso la religione non si identifica nella certezza
assoluta, bensì si trasforma in fede nei confronti di quei valori – libertà,
uguaglianza, tolleranza – che nel corso dei secoli spesso sono stati collocati
in dottrine religiose, ma che forse, a parere di colui che impudentemente scrive,
hanno più attinenza con il cammino laico dell’umanità.
E proprio a proposito del sentimento della
tolleranza, non posso scordare come – all’interno dello statuto della Académie
Universelle des cultures – una delle dichiarazioni introduttive affermi la tutela
del grande “meticciato di culture” europeo, con un indiretto riferimento alla
negazione del concetto di melting pot (7).
Una problematica che, prima di essere religiosa,
quindi, riversa i propri effetti nella sfera economica e sociale; non si
discute più sull’ammissione in università europee di studentesse con il chador, o sulla costruzione di moschee
in città italiane, ma si discute animatamente sui mezzi di tutela giuridici ed
economici da accordare; la religione non è più un problema, lo è invece l’ancora
instabile assetto mondiale (8)!
Ancora sulla tolleranza – e quindi sull’intolleranza
-, mai come oggi il fondamentalismo
si afferma come un male assoluto, strettamente legato ai tragici fatti dell’11
settembre; ma il fondamentalismo è intollerante?
Umberto Eco afferma che lo è solo sul piano
ermeneutico, ma non necessariamente su quello politico (9), riportando
l’esempio della corrente political
correctness nata in America con l’espresso fine di tutelare ogni
differenza, religiosa, razziale e sessuale, e divenuta nel tempo una vera e
propria corrente fondamentalista che investe il linguaggio quotidiano e che
“lavora sulla lettera a scapito dello spirito”.
Basti poi vedere le reazioni – alibi della
popolazione italiana, quando nel 1997 numerosi albanesi entrarono nel nostro
paese a bordo di insicure barche poi filmate nel film “Aprile” di Nanni
Moretti: accoglienza e cortesia in apparenza; intolleranza cieca nelle
interviste anonime.
Come risolvere il problema?
Forse sganciarlo da settori troppo ingombranti quali
la religione; trattarlo da problematica sociale, o meglio, trattarlo come
necessaria evoluzione sociale e storica; perché il problema non esiste, si
tratta solo di approntare un adeguato piano di protezione e lasciare che la
Storia faccia il suo corso.
Se vi piace sarà così, e se non vi piace, sarà lo
stesso!
In conclusione, non riesco a condannare il gesto
dell’insegnante, proprio perché quel crocefisso rappresenta per me un simbolo
estraneo all’aula scolastica, collocandosi piuttosto in maniera ottimale in una
sfera intima e privata, e che proprio nella sua intensa soggettività rifiuta
ogni schema predefinito ed ogni regola: da cittadino sono tenuto, per necessità
e nel contempo per consapevolezza, a seguire delle norme che mi “regalano” diritti
e doveri; ma nel mio intimo sono – devo essere - totalmente libero di
identificare in quella figura un martire, un combattente, un poeta o un grande
pensatore.
Tale conclusione non vuole e non deve essere
interpretata come un tentativo maldestro di sottrarre al pensiero religioso
valenze culturali, bensì vuole cercare di riconsegnare allo stesso quei
principi che furono testimoni della sua “nascita”; quegli stessi principi che,
“sporcati” e mutati da sentimenti umani nel corso dei secoli, hanno determinato
la nascita di un culto di massa che nulla ha a che vedere con il significato
originario della religione.
(1) Senza contare poi il sentimento di inerzia
culturale che, ad onore di cronaca, si sta cercando di combattere; a questo
proposito l’Autore vuole citare la testimonianza di un detenuto che ha
partecipato ad un esperimento teatrale condotto da Lamberto Giannini
all’interno del carcere “Le sughere” di Livorno: “all’inizio è stato pesante,
come togliersi la maschera davanti a tutti e mostrare il proprio volto…i miei
compagni di corso sono tutti dentro per storie di droga e rapine, ma durante la
lezione sembra che il problema sia lontano da loro come se appartenesse ad
un’altra vita…quando siamo tornati nelle celle eravamo accompagnati da una allegria
insolita”.
(2) Il cd. rapporto tra i diritti della personalità
e la scienza bioetica, che ha posto l’esigenza di passare “dal problema alla
norma” (la definizione è di Alessio Liberati) studiando la possibilità di
legiferare solo principi guida – la giuridicizzazione dell’etica – rimettendo
ad apposite istituzioni la regolamentazione dei profili specifici. Allo stato
dei fatti, tale percorso si afferma come unica alternativa, ma nel contempo lo
stesso si pone come fonte di possibili ed eventuali disuguaglianze, con il
rischio di probabili “oasi dell’eutanasia” dove il dettato legislativo è più
“morbido” e permissivo; senza contare poi l’eventuale sfruttamento di paesi
politicamente instabili ed economicamente poveri.
(3) Conseguentemente “cadendo” nel contesto sociale
attuale, dove l’unica incertezza riguarda il momento del trapasso.
(4) Il lettore può leggere l’intervento nel Forum
dei Quaderni Costituzionali della Casa editrice Il Mulino.
(5) La frase è contenuta nel libro “Elogio dei
giudici scritto da un avvocato”, Edizioni Ponte alle grazie, ultima edizione
del 1956, all’interno del capitolo sulle somiglianze e le differenze tra
giudici e avvocati.
(6) La frase risale al lontano 1938 ed è contenuta
nella prima edizione del libro “Elogio dei giudici scritto da un avvocato”.
(7) Basti osservare la città di New York dove
diverse culture coesistono, dai portoricani ai cinesi, dai coreani ai
pakistani; Umberto Eco anzi afferma che “la popolazione detta bianca, a New
York, si avvia ad essere una minoranza, il 42% dei bianchi sono ebrei, e
l’altro 58% sono di diversissime origini, e tra loro i wasp (bianchi, anglosassoni e protestanti) sono la minoranza”
(tratto da U. Eco, Cinque scritti morali, pasSaggi Bompiani, Milano, 1997).
(8) Per motivi che molti, ostinatamente, continuano
a definire “religiosi”, ma che in realtà sono solo e solamente interessi
economici legati a risorse economiche.
(9) “Si può immaginare una setta fondamentalista che
assume che i propri eletti abbiano il privilegio della retta interpretazione
delle Scritture, senza peraltro sostenere alcuna forma di proselitismo e volere
pertanto obbligare gli altri a condividere quelle credenze, o battersi per
realizzare una società politica che si basi su di esse” (tratto da U. Eco, Cinque
scritti morali, pasSaggi Bompiani, Milano, 1997).
Stefano
Martello
(1974), Giornalista, saggista e poeta, per la Rivista Sagarana ha già
pubblicato i saggi “Per una cultura popolare ed istituzionale” e “Per un nuovo
servizio civile”. Attualmente collabora con il portale giuridico Diritto.it,
con articoli giuridico-sociali.