“VIVA LE MEDAGLIE D’ORO” GRIDARONO
I BIMBI DI CERVI
Italo Calvino
Cominciarono ad arrivare
a Reggio Emilia la sera del sabato, con vari treni: chi veniva dalla Calabria,
chi dal Piemonte, chi dal Friuli. Erano persone anziane, coi capelli bianchi,
persone modeste, che non davano nell’occhio. Si trovarono al posto convenuto.
Erano una piccola compagnia di vecchietti, tutti di paesi diversi, di diversi
ceti e professioni. Ma si conoscevano tutti già da tempo, si salutavano: “Come
sta, signor avvocato? Ha fatto un buon viaggio, cavaliere?”. Conoscevano i
fatti l’uno dell’altro, avevano in comune ricordi di altri incontri recenti,
conversazioni incominciate, che ora riprendevano. Erano venuti a Reggio
invitati da un altro vecchietto, fittavolo in una campagna là vicino.
La cosa in comune era questa: erano tutti padri e madri, e i loro figli erano
morti in guerra, come tanti, ma i loro erano morti compiendo atti coraggiosi,
imprese fuori del comune, e avevano avuto la medaglia d’oro al valor Militare
alla memoria. Erano genitori di medaglie d’oro della Guerra di Liberazione, che
compongono la presidenza di un’Associazione dal nome solenne: “Consiglio
nazionale del valore e del sacrificio”. Ora il Comitato di presidenza doveva
riunirsi per decidere sulle iniziative da prendere nel decennale della
Resistenza, e il vicepresidente del loro Consiglio, Alcide Cervi, il padre di
sette fratelli fucilati, l’uomo che porta sette medaglie s’argento appese al
petto, li aveva invitati a casa sua.
Eccoli dunque convenuti a
Reggio Emilia per andare insieme al fondo dei Cervi, a Praticello. Guardiamoli
da vicino, questi vecchi, cerchiamo di immaginare attraverso gli occhi loro che
li videro crescere – poveri occhi che hanno molto pianto, che ogni tanto ancora
riprendono a piangere – quei loro figli, che non ci sono più. Questo vecchietto
lindo e minuto, dalla persona e dalla parola accurata, dalla stringata mimica
meridionale è l’avvocato Cortese, di Vibo Valentia (Catanzaro), padre di
Vinicio Cortese, sottotenente degli Arditi, che l’8 settembre restò in Piemonte
a fare il partigiano e due volte fu catturato dal tedeschi e due volte evase, e
al ponte do Ozzano-Monferrato alla pattuglia tedesca che lo sorprese mentre
stava per mettere la mina si avventò solo contro quaranta a colpi di pistola e
quando non ebbe più colpi gettò l’arma scarica in faccia ai nemici che gli
rafficavano sul petto. E questo torinese tarchiato, dall’aria fiera e dalla
parola espansiva è il pensionato delle ferrovie Francesco Cavezzale, padre del
marinaio elettricista Pietro Cavezzale che all’isola di Lero assalita dai
tedeschi, a mano a mano che i compagni a turno cadevano e le munizioni venivan
meno, s’improvvisava cannoniere, poi mitragliere, poi correva con la baionetta
a trapassare un ufficiale nemico ed a morire. E questo signore di grossa
corporatura ma dall’aria riguardosa e modesta è Amilcare Sarti che ha un
negozio di vernici a Ravenna: e suo figlio, il tenente di vascello Primo Sarti,
cadde in uno dei più foschi episodi della guerra: mentre nel 1944 navigava col
suo sommergibile della Marina dell’Italia libera tra la Sardegna e la Corsica,
un gruppo di marinai fascisti s’ammutinò e uccise gli ufficiali che rifiutavano
di fare rotta verso i porti in mano ai tedeschi. E questa signora bassottina e
semplice, dai capelli grigi, è la mamma di Giannino Bosi che fondò le bande
garibaldine nel Friuli e che piuttosto che cadere vivo nelle mani tedesche si
puntò contro l’arma. E questo genovese canuto e silenzioso è il signor Lucarno,
capo tecnico: suo figlio Ezio, diciottenne, sopra il monte Antola, per
permettere ai partigiani del suo distaccamento di ripiegare dopo una pericolosa
azione, attirò su di sé col fuoco della sua arma i nemici. E questi coniugi
così cordiali, cerimoniosi, con un continuo trepido sorriso sulle labbra, sono
il direttore d’una tipografia di Cuneo e sua moglie, genitori di Ildo Vivanti
che la canzone dei G.L. di Valle Gesso ricorda come “il migliore dei
partigiani”.
Con loro erano venuti a Reggio gli altri, i giovani del Consiglio, quelli che
rappresentano la generazione dei figli: le medaglie d’oro partigiane viventi.
Quella signora giovane fine, dal bel viso ridente, è Carla Capponi, che portava
rivoltelle e bombe nella borsetta per le vi di Roma invasa, e correva con le
armi in pugno alla testa dei G.A.P. nelle fulminee azioni e incendiava il buio
delle notti di coprifuoco con i suoi spari e il suo sorriso. Quell’uomo
tarchiato, il cui sguardo di sotto in su, tranquillo un po’ sornione, è come
illuminato da un lampo di malizia, è Giovanni Pesce, l’inventore della lotta in
città, che portava il terrore tra le fine nazi-fasciste di Torino e di Milano,
rapido e scattante come un felino, micidiale ed imprendibile. E quel biondo
giovanotto scanzonato è Roberto Vatteroni, e il braccio che ora porta rigido
contro il fianco lo alzò ridotto a un moncherino sanguinante a incitare i
compagni sui monti del Carrarese.
E quell’omone dal rosso largo viso pieno di bontà e di pazienza è Fermo
Melotti, ora impiegato comunale a Modena: quella mano di cui restano poche
dita, come un artiglio, la perdette in un’azione audace per salvare i compagni:
e poi fu catturato e torturato quanto un uomo può essere torturato e non gli
uscì parola; finché, giunto all’estremo, per paura di parlare nel delirio,
tentò due volte di uccidersi; e quando i suoi compagni con un colpo di mano
vennero a liberarlo, scardinò la porta della cella con le sue braccia, e
ricevette addosso ancora una pallottola nemica, e come se niente fosse tornò a
fare il partigiano: e con quattro bombe a mano sgominò un carro armato: e il
Comando gli ordinò di mettersi in salvo oltre le linee, perché non ce la faceva
più tant’era carico di ferite; e lui rifiutò, e leggendario in tutta l’Emilia
continuava a travolgere forze corazzate nemiche.
Ma non erano tutti i presenti, quelli della presidenza. Mancava proprio il
presidente, Luigi Dal Pont, partigiano del Piave, rimasto cieco a vent’anni, ma
gli davano proprio quel giorno a Belluno una medaglia d’argento, da porre al
fianco di quella d’oro. E mancavano i genitori di Dante Di Nanni, che quella
domenica veniva commemorato a Torino, sotto la finestra di borgo San Paolo
donde il ragazzo assediato aveva aperto il fuoco e tenuto testa per ore
all’assalto nemico e s’era infine gettato giù sul selciato. E ancora erano
attesi il fratello di Pilo Albertelli, il professore torturato e poi fucilato
alle Ardeatine, e il padre del capitano Antonio Cianciullo, eroe di Cefalonia.
Questi erano gli invitati di papà Cervi, che domenica 23 maggio andarono a
trovarlo a Praticello di Gattatico su un torpedone preceduto da un corteo di
moto e di lambrette di contadini venuti incontro sulla strada. Andavano a
“discutere delle nostre cose – come aveva scritto il vecchio Cide a Dal Pont –
proprio come facevo un tempo con i miei figli quando c’era da risolvere
qualcosa di importante per il nostro fondo e per la libertà”.
I vecchi erano più loquaci, e ogni tanto tornavano a raccontare dei loro figli,
a commuoversi, a domandarsi l’un l’altro: “Ma lei quand’è stato che ha saputo
la notizia? E quando l’aveva visto l’ultima volta?”. E Cavezzale: “Se penso che
sono stato io a dirgli, tornando nel 1942 da far servizio di ferroviere
mobilitato in Russia: “Fa qualsiasi cosa, piuttosto che lasciarti prendere
prigioniero dai tedeschi!”. E Sarti: “Ma il mio, da ragazzo non era mica
contrario al regime; fu dopo, con le cose che vide in guerra, coi discorsi che
sentiva da me...”. E i Vivanti: “E il nostro anche lui...”. Ecco che vediamo in
loro rispecchiarsi il segreto passo della storia: quello che i figli prendono
dai padri, quello che i padri alla loro volta prendono dai figli.
I giovani con la medaglia d’oro, invece, non parlavano mai del passato, non si
lasciavano andare ai ricordi, troppo presi del presente e del futuro. Pure, a
vederli lì, quei quattro, sapendo quante ne avevano fatte, ai danni di tedeschi
e fascisti, ci si sentiva presi, sullo sfondo di quella verde e ardimentosa
campagna emiliana, da una ventata d’epopea cavalleresca, come a ritrovarsi in
un mondo popolato da eroi d’Ariosto: ecco l’intrepido guerriero, il saggio
cavaliere errante, il generoso paladino, il fortissimo gigante.
E una ventata di cantare di gesta animava anche la semplice cerimonia con cui
la popolazione di Gattatico con papà Cervi alla testa accolse i decorati. Parlò
il sindaco, Ircoide Marconi (già si nota fin nei fantasiosi nomi di battesimo
lo spirito avventuroso della campagna emiliana), parlò il generale Roveda che
fu comandante nella zona, e i loro discorsi erano tutti di fatti e di persone,
fatti eroici o atroci, una sterminata epopea locale, piena di nomi, come le
elencazioni degli eroi dei poemi d’Omero.
Suonò la banda: erano giovanotti col maglione turchino e il berretto bianco da
marinaio: come l'equipaggio d'un veliero sbarcato tra quei prati. Si snodò un
corteo, coi “pionieri” allegri in testa che cantavano (e tra loro gli orfani
dei Cervi); tra le case del paese c’erano festoni e bandiere e scritte
d’evviva. Ci si guardava intorno: era un’altra Italia, un’Italia senza la
“celere”, senza pompe ufficiali, dove il patriottismo è una cosa semplice
schietta, una cosa “del fondo e della libertà”.
A casa Cervi, il vecchio Cide portò subito gli invitati a visitare la stalla
modello, dove la Verina, la vedova di Aldo, attende laboriosa alle sue mucche;
poi nel tinello, dive i sette figli studiavano la sera, e dove troneggia il
famoso mappamondo di Aldo, si riunisce il Consiglio. Il vecchio Cervi presiede,
con quella sua sentenziosa saggezza di patriarca, fiero nella forte tozza
persona, col grappolo delle sette medaglie sul petto. Quando si commuove, due
veloci grosse lacrime gli rotolano giù per le rughe oblique agli angoli degli
occhi. Corrono via e scompaiono: il vecchio Cide è già tornato padrone di sé.
Ora parlano del progetto d’una grande adunanza dei “papà Cervi d’Europa”, dei
familiari dei caduti e eroi di tutti i Paesi invasi dai nazisti.
S’è messo a piovere sui prati, sulla vigna, sugli alveari. Nelle stanze intorno
s’ode un correre di passi, le donne si affrettano a metter dentro roba, e
s’affannano nella cucina a preparare i grandi piatti d’agnolotti. Sotto il
portico una grande tavola accoglie i padri, i decorati, gli amici. Il vecchio
Cervi siede a capotavola tra l’avvocato calabrese e il ferroviere piemontese, e
parla di sementi e di raccolti. Dalla cucina le donne vanno e vengono coi
piatti: Margherita vedova d’Antenore, Jolanda vedova di Agostino. Tutt’a un
tratto saltano fuori i ragazzetti di Agostino e di Gelindo, con le magliette
rosse, tutti in gruppo, vengono a capotavola, gridano: “Viva le medaglie
d’oro!” e corrono via ridendo.
Così, senza rulli di tamburo, senza salve di cannone, gli uomini che
rappresentano il valore e il sacrificio della nuova Italia continuano a tenersi
uniti, a vigilare, a operare per il bene.
(Pubblicato
sul giornale L’Unità del 27 maggio 1954)