SUL DESTINO DI BREVITÀ

Benedetta Centovalli

 

“C’è chi dice che il racconto sia una delle forme letterarie più difficili, e io mi sono sempre chiesta il perché di questa convinzione”, così Flannery O’Connor, una maestra assoluta nell’arte del racconto, “uno dei modi più spontanei e fondamentali dell’espressione umana” (Nel territorio del diavolo. Sul mistero di scrivere, minimun fax, 2003). “Il racconto è un modo per dire qualcosa che non può esser detto in nessun altro modo; per trasmetterne il significato, ogni singola parola è indispensabile.” Flannery O’Connor sostiene che un racconto ben orchestrato mostra qualcosa, non neparla, e questo consente livelli diversi di interpretazione e la possibilità di “espandersi in ogni direzione” e sfuggire in questa maniera al proprio destinodi brevità. Perciò se un racconto funziona è sempre possibile trovarci dentro qualcos’altro, nello scrivere appunto due più due fa più di quattro.
In un intervento del 1982 Raymond Carver (Niente trucchi da quattro soldi. Consigli per scrivere onestamente, minimum fax, 2002), un altro gigante della narrativa breve e uno dei punti di riferimento anche nella nuova narrativa degli anni Ottanta in Italia, afferma di sentirsi parte di una tradizione forte del racconto. Nella storia della letteratura tanti scrittori non hanno mai scritto un romanzo, Cechov ad esempio prediligeva lo stile breve, “gli piacevano gli inizi e i finali”, e per il resto “s’annoiava facilmente”.
“Non è che scrivere racconti deve necessariamente rappresentare una specie di gradino per poi passare a scrivere romanzi"” continua Carver, e la pensava allo stesso modo anche uno scrittore come Romano Bilenchi che ha pubblicato alcuni dei più bei racconti del nostro Novecento, dichiarando di essere entrato nella forma breve istintivamente e che si è narratori sia scrivendo romanzi che racconti. “nella struttura di un racconto l’importante sono l’inizio , interno e se possibile repentino, e la fine, sempre improvvisa, repentina e interna”, spiega Bilenchi, perché la narrazione breve promette di scegliere e isolare quei particolari momenti in cui la vita “comincia a pulsare in un fiore, una persona, una situazione”, ascoltare e restituire questi battiti, questo pulsare della vita. Bilenchi sa bene che non è la lunghezza, il numero delle pagine a fare romanzo, ma il ritmo della prosa, la sua durata, il respiro, l’estensione della voce, l’orchestrazione della storia. E Carver annota che scrivere un racconto è più vicino allo scrivere una poesia di quanto non lo sia a comporre un romanzo. Elsa Morante definisce il romanzo come “opera poetica, nella quale l’autore dà intera una propria immagine dell’universo reale (e cioè dell’uomo, nella sua realtà)”. È proprio questa interezza che distingue il romanzo della storia breve: “il racconto, difatti, rappresenta un momento di realtà, mentre il romanzo rappresenta una realtà”. Integrità di visione che ritroviamo quando una raccolta di storie viene disposta per rappresentare un insieme omogeneo come se fosse un romanzo. Tra gli esempi i trittico perfetto di Gli anni impossibili di Bilenchi (1984). Brevità come sintesi, come intuizione poetica, come pura differenza strutturale. Far risuonare nella narrazione breve la corda del destino, dice Enzo Siciliano nel suo saggio introduttivo a Racconti italiani del Novecento (3 voll., I Meridiani, Mondadori, 2001), romanzo o racconto come “porzione esemplare, intensificata, di una durata” (G. Debenedetti), flusso dell’esistenza e divenire di una coscienza, la prosa del racconto come la prosa del mondo.
Palestra o vocazione a senso unico, laboratorio o possibile strumento, il racconto italiano ha avuto nel corso del secolo passato una straordinaria vitalità che ha spesso messo in ombra, anche per il suo cospicuo aspetto quantitativo, la produzione romanzesca. Vitalità che si è mantenuta dagli anni Ottanta in avanti, sia con alcuni autori – Parise e i suoi Sillabari (1972-1982), romanzi-bonsai e racconti in miniatura, o le più recenti raccolte di giovani scrittori come Aldo Nove, Tiziano Scarpa, Niccolò Ammanniti o Giulio Mozzi che hanno rinnovato la fiducia mai venuta meno della forma breve aprendo anche alle nuove generazioni di lettori – oppure nella formula rivisitata dell’antologia, inchiesta letteraria per gli Under 25 di Tondelli o manifesto per Gioventù cannibale. A segnalare comunque un’attenzione importante e continua – che mi pare trovi ulteriori e significative conferme – per questi piccoli modelli di architettura parziale del mondo in grado di reinventare le schegge di un presente complesso e insieme a verificare la trasformazione di quella percezione diffusa e distorta di un genere cenerentola nella narrativa: specie nobile solo per i letterati, bastarda per chi cerchi un intrattenimento in apparenza facile e duraturo. Liberati dalle inutili definizioni che imprigionano dentro i recinti dei generi letterari, romanzo o racconto non sono destinati a divenire forme espressive peculiari di un’epoca, ma semmai di un autore, e il loro indice di modernità è quello relativo di chi li pratica, così come “il gusto di inventare la storia inesauribile della vita è una disposizione umana naturale, comune a tutte le epoche e a tutti i paesi” (Elsa Morante).


(Tratto dal supplemento culturale Stilos di 17 Giugno 2003)

 

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