POETI A RISCHIO
Juan Gelman
Sento che quello di oggi
è soprattutto un riconoscimento alla poesia che nasce dalle viscere di codesta
lingua e da questa regione, un riconoscimento a coloro che – famosi o sconosciuti
– insistono nell’anelito di dare parola al centro delle loro ossessioni,
nonostante sappiano che non esiste un centro e tutto è intemperie. Lo ricevo in
nome loro e lo dedico a coloro che sarebbero potuti essere qui ed al mio posto.
Questi poeti non sono stati e non sono pochi. La poesia latinoamericana cresce
e si rinnova, la sua salute non corre rischi. A rischio sono i poeti. Grandi
poeti sono stati assassinati dalle dittature che hanno devastato il Centro e il
Sud della nostra America. Il motivo di questo è chiaro: la poesia è resistenza
contro la degradazione dell’essere umano e la sua esistenza attenta contro
l’autoritarismo e le logiche violente del potere. La poesia parla all’essere
umano non come essere realizzato, bensì come possibilità di essere. Tocca e
risveglia ciò che dorme in ognuno di noi, ci apre terre che ignoravamo di avere
e che per questo non avevamo. Le inonda spinta da una fame feroce ed
inspiegabile in perpetuo movimento. Vale a dire, ha fiducia negli infiniti
possibili ed avvicina mondi più belli e più giusti. Per Percy Shelley, che
forse questo mare e questo Golfo “scintillante” hanno voluto per sempre per se,
“i poeti sono i legislatori non riconosciuti del mondo”. Ma nessuno sa cosa è
la poesia. Si parla di essa con approssimazione o immagine. Per qualcuno è
l’ombra della memoria. Per altri, un modo di costringere Dio a parlare. La
poesia è linguaggio incenerito. La poesia è un albero senza foglie che dà
ombre. La poesia è parola nella quale ancora crepitano le ceneri di ciò che non
è riuscito ad avere un nome. Come un bambino, la poesia cerca di nominare ciò
che non può. Dopo tanti milioni di parole, la parola continua ad essere tempo
che nasce e disnasce per rinascere. La poesia svela la realtà velandola. Crea
un vincolo talmente forte tra l’immaginazione e l’esperienza che inventa
un’altra memoria, nella quale il sogno della realtà si rifà come sogno della
scrittura. È memoria di ciò che non è ancora avvenuto e forse l’espressione più
ardente del desiderio. Ogni poema è un’avventura erotica che muore in esso, si
risveglia nel successivo e non si estingue il desiderio di raggiungere il suo
obiettivo, questo sconosciuto, un buco che palpita come un’ombra senza corpo,
come quella impronta nell’anima di cui parla Plotino che nessuna materia ha
modellato, come un’assenza che non cessa di scriversi. René Char riteneva che
“il poema è l’amore realizzato del desiderio che rimane desiderio”.
Questa è una sete che non si spegne mai. La poesia è consolazione. Nessuna
catastrofe, naturale o provocata dall’uomo, ha mai potuto spezzare il filo
della poesia, che nasce dei limiti della parola per cancellarli dal volto del
sangue. Le guerre si ripetono incessantemente in qualche angolo del pianeta ed
avviene quel genocidio più lento di quello dei forni crematori, ma non meno
brutale, che si chiama fame. Patiamo in realtà un tempo anteriore, anteriore al
sogno possibile, all’umanità possibile, al suo fulgore possibile. Tuttavia, la
poesia permane.
Nel nostro continente, devastato dalle dittature militari, la poesia ha dovuto
attraversare un orrore che nessuna parola riesce ad esprimere. Non ne è uscita
indenne ma si è arricchita. Perché la poesia è un movimento verso l’Altro e
cerca l’odore della gente come una speranza. La poesia è carica di vita. Un
poema senza occhi non può attraversare la strada. Forse ciò che il poeta cerca
durante tutta la sua vita è scrivere un poema, soltanto uno, che sia figlio
della magia. Allora il poeta non sarebbe un piccolo Dio – come voleva il grande
poeta cileno Vicente Huidobro –, bensì un semplice ricercatore della magia che
trova incidentalmente, un inseguitore inseguito da una nota che sa che non
esiste. Come il poeta della tradizione araba che un demone monta di notte per
costringerlo a cercare nella lingua ciò che la lingua nega. La poesia ripete la
cerimonia della prima parola, quella che ferisce il bimbo dall’esterno. Nella
sua stessa culla nasce il dolore originale. Per questo la parola del poema va
verso la nascita, verso il prima di tutto, verso prima del Potere. È la parola
più vicina al silenzio del mondo. L’usignolo di Teofilo canta in questa parola,
che è la materia più pura del dolore. Il lavoro della poesia è dare forma al
vuoto affinché questo sia possibile. La poesia è patria degli specchi neri e
guarda il cardellino che prende il volo dagli occhi di un bambino perché lui
l’ha voluto vedere.
(Traduzione di Aloixa Azkona)
(Discorso
pronunciato da Juan Gelman a Lerici il 27 settembre scorso in occasione del
Premio Lerici Pea)