IL PERCHÉ E IL PERCIÒ
Gianni Bonina
Nel 1862 Hans Christian
Andersen si trova a Barcellona e assiste all’alluvione della Rambla causata da
un torrente. Non pensa a quello che vede ma a quanto vorrebbe vedere, cioè “a
quale racconto potrebbe venir fuori dall’azione di un piccolo torrente di
montagna, normalmente entro i limiti di un modesto fiumiciattolo”. Tempo dopo
Jakobson chiarisce quanto è successo ad Andersen con un esperimento in una
classe di bambini cui chiede di reagire alla parola “capanna”: c’è chi dice che
di legno e chi dice che brucia. Da questo esperimento Jakobson e Barthes
traggono elementi per distinguere il saggio dal romanzo, la metafora dalla
metonimia: la prima figura risponde alla domanda “cosa significa”; la seconda
alla domanda “che succede dopo”. Se diciamo capanna e pensiamo al legno siamo
nel campo della metafora, quindi del saggio, rimanendo nello stesso rapporto
semantico; se invece pensiamo a un incendio ci troviamo nel campo della
metonimia, cioè, del racconto: immaginiamo quanto avviene dopo, spostandoci in
un’area semantica contigua. Andersen è un narratore ed è quindi naturale che
pensi, di fronte a una alluvione, al “perciò”. Uno scienziato si preoccuperebbe
del “perché”.
Seguiamo cosa fa la metonimia. Molti anni dopo Calvino definisce la
“molteplicità del possibile”: un autore avanza nella scrittura allontanando da
sé il maggior numero delle storie possibili in modo da isolarne una soltanto.
Che sarà quella più realistica (la capanna brucia) o quella meno realistica (la
capanna scompare) in forza dalla sua immaginazione. Che è dunque, per dirla con
Wilde, figlia della realtà entrata in rotta con la madre. Questo stesso
procedimento, la “molteplicità del possibile”, lo ritroviamo dal lato del
lettore. Ce lo dice Eco: quando il lettore comincia a leggere un romanzo non sa
se la storia è vera o no e quanto possa esserlo; lo scopre man mano che procede
nella lettura, riducendo perciò la molteplicità del possibile. La realtà in cui
viviamo è però molteplice, nel senso che noi viviamo le nostre vicende una dopo
l’altra come fanno i personaggi dei romanzi. ha dunque ragione Steiner quando
dice che ogni forma d’arte (metonimia) è un atto critico (metafora)? La
risposta ci viene dal primo romanzo moderno: Don Chisciotte diventa personaggio
immaginario perché scopre di essere protagonista di una storia che gli viene
narrata. Si crede vero ma poi si scopre inventato. E cosa fa dopo ogni
sconfitta? Legge romanzi.
(Tratto
dall’inserto letterario Stilos, Catania, Gennaio 2003)