CZESLAW MILOSZ, POETA
DELL’INATTUALITÀ
(Szetejne
1911 – Cracovia 2004)
Giuseppe Montesano
Sperando nel Caso
rivelatore e illuminante in cui credevano gli Antichi, apro di colpo le pagine
della mia copia ormai semiconsunta delle Poesie di Czeslaw Milosz, e
il libro si schiude su Caduta, una poesia del 1975, che nella versione
di Pietro Marcehsani recita: “La morte di un uomo è come la caduta d’uno stato
potenti, / che possedeva eserciti prodi, capi e profeti, / e ricchi porti, e
bastimenti su tutti i mari, / e ora a nessuno correrà in aiuto, con nessuno
stringerà alleanza, / perché le sue città sono vuote, la popolazione dispersa,
/ il cardo ha ricoperto la sua terra un tempo doviziosa di messi, / la sua
missione dimenticata, perduta la lingua, / dialetto di un paesello lontano su
inaccessibili monti”. Ed è subito la sua voce, il tono inconfondibile del
Milosz poeta, qual salmodiare asciutto sul filo del canto ma come incidendo con
uno stilo acuminato su una tavoletta o su una pietra. Il “dialetto di un
paesello lontano” fu il polacco, la lingua in cui al contrario di Nabokov o di
Brodskij che in esilio abbandonarono il russo, continuò a scrivere i suoi libri
pur vivendo esiliato a Parigi per dieci anni e poi negli Stati Uniti dal 1961 e
fino alla morte.
Cos’era esattamente
Czeslaw Milosz, un saggista, un acuto politologo, un poeta? Nel 1953 uscì La
mente prigioniera, un saggio capitale sulla capacità del totalitarismo
sovietico di occupare la mente devastandola con l’uso di una perpetua
falsificazione dei concetti, nel 1959 Milosz pubblicò La mia Europa,
un racconto-saggio bellissimo dove biografia e saggistica politica, memoria du
temps perdu e arte del ritratto si univano in una sorta di libro totale in
cui il ricordare diventava una sorta di filo di Arianna intellettuale per
scoprire la storia nascosta sotto la Storia; nel 1980, l’anno del premio Nobel,
usciva La terra di Ulro, una enigmatica discesa nelle correnti
sotterranee della cultura europea da Swedenborg a Blake a Dostoevskij alla Weil
e fino al misterioso Oscar Vladislas de Lubicz-Milosz, poeta lituano-polacco ma
in lingua francese tradotto anche da Montale, esoterico esageta dell’Apocalisse
e per di più zio di Czeslaw. Dove si trovava il vero Milosz, in quale forma di
scrittura e di avventura intellettuale? Con una sorprendente capacità di
restare fedele a se stesso nel cambiamento, Milosz era perfettamente
consapevole di questo suo spirito salamandrino difficilmente catalogabile, e
trent’anni dopo aver pubblicato La mente prigioniera scrisse una
prefazione: “Il mio libro spiacque praticamente a tutti. Gli ammiratori del
comunismo sovietico lo giudicavano insultante, mentre gli anticomunisti
sostenevano che mancava di una posizione politica chiaramente definita e
sospettavano l’autore di essere ancora, in fondo al cuore, un marxista”. In
realtà Milosz aveva tracciato con La mente prigioniera un disegno del
totalitarismo straordinariamente anti-ideologico, provando a scavare dentro la
“mente prigioniera” con una sensibilità sottilissima per i dettagli concreti, e
era riuscito a creare uno strumento conoscitivo che non smette di essere
attuale: non è forse ancora oggi il “desiderio di sicurezza” a spingere verso
un nuovo totalitarismo mediatizzato la mente occidentale? Milosz era riuscito a
scavare dentro la rete intricata della menzogna che si compiace di sé senza mai
cedere alla tentazione dell’astrazione o a quella della risposta risolutiva: si
era mosso nella foresta totalitaria disincantata e arsa dell’inquinamento
ideologico con le armi di un poeta, e il suo sismografo corporale non si era
ingannato sulle trappole mentali della propria epoca.
Negli anni seguenti Milosz continuò a aggirarsi in quella waste land
che con una espressione presa a William Blake aveva chiamato La terra di
Ulro, il luogo dove “l’uomo mutilato” della modernità si limita a
sopravvivere, e arrivò a una sorta di pessimismo sul presente quasi senza vie
di uscita. Contro l’idea scientifica di un mondo disumanizzato perché
misurabile e razionalizzabile fin dentro i campi di concentramento, nella Terra
di Ulro Milosz cercò di costruire una mappa per evadere dalla modernità,
una apologia dell’inattualità, una genealogia per dissidenti assoluti:
muovendosi tra Dostoevskij demonologo della società di massa e Blake profeta
dell’Immaginazione contro la schiavitù dell’industria. Milosz provò
disperatamente a contrapporre alle lacerazioni e all’anomia provocate dalla cieca
tracotanza della tecnica, una dimensione totalmente altra dell’esistenza: la
capacità immaginativa, l’arte di vedere il mondo secondo una prospettiva
creaturale, uno sguardo capace di ridare significato a una vita spezzata
dall’alienazione. Ma questa operazione quasi alchemica di ritrovamento
dell’essenza vitale diventata filosofia era destinata al fallimento: solo
attraverso la poesia, solo in quel territorio sospeso dove vigono le leggi
dell’immaginazione, era possibile il suo sogno di risalire la corrente, di
arrivare in un luogo dove le cose potessero essere nominate con il loro nome
proprio. Ma per quali vie? Nei versi di Ars poetica Milosz parlò
dell’ispirazione con una sorta di splendido ossimoro che affermava negando:
“Nell’essenza stessa della poesia c’è qualcosa di indecente: / sorge da noi
qualcosa che non sapevamo ci fosse, / sbattiamo quindi gli occhi come se fosse
balzata fuori una tigre, ferma nella luce, sferzando la coda sui fianchi.
Perciò giustamente si dice che la poesia è dettata da un daimon, /benché sia
esagerato sostenere che debba trattarsi di un angelo...”, e mescolando ironia e
metafisica concludeva quasi con rassegnazione: “è lecito scrivere versi di rado
e controvoglia, /B spinti da una costrizione insopportabile e solo con la
speranza / che spiriti buoni, non maligni, facciano di noi il loro strumento”.
Ma proprio attraverso questo tono “basso” e “colloquiale”, appare improvvisa in
Milosz la visitazione demoniaca, la rivelazione di un’altra possibilità:
“Quando c’è la luna e le donne in abiti a fiori passeggiano / provo stupore per
i loro occhi, le loro ciglia e tutta l’organizzazione del mondo. / Mi sembra
che da una propensione reciproca così grande / potrebbe finalmente risultare la
verità ultima”. Ma la verità ultima è sfuggente, e soprattutto è mascherata
dalla metamorfosi della realtà, ed è per questo che nessuna poesia che cerchi
di afferrarne anche solo un brandello può essere definitiva: “Ricomincio
continuamente da capo, perché ciò che dispongo in racconto / si rivela una
finzione, comprensibile per gli altri, non per me, / e il desiderio di verità
mi rende disonesto”.
Il pericolo che si nasconde nella poesia è la finzione, l’abbellimento
estetizzante delle cose, la perdita del contorno reale del mondo in cambio
della sua ombra menzognera: “Cos’è la poesia che non salva i popoli né le
persone? / Una complicità di menzogne ufficiali, una cantilena di ubriachi a
cui fra un attimo verrà tagliata la gola, / una lettura per signorinette”. La
poesia forza con Milosz la cittadella della ragione pura e la mette a soqquadro
con la sorpresa, ma nello stesso tempo non rinuncia nemmeno a una briciola del
suo potere conoscitivo: ma come potrebbe farlo rinunciando all’elemento
visionario? È questo il gesto da classico della modernità che Milosz ha
attuato, e contro la modernità. Attraverso tutte le forme e gli stili della
poesia contemporanea, Milosz ha contrabbandato qualcosa che doveva essere
irriducibilmente diverso da esse, ma che in realtà si è espresso proprio nelle
ferite e nelle lacerazioni del contemporaneo. In una poesia del 1945 sulle
macerie di Varsavia, aveva scritto di non voler cantare per i morti, di non
voler sottostare al ricatto nichilistico della distruzione: “Sono forse venuto
al mondo / per diventare una prefica? / Io voglio cantare i festini, / i
boschetti gioiosi dove mi conduceva Shakespeare. Lasciate / ai poeti un istante
di gioia / o perirà il vostro mondo”.
Nel cuore stesso della mitologia di morte del secolo breve la grandezza di
Milosz è stata nel suo non cedere al ricatto del lamento, nel suo scavare senza
illusioni sorgenti nel mezzo stesso delle macerie, in quella ostinazione a
conservare e a dire il bene anche quando tutto sembra sommerso dall’orrore e
dal brutto, semplicemente “perché nell’infelicità accorre una qualche armonia e
bellezza”. Ma la sua non fu la bellezza degli estetismi a un tanto al chilo, e
fino all’ultimo lo accompagnò il dubbio che scrivere fosse ancora un esercitare
potere, una forma dell’avidità e della sopraffazione. Fu per questo che la
poesia, come aveva chiesto, lo visitò a volte sotto le sembianze di un demone
benigno, come quel Dono che dà il titolo a una sua poesia: “Un giorno così
felice. / La nebbia si alzò presto, lavoravo in giardino. / Non c’erano cose
sulla terra che desiderasse avere. / Non conoscevo nessuno che valesse la pena
d’invidiare. / Il male accadutomi, l’avevo dimenticato / Non mi vergognavo al
pensiero di essere stato chi sono. / Nessun dolore nel mio corpo. /
Raddrizzandomi, vedevo il mare azzurro e vele”. Non c’era più di questi attimi
di salvezza che la poesia potesse concedere a lui che la scriveva e a noi che
la leggiamo: appena un filo di voce, sull'orlo del precipizio, per chiamare
finalmente le cose con il loro vero nome.
(Tratto
da L’Unità del 15 agosto 2004)