LANZICHENECCHI

 

Libero De Libero

 

Prima che in paese entrassero gli invasori, eravamo scappati anche noi insieme a tutti gli altri. Tullia aveva capito che più della fretta la paura m'aveva costretto a non permetterle di racimolare nemmeno un po' di cibo e di biancheria e perciò, mentre correndo io le stringevo fortemente il braccio, lei si scalmanava per liberarsi dalla mia stretta e mi rinfacciava con irosa petulanza: “Per la tua paura mi hai fatto scappare senza portare niente. Lasciami. Io non ho paura come te...”. Non volevo aver paura e non volevo sentirmi dire vigliacco in quel momento, avrei voluto anche picchiare Tullia, se per picchiarla non avessi dovuto fare una sosta che ritenevo pericolosa, e continuavo a stringerle il braccio con una crudeltà che lentamente la convinse a correre insieme a me, in silenzio. Mi sentivo addosso il suo sguardo doloroso e cattivo; e, quando mi parve di essere in luogo sicuro, mi fermai presso un albero. Allora Tullia andò a sedersi a qualche metro da me e, rimboccatasi una manica della giacca, rimase a guardarsi lungamente il braccio: doveva esserci rimasto il segno delle mie unghie, e a me faceva piacere d'averla punita in quel modo. Poi ci rimettemmo in cammino, e stavolta lei mi seguiva a distanza; con brevi colpi di tosse voleva farsi ricordare da me che, senza sigarette, mi struggevo di non poter fumare. Il suo silenzio durò molte ore; anche quando un pastore c'invitò a mangiare con lui e io mi sedetti sulla soglia della capanna con un piatto sulle ginocchia, lei rimase di spalle tutto il tempo con le mani aggrappate a un muricciolo.
Verso sera ci trovammo soli in un bosco che spoglio e stecchito non poteva nasconderci se non dentro la buca di un grosso tronco; e veniva il fiato gelido delle montagne nevose, e le prime pattuglie battevano la campagna, qualche raffica di mitra si perdeva qua e là. Fu allora che Tullia cominciò a lagnarsi per il freddo e la fame, e non tardò ad indispettirmi col suo rimpiangere una certa scatola rimasta in un certo tiretto nella quale conservava, insieme a una somma di denaro, alcuni oggetti d'oro; e voleva convincermi che si poteva benissimo, profittando delle imminenti tenebre, raggiungere la nostra casa situata proprio all'ingresso del paese e rientrarvi dalla parte dell'orto che sconfinava nei campi.
Il mio silenzio non impediva alla sua voce monotona in cui serpeggiava più il dispetto che il rancore, di perseguitarmi in quel modo antipatico; continui brividi e fitte nervose mi facevano piegare la schiena mentre la sua spalla si appoggiava alla mia che un poco tremava. Durò sino a notte quello stillicidio di parole e di sospiri poi la mia voglia di fumare l'ebbe vinta su ogni altra incertezza e uscii dal rifugio; lei mi segui, insieme riprendemmo per scorciatoie la via del ritorno, i nostri passi non mandavano nemmeno un fruscio, dovunque si sarebbe cercato invano uno spiraglio di luce. Mi infastidiva il suo braccio che si intrecciava al mio; non so se la paura possa inaridire il cuore e la bocca e bruciare la fronte nel modo che accadeva a me durante quel tragitto attraverso i campi, silenziosi
come una stanza vuota e remota, sino alla porticina di servizio, dove per altra porta si passava nell'androne del pianterreno.
Tullia, che mi precedeva di qualche passo, invano fece scattare l'interruttore della luce; accesi un cerino e immediatamente apparvero i primi segni di quanto era avvenuto nella nostra assenza: la grande specchiera serbava qualche scheggia aguzza agli angoli e sul pavimento ne luccicavano i frantumi, mancavano le tende alle finestre e i mobili; esalava intorno un acre afrore di orina. Uno dopo l'altro, i cerini accesi illuminarono il pavimento sudicio, una spazzola, una cravatta, una pantofolina di Tullia, le candele rosse del pianoforte calpestate, ma ancora servibili, e con la luce di esse ebbe inizio la nostra ricognizione tremolante. S'inciampava dovunque in qualche oggetto intatto o rotto, cartacce, cocci, e non c'era più un mobile né una tenda nelle stanze, scomparse perfino le scaffalature della libreria, in cucina giacevano a terra pezzi di carbone, alcune bottiglie con residui di vino, una pozza lucente di olio; per la scala che conduceva al primo piano un uguale sudiciume e inciampo di cose, le stanze ugualmente vuote, il bagno nauseante non ci permise che una rapida occhiata.
Silenziosi, a lenti passi, le nostre ombre ci contraffacevano ogni gesto sopravanzandoci smisurate sulle pareti; Tullia volgeva intorno lo sguardo, striminzita si chinava a fissare qualche oggetto rimasto in terra, io la seguivo imitando le movenze e gli sguardi come un pietoso servitore, frenando a stento il mio battere di denti. Non ricordo se per ore o minuti noi girovagammo da sonnambuli per quelle nostre squallide stanze, non ricordo se da ore o minuti noi rimanemmo su un gradino della scala.
A un tratto ci riscosse lo stridere violento del portone frammisto a un vociare straniero. Spenti i mozziconi delle candele, d'un balzo ci rintanammo in soffitta, dove la fuga della larga scalinata ci rimaneva visibile attraverso una finestretta a occhio di bue; balenarono subito sulla parete dirimpetto due grandi ombre, i primi passi tonfarono lenti e pesanti. Finalmente due uomini apparvero, ciascuno reggendo una candela accesa, di quelle per gli altari, che con la fiammella esitante faceva più terribili i loro volti, l'aspetto cencioso: il biondo atletico e imberbe, corpulento e basso quello barbuto, col mitra imbracciato avanzavano circospetti. Ero io che battevo i denti, non Tullia che mi stava accanto, e il suo braccio mi pareva di marmo come la mia schiena, stentavo a respirare per non tossire. Ma quei due, arrivati sull'ultimo gradino della rampa, sostarono immobili: il biondo borbottò qualcosa, il più basso scandì furente una sua parola per noi astrusa e il biondo scoppiò in un tuono di risa che allargò di più il vuoto della casa, con la candela sempre stretta in pugno somigliava a un fantasma. Allora l'altro scagliò la sua candela contro una porta gridando ancora quella sua parola e poiché il compagno continuava a sganasciarsi appoggiato alla parete con tutta la persona che appariva gigantesca, indietreggiò sul pianerottolo e col suo mitra tra le braccia gli spruzzò addosso una gragnuola focosa di colpi che non fu diversa anch'essa da una risata conclusiva. Nel buio frizzò subito un sentore di bruciaticcio. Anche Tullia tremava.


(Tratto da La voce della resistenza, a cura del Comitato nazionale dell’Ampi – Roma, 1981)

 

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