NOZZE CAMPESTRI
Giovanni Comisso
Nella casa dello sposo
tutti erano tranquilli e il giorno dopo vi sarebbe stata una cena di settanta
persone.
Il giorno dopo vi sarebbero state le nozze di Olivo ed egli se ne stava sereno
con suo fratello ad innestare i gelsi. Questa calma nelle donne di casa
dipendeva dall’abitudine ad essere sempre a tavola in parecchie diecine di
persone e difatti il tagliere con la polenta appeso accanto al focolare colla
sua grandezza, che era metà della porta d'ingresso, testimoniava il grande
numero dei partecipanti abituali.
Verso sera lo sposo andò alla casa della sua ragazza, anche questa una grande
casa per una ventina di persone e anche qui dove si sarebbe svolto il pranzo,
una grande calma. I fratelli di lei spazzavano il cortile e mettevano in ordine
i carri per fare il più sgombero possibile, le sorelle con la madre aiutavano
la cuoca a sventrare i polli. Ognuno faceva quello che doveva fare e nessuno
dava ordini. Il padre della sposa era alto, asciutto, chiaro d'occhi, acuti,
centrati come quelli d'un cacciatore, e aveva un baffo su e un altro giù. La
sposa era appena tornata dalla chiesa dove era andata a confessarsi e sorrise
con grazia al suo Olivo. Presero gli ultimi accordi per il giorno dopo e si
lasciarono; il padre avvertì che tra poco sarebbe andato a suonare le campane
per annunciare le nozze di domani e salutò con gesto lento della mano.
La grande casa della
sposa era in mezzo ad una larga cerchia di colli, biancheggiava nella sera tra
il verde novello dei prati e degli alberi, sullo sperone del colle più grande
vi era il villaggio con la chiesa e il vecchio castello distrutto dalla guerra
con sola in piedi la grande torre medioevale. Era un posto incantevole, il
paesaggio lontano del Piave e del Grappa agli ultimi raggi del sole incantava
di bellezza, la casa dello sposo era invece sul piano e di lassù si scorgeva
benissimo, egli era salito dal piano, verso questi colli e questi boschi per
cercarsi la sua donna come guidato da un fiuto animale e da un inavvertito
gusto per la bellezza della terra che genera sempre esseri conformi. Di rítomo
alla sua casa intese dai colli il suono delle campane scendere allegro nel buio
della notte e tutti si fecero nel cortile per ascoltare sino alla fine.
Alle prime luci dell'alba la casa fu tutta un rumore di passi per le scale e
per i corridoi: donne, uomini, bambini, tutti si erano alzati per liquidare le
faccende di casa e prepararsi per tempo. Lo sposo aveva da farsi la barba, da
indossare il vestito nuovo, da farsi il nodo della cravatta e come furono
pronti s'incammínarono verso i colli tutti in fila per due e lo sposo col
compare in testa. Arrivati lassù trovarono il padre della sposa che tornava dai
campi e subito disse che in pochi minuti sarebbe stato pronto, perché aveva
finito allora di lavorare tra il paltano ed aprire la strada ad una quantità
d'acqua che si era accumulata tra i solchi per la grande pioggia della notte.
La sposa, nella sua stanza con le sorelle, terminava di vestirsi e lo sposo
sali di sopra per darle il buon giomo. Ai nuovi arrivati venne subito servito
il vino delle colline e salame e pane fresco appena uscito dal forno. Attorno
al fuoco la cuoca sempre calmissima assestava i polli in una vasta cazzaruola e
disponeva varie pentole sul fuoco. Discese la sposa col velo bianco che le
sorelle non terminarono di disporre sul suo capo e sulle sue spalle, poi arrivò
anche il padre fresco ed elegante che non sembrava più quello visto poco prima
arruffato e sporco di paltano e tuttavia i suoi baffi rimanevano uno su e uno
giù. E andarono alla chiesa che già suonavano le campane. Il rito fu rapido e
sostenuto con disinvoltura; questi contadini partecipi di famiglie tanto
numerose, ànno così forte il senso di costituire essi stessi un'entità
considerevole che quando ànno da compiere una formalità con lo Stato o con la
Chiesa si sentono quasi da pari a pari e non ànno ombra di timidezza.
Usciti dalla chiesa gli sposi dovettero farsi vedere dal paese e lo
attraversarono presi per braccio seguiti da tutti gli altri. Intanto in attesa
del pranzo si fece una tappa in un'osteria dove uomini e donne si misero a
giuocare alle carte e a bere. La comitiva prese ad affiatarsi e cominciarono ad
irrompere le prime risate. Poi ritornarono alla casa per il pranzo. Una grande
tavola era imbandita e una più piccola era preparata in disparte per le vecchie
e per i ragazzi. Quando fecero per sedersi, la madre della sposa si allontanò e
non si fece più vedere, ella avrebbe mangiato da sola in un'altra stanza. Così
ella manifestava il suo dolore per l'imminente partenza della figlia. Non vi
era stata ombra di dolore tra madre e figlia prima che questa andasse alla
chiesa, né al ritorno; ogni gesto spontaneo di commozione era stato represso,
abolito, e prendeva invece questa manifestazione formale di escludersi dalla
comunità festeggiante. Il capo di casa rimase in piedi in mezzo alla grande
cucina per assicurarsi che tutto si svolgesse regolarmente, che ognuno trovasse
il suo posto e che le ragazze che dovevano servire in tavola incominciassero
bene, e solo quando vide che tutti si erano messi a mangiare la minestra si
sedette e prese il suo cucchiaio ansioso di sentire come era il riso, un
battito delle palpebre sui suoi occhi chiari segnalò la perfezione.
Gli sposi stavano uno di fronte all'altro, il compare serviva la sposa e uno
zio di questa serviva lo sposo. Da prima vi furono alcuni minuti di silenzio,
tutti presi dal buon appetito, ma terminata la minestra cominciò il compare a
scuotere la comitiva con battute allegre e coi primi evviva gli sposi, al padrone
di casa e alla cuoca. Era questo compare un vecchio compagno d'infanzia dello
sposo e compagno pure d'armi nello stesso reggimento, aveva una testa rotonda,
nero d'occhi e di capelli, tesa la pelle e aveva il dono di dire le cose da
ridere rimanendo sempre impassibile in un'espressione ingenua e attonita.
Vennero serviti il manzo a lesso, il vitello arrosto, i polli in forno; gli
innumerevoli pani che costellavano la tovaglia si dileguarono e le bottiglie di
vino furono tutto un continuo arrivare piene e ripartire vuote.
Il capo di casa era un vero capo, non perdeva d'occhio niente.
Ad un certo momento al colmo del pranzo si accorse che il vento minacciava di
far volare via gli ombrelli lasciati di fuori dagli ospiti e ordinò al figlio
più giovane di portarli dentro. Ogni tanto si alzava e passava nella stanza
dove la cuoca tagliava polli o vitello e si voleva assicurare che tutto fosse
servito con abbondanza. La cuoca era stata impareggiabile e gli ospiti di
distinzione per età e per esperienza ne fecero gli elogi: "Una vera cuoca
si rivela con questi piatti semplici, non si tratta tanto di fare pasticci e
cose elaborate, ma di dosare bene il sale e di tenersi sul punto giusto di
cottura". E un altro diceva:"Il pollo si scioglieva in bocca". E
un altro: "La cuoca ci à trattato tutti da gente senza denti: tutto si
scioglieva in bocca". E il capo di casa teneva lo sguardo abbassato per
non far vedere la sua soddisfazione.
Eccitati dal compare i convitati, un po' alla volta si ravvivarono con
storielle da ridere e con canzoni piene di argute e amorose allusioni.
Becco con becco
collo con collo;
chi à mangiato l'anitra?
Questa era una di quelle canzoni, stupidissima a prenderla alla lettera, ma
piena di significato colmando il limite delle parole.
Cosa à mangiato la sposa la prima sera?
Un gallo cantatole,
quattro foglie d'insalata
e mezzo pitto, sì.
Quest'altra canzone proseguì con un crescendo incredibile fino alla centesima
sera ed oltre, arricchita dalla fantasia dei cantori. Durante questi canti la
sposa teneva lo sguardo abbassato e sorrideva lievemente, ma ad un certo
momento il compare si accorse della nonna della sposa che stava alla tavola dei
ragazzi, una vecchia ottantenne, ventitré volte bisnonna, e che non sapeva
neanche lei quanti nipoti avesse, ella era venuta per le nozze a piedi sotto la
pioggia da un paese lontano, scintillante negli occhi neri tra le rughe e un
rosso vivo alle guance, ma le mancavano molti denti: "Cosa dite nonna, di
questa festa; vi ricordate di quel giorno che vi siete sposata?". La
vecchia rispose che non si ricordava più, e l'altro insistette: "Ma non vi
ricordate che a forza di baci il vostro uomo vi à portato via tutti i
denti". Tutti si diedero a ridere con fragore. La vecchia si difendeva
come una giovanetta: "Pensate a voi, che non vi cresca qualcosa sulla
testa, matto che siete! ". E il compare con il suo volto immutabile:
"Giusto, è quello che desidero, così mi prendo un poco di riposo". E
tutti risero ancora. Il pranzo era finito, ma il compare vedendo la cameriera
da vicino le chiese se vi era ancora qualcosa, perché si sentiva morire dalla
fame; e quella passata nella stanza dove stava la cuoca ritornò portandogli un
piatto dove adorne di fiorellini celesti vi erano disposte le zampe di tutti i
polli mangiati. Egli non fece un solo cenno di stupore, prese una zampa e
cominciò a mordicchiarla, poi un'altra, poi un'altra ancora fra il ridere e il
battere delle mani di tutti. Mise il piatto da parte, dicendo che le avrebbe
finite dopo il caffè, la bottiglia di vino davanti a lui era vuota: "Oh,
padrone" disse "si son dunque vuotate le vostre bottí? ". La
cameriera corse nella stanza e ritornò con un enorme bottiglione pieno d'acqua.
Questa volta non rimase impassibile, si alzò di scatto e andò a sedersi ad un
altro posto dove vi era una bottiglia con ancora un po' di vino e se ne versò
nel bicchiere, tra l'ondeggiare dei convitati presi dal ridere come da un vento
folle.
Alla tavola delle vecchie e dei bambini sembrava che alle prime si allungassero
e mento e naso verso la tavola che era stata così magica nel fare scaturire
tutto quel cibo, agli altri invece sembrava che le guance si fossero gonfiate
come avessero succhiato ad una mammella inesauribile. E questi tenevano ancora
alla bocca un pezzo di pane che mordicchiavano lenti come fosse fatto di pasta
zuccherata. Alla nonna luccicarono i neri occhi di avidità quando venne
annunciato che il caffè era pronto, e i bambini diedero acute strilla di gioia.
Un'altra vecchia parlava della sua vita e dei suoi figli; ne aveva una diecina
e neanche uno a casa, tutti erano sparsi per l'Italia e tutti lavoravano da
galantuomini; doveva essere stata assai bella da giovane e ad uno che le aveva
chiesto dei suoi amori: "Lo vede quell'ometto là, brutto come un rospo
seduto vicino alla sposa, quello è il mio uomo, ne avevo uno più bello di lui
che voleva sposarmi, ma lui, quel mostro, à saputo farmi perdere la testa, e à
vinto lui, non mi lasciava mai in pace, cosa aveva? Furbo è stato, e io una
stupida!". La nonna intervenne: "Sempre così noi donne, dobbiamo fare
quello che vogliono gli uomini, io mi sono sposata a quindici anni, ò avuto
otto figli e il mio uomo se ne andò con Dio che io avevo quarantacinque anni,
ma non mi sono risposata, eh! no, ò voluto rimanere sola, ò il mio orto, le mie
galline". E tacque, perché le era stata messa davanti la tazza di caffè e
vi protese subito le labbra.
Dovevano essere oramai quattro ore che erano a tavola, attraverso le finestre
il Piave lontano biancheggiava nelle sue ghiaie tra il verde primaverile dei
campi e i monti si facevano azzurri come acque profonde. Il capo di casa ad un
tratto fece un semplice gesto colla testa ad uno dei suoi figli, quello che
doveva rimanere a casa di turno per sorvegliare la stalla e questi scomparve
per riapparire poco dopo vestito da lavoro; suo padre lo vide e approvò collo
sguardo. Era un vero comandante; sono veri comandanti questi capi di casa che
ànno sotto di loro figli e nipoti a diecine, e abitano in sì grandi case e ànno
questa terra generosa di vini e di biade da tramutare in giardini di bellezza
in armonia col paesaggio vario di colli e di acque. Si alzò; era soddisfatto,
questa prima figlia si era sposata, presto si sarebbe sposata la seconda, il
pranzo era andato ottimamente, la cuoca, fatta venire da fuori, si era
comportata egregiamente, tutti erano stati allegri e per di più v'era stata la
pioggia che avrebbe favorito la nascita del granturco. Si alzò; e disse che ora
si poteva andare. Era anche venuta fuori dalla sua stanza la madre della sposa,
ma non si era seduta a tavola, era rimasta accanto al focolare. La sposa salì
nella sua stanza, diede in fretta un addio a quella stanza dove aveva dormito
da bambina, diede un rapido addio alla sua casa, strinse la mano a sua madre,
tutti facevano un tumulto di canti, non si baciarono, per la timidezza di far
vedere l'emozione davanti agli altri, si parlarono a fondo cogli occhi. Il capo
di casa sollecitava di partire come temesse di commuoversi più delle donne e
tutti uscirono ancora in corteo, un corteo serpeggiante, perché molti si
reggevano male sulle gambe. E facendo sosta ad ogni osteria che incontravano
s'avvicinarono, che già annottava, alla casa dello sposo.
Queste soste sembravano fatte perché la sposa non sentisse bruscamente che si
allontanava dalla sua casa e difatti quando giunsero ad un paese dal quale
oramai non si scorgeva più la vecchia torre del castello distrutto, come se
ella avesse ora sentito veramente che era partita, si trasse in disparte e
nascondendosi gli occhi con una mano prese a piangere silenziosamente, lo sposo
le si fece subito vicino e le parlò sommessamente, ed ella pareva ascoltasse
solo il suono della sua voce. Suo padre girava attorno e tentava di rialzarsi
il baffo spiovente, girava a grandi passi e non si sapeva se guardasse il tempo
che si faceva minaccioso o la figlia piangente, poi d'un tratto suonò la sua
voce invitando tutti ad uscire e a proseguire verso casa se non volevano
prendere la pioggia.
La grande casa di Olivo si alzava sulla pianura che è limitata a mezzogiorno dal
Piave, e il Montello traccia lontano nel cielo il suo dolce arco.
È una casa dalle mura solidissime, sulle quali è arduo poter impiantare un
chiodo. Vi arrivarono che era già notte e le donne di casa appena intesero
avvicinarsi i canti che accompagnavano gli sposi accesero una luminara di
canne, imbevute di petrolio, legate al cancello e infisse davanti per terra.
Gli sposi entrarono illuminati da queste luci ondeggianti al vento. Entrò la
sposa nella sua nuova casa; l'attendeva sulla porta la madre di Olivo che le
disse la frase tradizionale: "Ti accetto come figlia",, ed ella
rispose: "Vi accetto come madre", tra il chiasso dei convitati che
fatti forti dal molto bere e dal molto mangiare, erano subito pronti a sedersi
a tavola e riprendere. Le donne di casa avevano addobbato la vasta cucina con
festoni di frondi novelle, e la grande tavola per gli innumerevoli ospiti
andava dalla porta fino al focolare dove il cuoco con lento gesto rimestava la
minestra. Presero posto, che presto sarebbe stato servito; e venne la minestra
dal denso brodo e l'avevano appena gustata che uno accennò un evviva al cuoco,
ma il padre della sposa che stava all'erta - disse tra i denti: "Troppo
presto". Nella loro timidezza i contadini conoscono profondamente l'arte
degli attacchi allusivi. E sono tremendi, tremende sono le loro stoccate,
queste stoccate velate, come morsi di vipere nascoste. Acuminate,
taglientissime stoccate che colpiscono al cuore e annientano. Il padre della
sposa, dopo il banchetto a casa sua, riuscito ottimamente, temeva essere
superato da questo nella casa dello sposo, e stava pronto a smascherare le
manchevolezze, i difetti, pronto a rivelarli non con chiare parole, ma con
frasi girate. Il vino qui era di pianura e non poteva naturalmente competere
con quello di casa sua, vino di colle. Ad un certo momento egli disse
accennando alle bottiglie ancora quasi piene: "Qui cala meno". Poi
quando col lesso vennero servite le patate, disse rivolto a Celestino, il suo
futuro genero: "Mettiti in tasca un po' di queste patate che se le semini
nascono". E voleva alludere al poco condimento che avevano. L'arrosto
venne accompagnato dall'insalata e allora tra un boccone e l'altro disse:
"L'insalata si mangia tutti i giorni, ma dicono che faccia bene". E
al manzo lesso che non si scioglieva in bocca come quello di casa sua, disse:
"Mi sento vecchio, i miei denti fanno fatica". Ma tutti mangiarono
ugualmente con vorace appetito e con assordante allegria. Il compare come a
mezzogiorno era tutto un continuo masticare e quando terminò il susseguirsi
delle vivande arroste o lessate, coi suoi occhi attoniti si rivolse alla
ragazza che serviva gridando ad imitazione di uno arrabbiato per la fame, che
voleva una zuppiera di fagioli. "Pronto", disse la ragazza, e trovata
la minestra di fagioli avanzata dal giorno prima gliene portò una zuppiera ed
egli con tutta tranquillità si diede a trangugiarla. Poi chiese: "Non ci
sarebbe qualcosa di più solido da mettere sotto i denti?". E la ragazza
subito gli portò un grande osso di manzo tra un ciuffo di radicchio ed egli
come un cane famelico, si avventò a roderlo, trattenendolo con ambe le mani.
Risorgevano intanto i canti da un capo all'altro della tavola inducendo al
sonno il padre della sposa, ma uno zio dello sposo, un vecchietto che abitava
nel bosco, un uomo di selva, mezzo satiro, travolto dal molto bere, del quale
prima nessuno s'era accorto prese ad imporsi nei brevi momenti di silenzio
imitando il canto della quaglia. Poi uno dei convitati, Egisto, quasi un
colosso, venne al centro della tavola dove stavano gli sposi e disse:
"Adesso mangerò quello che più mi piace". Tutti furono attratti a
guardare. Gli venne offerto un tegame nero di fuliggine e una fetta di polenta
fredda, tingeva la polenta di fuliggine e poi mangiava con l'espressione più
felice possibile. Diceva: 'Questa è roba buona". Vicino a lui era
Celestino, già storno, e lo indusse ad assaggiare, poi si rivolse al compare
che colla sua abituale tranquillità accolse l'invito e garantì subito collo
sguardo che era eccellente. Uno di casa portò uno zoccolo di legno sporco di
letame, dentro vi versò il vino e lo diede ad Egisto perché bevesse. Ed Egisto
colla sua faccia beata disse che era eccellente; anche il compare fece
altrettanto e anche Celestino fu costretto da Egisto e si adattò con
un'espressione da ragazzo non convinto, ma che segue l'esempio d'uno più grande
di lui, una faccia da debole dubbioso, in attesa d'una soddisfazione che altri
ànno assicurata, provando per primi. Ma d'un tratto il suo futuro suocero scosso
dall'assopimento e accortosi che tracannava il vino nello zoccolo immondo, col
cipiglio da comandante gli urlò: "Celestino, no, questo, no. Ti scaccio,
ti scarto, non ti voglio nella mia famiglia se fai di queste cose". E
Celestino si dileguò rapido. Tutti ridevano e battevano le mani a questi
stomachi di ferro.
Due suonatori arrivati allora varcarono la porta attaccando un ballabile e
quelli che si sentivano forza di ballare non si fecero attendere. Ballarono i
giovani, e i bambini mezzi inebriati anche loro si presero per mano per fare un
girotondo. Il vecchio del bosco saltellava da solo e ripeteva il canto della
quaglia, fìno a quando cadde per terra e allora lo portarono a dormire nella
stalla vicino ai buoi.
La notte era già tarda; gli sposi avevan fatto un ballo, ma si mostravano
riservati come per non sciuparsi invano, oramai era giunto il momento che se ne
andassero nella loro stanza. La sposa fece il giro dei convitati offrendo i
confetti. Poi Olivo la prese per mano e approfittando della disattenzione di
tutti, stanchi, assonnati storni o impegnati nel ballo, accompagnati fino alla
porta dal compare salirono le scale per ritrarsi al loro amore.
Giù non erano rimasti che i giovani a ballare nel semibuio della grande cucina
con le lampade che già stavano per consumarsi. A notte alta ancora si ballava,
e le ragazze di tanto in tanto strillavano. Vi erano soste al ballo e allora si
sentivano cantare; vi furono lunghi momenti senza alcun rumore e sembrava che
tutti se ne fossero andati o fossero caduti nel sonno, ma d'improvviso
riprendeva il chiasso, poi nella grande casa fu silenzio del tutto, fino alle
prime luci dell'alba, quando allo svegliarsi nel buio della stalla si svegliò
anche il vecchio del bosco, s'intese salire la scala di legno, ripetendo il
canto della quaglia e, trovata la porta della stanza degli sposi, prese a
bussare perché gli aprissero, e goloso e arguto chiamava il nipote perché
voleva sapere come si era comportato.
Giovanni
Comisso (Treviso 1895-1969), poeta, romanziere, saggista, dopo aver partecipato
alla prima guerra mondiale viaggiò moltissimo come giornalista, senza mai
trascurare il suo podere nella campagna veneta. Tra le sue opere ricordiamo Gente di mare (Premio Bagutta
1929), Un gatto attraversa la strada (Premio Strega '55), e Capricci
italiani (Premio Viareggio '52).
Questo racconto è tratto da La terra e i contadini pubblicato
nel 1993.