COME I TORTURATORI GIUSTIFICANO LA
TORTURA?
Leandro Konder
Esiste qualche situazione
che giustifichi la tortura? L'argomento più conosciuto tra quelli usati da chi
si impegna a giustificare la tortura è quello della consapevolezza della
necessità della tortura per ottenere informazioni che permetteranno di salvare
vite innocenti.
Tutte le volte che se ne discute, questo argomento riappare. La polizia arresta
un terrorista la cui organizzazione ha collocato bombe ad alto potere esplosivo
in diversi punti di una grande città. La polizia è a conoscenza che lui sa dove
sono le bombe e deve localizzarle e disattivarle in tempo.
Oppure: la polizia arresta in flagrante un terrorista che sta collocando
esplosivo in una grande nave piena di famiglie di turisti con molti bambini e
sa che ha installato altre bombe in altri punti, per farle esplodere durante il
viaggio.
Molte altre varianti sono possibili. E la conclusione è sempre la stessa: ci
sono situazioni nelle quali la tortura è necessaria, quindi lecita.
Una prima osservazione che si può fare è che questo quadro estremo, di una
situazione limite, praticamente non si presenta mai nella dura attività delle
forze dell'ordine. Il tentativo di ottenere informazioni attraverso la tortura,
di solito avviene in condizioni più banali, meno impressionanti.
Nel contesto di una
guerra, come si vede nell'invasione dell'Iraq, i prigionieri sono torturati per
offrire al servizio d'intelligence dell'occupante (il compianto Alvaro Moreyra
aveva detto: "negli Stati Uniti l'intelligenza è un servizio") dati
riguardanti piani, zone e localizzazione delle truppe. Oppure sono torturati da
soldati e ufficiali che tentano così di esorcizzare la paura avuta, e che
tuttora hanno. Oppure, ancora, sono torturati perché Rumsfeld vuole sapere
dov'è Osama Bin Laden.
Nel contesto del nostro quotidiano brasiliano, le vittime della tortura di
solito sono, statisticamente, emarginati, poveri, ladri (per scoprire dov'è il
bottino), trafficanti, sequestratori (per sapere dove sono le vittime del
sequestro e per identificare eventuali complici), ecc.
La condanna della tortura, il fatto di considerarla crimine infame, non implica
nessuna solidarietà con il delinquente, che deve essere punito secondo la
legge. Quello che si vuole è tutelare la cittadinanza.
Nonostante venga praticata in tutto il mondo (più spesso di quanto si crede),
la tortura ormai è bollata ovunque come abominio. Ciò risulta molto positivo
per la coscienza democratica.
Dobbiamo fare attenzione alle speculazioni che ci allontanano dai problemi che
si presentano quotidianamente.
Quelli che mostrano situazioni eccezionalissime, qualunque siano le loro
intenzioni, corrono il rischio di attenuare la gravità delle pratiche comuni
della tortura.
Oltre all'argomento della tortura posta al servizio della salvezza di numerosi
innocenti, nasce a volte un altro argomento che giustifica il ricorso a tutte
le forme di violenza umana, a patto che impiegate contro i cosiddetti
"mostri morali".
Il "mostro morale" si pone lui stesso fuori dall'umanità. Non merita
nessuna considerazione umanitaria. Se l'autorità costituita ha bisogno di
strappargli qualche informazione, non c'è nessuna ragione per esitare
nell'impiego della tortura.
Il torturatore, però, deve essere ben preparato tecnicamente. Deve saper dosare
il dolore dell'altro. La sua efficienza dipende da un lungo e complesso
addestramento, di una adeguata preparazione scientifica.
Un torturatore "professionista" - qualunque sia la qualifica del suo
impiego - ha bisogno di conoscenze altamente specializzate.
Quando si imbatte in un "mostro morale", durante il suo lavoro il
torturatore dispone del potere di distruggerlo. Ma la vittoria che può
raggiungere è, di fatto, una vittoria di Pirro: non vale niente. Egli può
distruggere l'altro, ma si sarà trasformato lui stesso in un "mostro
morale".
Nella realtà, preparandosi ad esercitare la sua abominevole funzione, il
torturatore non sta combattendo la mostruosità: sta aderendo alla legione dei
"mostri morali".
Leandro Konder, filosofo e sociologo brasiliano,
insegna Teoria Politica all'Istituto Bennett di Rio de Janeiro.
(Estratto del Jornal
do Brasil, edizione di Rio de Janeiro, 15 maggio 2004. Tradotto da Julio
Monteiro Martins insieme ai suoi allievi del 3° anno di Lingue dell'Università
di Pisa)