LO SO, MA NON SI DOVREBBE
Marina Colasanti
Lo so che ci si abitua.
Ma non si dovrebbe.
Ci si abitua a vivere in appartamenti bui che non hanno altra vista se non le
finestre attorno. E poiché non hanno vista, ci si abitua subito a non guardare
più fuori. E poiché non si guarda fuori, ci si abitua subito a non aprire
completamente le tende. E poiché non si aprono le tende, ci si abitua subito ad
accendere prima la luce. E man mano che ci si abitua, si dimentica il sole, si
dimentica l'aria, si dimentica la vastità.
Ci si abitua a svegliarsi la mattina di soprassalto perché è già ora.
A fare colazione correndo perché siamo in ritardo. A leggere il giornale
sull'autobus perché non possiamo sprecare il tempo del viaggio. A mangiare
panini perché è già sera. A dormicchiare in autobus perché siamo stanchi. Ad
andare a letto presto e dormire pesantemente senza aver vissuto il giorno. Ci
si abitua ad aprire la finestra e a leggere della guerra. E accettando la
guerra, accettiamo i morti e che ci siano cifre di morti. E accettando le
cifre, accettiamo di non credere ai negoziati di pace. E non accettando i
negoziati di pace, accettare di dover leggere tutti i giorni di guerra e delle
cifre che si protraggono per molto tempo. Ci si abitua ad aspettare tutto il
giorno per poi sentirsi dire al telefono: oggi non posso venire. A sorridere
alle persone senza ricevere un sorriso di contraccambio. Ad essere ignorati
quando avevamo tanto bisogno di essere visti. Ci si abitua a pagare per tutto
ciò che si desidera o di cui si ha bisogno. E a lottare per guadagnare il
denaro con cui si paga. E a guadagnare meno di quello di cui abbiamo bisogno. E
a fare file per pagare. E a pagare più di quanto le cose valgano. E a sapere
che si pagherà sempre di più. E a lavorare di più, per guadagnare più denaro,
per avere di che pagare nelle file dove si deve pagare.
Ci si abitua a camminare per strada e vedere cartelloni, ad aprire le riviste e
vedere annunci pubblicitari. Ad accendere la televisione e assistere a spot
commerciali. Ad andare al cinema e ingoiare altra pubblicità. Ad essere
istigato, condotto, disorientato, lanciato nell'infinita cascata dei prodotti.
Ci si abitua all'inquinamento. Al tremolio della luce artificiale. Allo choque
che gli occhi subiscono con la luce naturale. Alla sciocchezza delle
canzonette, ai batteri nell'acqua potabile. Alla contaminazione dell'acqua del
mare. Alla lotta. Alla lenta morte dei fiumi. E ci si abitua a non sentire più
i passerotti, a non cogliere la frutta dall'albero, a non avere nemmeno una
piantina.
Ci si abitua a troppe cose per non soffrire. A piccole dosi, cercando di non
sentire, allontaniamo un dolore qui, un risentimento lì, una rivolta là. Se il
cinema è pieno, ci sediamo in prima fila e torciamo un po' il collo. Se la
spiaggia è contaminata, ci si bagna solo i piedi e il resto del corpo suda. Se
il lavoro è duro, ci si consola pensando al fine settimana. E se nel fine
settimana non c'è molto da fare, andremo a dormire presto e pure soddisfatti
perché abbiamo del sonno arretrato. Ci si abitua a non graffiarsi nelle
asperità per preservare la pelle.
Ci si abitua ad evitare ferite, dissanguamenti, a schivare il coltello e la
baionetta per risparmiarsi il petto.
Ci si abitua a risparmiare la vita.
Che a poco a poco si consuma, e che da tanto abituarsi, si perde da se stessa.
Marina Colasanti è nata ad Asmara, in Etiopia, ha
vissuto 11 anni in Italia e poi si è trasferita in Brasile. Ha pubblicato vari
libri di racconti, "crônica", poesie e favole per bambini. Ha
ricevuto il Premio Jabuti per Eu sei, mas não devia e per Rota de Colisão. Tra
le altre cose ha scritto E por falar de amor; Contos de amor rasgados; Aqui
entre nós; Intimidade Pública;Eu Sozinha; Zooilógico; A morada do Ser; A nova
Mulher; Mulher daqui pra Frente e O leopardo é um animal delicato. Scrive anche
per riviste femminili ed è invitata frequentemente a tenere corsi e conferenze
in tutto il Brasile. E' sposata con lo scrittore e poeta Alfonso Romano de
Sant'Anna.
Il testo presentato sopra è stato estratto dal libro "Eu sei, mas não
devia", Casa Editrice Rocco- Rio di Janeiro, 1996, pag. 09.
(Traduzione di Julio Monteiro Martins insieme
a Mirella Abriani e ai suoi allievi dell'Università di Pisa Alessandra
Pescaglini, Gabriele Cerini, Lorenzo Tamburini e Marco Merlini)