UN DIAFRAMMA DI INDICIBILITÀ
- Katia Sebastiani intervista per Sagarana il poeta Paolo Maccari -

 

Paolo Maccari è nato a Colle di Val d'Elsa (Siena) nel 1975. Risiede da tempo a Firenze, presso la cui Università, dopo essersi laureato in Lettere con Luigi Baldacci, svolge il dottorato di ricerca in Italianistica. Il suo volume di versi Ospiti (Manni, Lecce, 2000) ha vinto l'edizione 2001 del premio "Bagutta opera prima" e del Premio "Città di Pisa". È presente nelle antologie Nodo sottile 2 (Fiesole, Cadmo, 2001) e Nodo sottile 3 (Milano, Crocetti, 2002). Ha curato il carteggio tra Romano Bilenchi e Paolo Cesarini È bene scrivere poco (Fiesole, Cadmo, 2003) ed è autore di una monografia su Bartolo Cattafi, Spalle al muro (Firenze, Società Editrice Fiorentina, 2003). Collabora con poesie e pezzi critici a varie riviste tra cui "L'Indice dei Libri".

Nella tua vita quotidiana, che spazio occupa la poesia?

Occupa uno spazio piuttosto discreto, e comunque intermittente. Non ho un'idea particolare in merito all'annosa questione dell'esistenza o meno dell'ispirazione: come è noto, c'è chi è pervenuto a livelli sommi d'espressività assecondando un impulso improvviso e irrefrenabile e chi ha ottenuto risultati assoluti attraverso una sistematica e leggermente impiegatizia pianificazione della sua opera. E non sono mancate tutte le gradazioni intermedie tra i due modelli. Io mi sento più vicino, per consuetudine, al primo, il che tuttavia non implica nessun giudizio sulla validità del secondo. Sento la necessità, anche infantilmente scaramantica, di scrivere soltanto per necessità. In caso contrario, quando ho provato a scrivere in maniera volontaristica, non ne ho ricavato che insoddisfazione e, per così dire, disapprovazione di me stesso.
Uno spazio assai maggiore e pacifico occupa, nelle mie giornate, la poesia degli altri: un po' per gli studi che svolgo, un po' per semplice passione leggo moltissimi versi e opere di critica letteraria.


Ci puoi dire come ha visto la luce la tua prima opera, "Ospiti" edita da Manni nel 2000?

La sezione eponima del libro, quella su cui gli amici e i recensori hanno nella maggior parte dei casi insistito con più benevolenza, nasce dalla mia esperienza di obiettore di coscienza presso un ricovero per anziani. Si tratta di una struttura dove vengono accolti soltanto "ospiti" (appunto) non auto-sufficienti, per cui l'ambiente ha qualcosa d'infernale e insieme di sublime. È lo spettacolo della vita ridotta alla sua più elementare e dolorosa dimensione biologica. In qualche modo, gli stessi pensieri, le stesse riflessioni di quelle persone sono brandelli che trovano la luce, la parola, senza nessuna mediazione o filtro censorio: una sorta di biologia mentale. È un luogo di verità, atroce e quasi intollerabile, ma pur sempre verità. Per me è stata una scoperta decisiva, che ho vissuto con grandissimo coinvolgimento emotivo. Ho conosciuto e amato persone disfatte, su cui la vita aveva infierito senza pietà e senza remissione: eppure non disgregate: unità umane nonostante la perdita di ogni facoltà fisica e spesso mentale. Mi hanno sconvolto e commosso l'orgoglio di chi muore in completa, sdegnosa solitudine, tutto assorto a sentirsi morire, e la disperata stretta di chi si aggrappa agli altri, con incrollabile trasporto, per restare; ma in quell'ambiente così vicino, così intriso di morte, permane costante la voluttà di vivere, di saggiare come tesori le briciole di vita rimaste. Per me, ripeto, è stata una scoperta decisiva: ne ho tratto emozioni di completa partecipazione e identificazione; e sgomento, certo; e, paradossalmente, grande bellezza.
La prima sezione di "Ospiti", intitolata "Nel ventre", è composta di poesie più antiche, scritte tra i venti e i ventitré anni. A rileggerle oggi molte mi sembrano paurosamente goffe e ingenue, testimonianza soprattutto del mio apprendistato. Di altre sono invece ancora abbastanza convinto e credo che abbiano risentito, nella lettura di tanti, della loro posizione defilata rispetto al nucleo principale rappresentato da "Ospiti" (mi riferisco alla sezione).

Tu insegni ai bambini delle scuole elementari, e questo, trasposto in poesia, farebbe pensare a semplicità di espressione e allegria di contenuto. I tuoi testi invece appaiono sapientemente architettati e tutt'altro che allegri. Si può parlare di una sorta di scissione fra il poeta e l'uomo Maccari?

Premetto che, ormai da un anno e mezzo non insegno più alle scuole elementari, essendo impegnato in un dottorato di ricerca presso l'Università di Firenze. In ogni caso, non credo che si possa parlare di una scissione tra il poeta e l'uomo: direi piuttosto che l'uomo cerca una sua espressione e una sua maturazione nelle varie attività che svolge, sia quella di insegnante sia quella di poeta. Aggiungo che nell'insegnamento ai bambini - non sono certo il primo a dirlo - temo di avere molto più appreso che insegnato. O quantomeno ricevuto assai più di quanto sono riuscito a dare. Per quanto riguarda la poesia "semplice", nell'accezione corrente che si dà a questa definizione, confesso che non l'amo affatto. Ci può essere poesia comunicativa, transitiva, non sollecitata a livello intellettualistico: ma la sua semplicità, se di poesia vera si tratta, è solo apparente: diciamo allora che esiste una poesia stratificata, di cui può essere fruita - e delibata - anche solo la superficie: io credo che questa vada proposta ai bambini, magari tornandoci in diverse stagioni per saggiarne ogni volta uno "strato" più profondo. Ma la produzione per l'infanzia spesso si limita ad accondiscendere al gusto degli adulti, persuadendoli che la poesia giusta per i bambini deve essere un miscuglio raffazzonato di pedagogia, vacua precettistica, insulsa cantabilità. Mentre io sono convinto che da subito i bambini abbiano la capacità - e il diritto - di avvicinarsi a belle parole, fortemente significanti, e a bei suoni. Non vedo perché procrastinare l'educazione alla bellezza anteponendole per comodità dosi massicce di inutile e mediocre propedeutica alla poesia. Una propedeutica che spesso ottiene l'effetto contrario, quello di confondere la banalità messa in filastrocca con una delle espressioni più alte, credo, che l'uomo ha a sua disposizione.


Parliamo delle parole. Come ti comporti nei loro confronti?

Con molto rispetto, direi, e con altrettanta diffidenza. Siccome la poesia ha l'esigenza di piegarle a un uso improprio, di chiedere loro non soltanto di comunicare ma anche di esprimere; di significare, inoltre, e insieme di suonare, ovviamente si va per approssimazione: tra l'idea originaria e informe di una poesia e la sua realizzazione (stavo per dire incarnazione) si frappone sempre - almeno per me - un diaframma di indicibilità, di resa sommaria, che incita alla limatura e alla ricerca del termine appropriato (che forse esiste e non aspetta che la nominazione, ma il cui profilo resta terribilmente scivoloso e sfocato).


Nella prima parte della raccolta c'è un testo, "L'avvento dell'aria", che parla del suicidio. Ci puoi dire come è nata questa poesia?

È nata dalla vista, o meglio dal ricordo della vista, di un ponte altissimo (credo uno dei più alti d'Italia) nei pressi di Petriolo (una località termale). Negli anni è stato teatro di moltissimi suicidi. Un giorno mi è capitato di passeggiare nei boschi sottostanti e di vederlo dunque dal basso. Mi ha impressionato la lunghezza, la durata del salto. Come una sbornia d'aria, di batticuore, prima di farne definitivamente a meno. E poi il passaggio indifferente delle macchine. Ho avuto una specie di vertigine originata dalla sensazione fisica del salto e dall'indifferenza di tutte quelle macchine che, in ogni caso, continuavano a sfrecciare sul ponte. M'è sembrato di intravedere tra i due elementi un nesso comune. La lunga caduta, il volo, e la prosecuzione della vita, ferocemente capace di non fermarsi e non riconoscersi. Naturalmente il nesso, quasi metafisico, è la solitudine. Quella in cui si vive e quella in cui, e talvolta per cui, si muore.

Veniamo al futuro: quali sono i progetti del poeta Paolo Maccari?

Vorrei pubblicare, il prossimo anno, una raccolta di poesie e di prose. Ho molti testi pronti, ma non tutti mi convincono: quindi sto operando una revisione e una selezione. Si tratterebbe (se riesco a decidermi e a pubblicarlo) di un libro abbastanza coeso e armonizzato su pochi temi ricorrenti. Mi piacerebbe inserirci anche qualche traduzione-rifacimento di poesie straniere. Al momento, comunque, non sono sicuro di niente.

L'avvento dell'aria

Aprirsi d'aria nel volo a precipizio
è il profitto d'alcuni suicidi
e il loro ultimo violento ammonimento.
Nella discesa, che deve sapere di fuga
e di stasi tanto è il rapimento e il riscatto,
l'uomo o la donna oppure
il giovane morbido senza disperazione
patiranno l'ultimo passo
restituendo ad un movimento la sua atroce
scoscesa e la sua strana libertà.
Pensare che per morire
hanno deciso di volare
mi commuove m'impaurisce.
C'è dietro l'insolenza dei debiti
oppure l'oblio delle leggi di gravità
e della gravità delle pene per i trasgressori.
A volte si parla dall'alto,
chini sullo spazio
e sul tempo che ci separa dal solitario,
si parla di forti passioni
o di nervi sfilacciati e persi.
Tutte savie savie argomentazioni
ma il nome del male è il peso
che frana nell'aria un silenzio
del cielo l'aria che seduce
e non imbriglia che
si lascia avere senza amore.
Nell'avvento dell'aria
che affonda in ogni pertugio,
o terrorizzato che ti figuri il lancio,
puoi scorgerti e cercarti -
sei una delle magre nuvole
nel sole e sogguardi
nell'autunno sei la pioggerellina
insistente che scende e
non cancella le stimmate.
Le anime
non hanno volato si son rifugiate
nelle gole aspettando
lo scirocco dappertutto,
rannicchiate nella urgenza
di arrestarsi in una visione.
I corpi, poi, quasi sempre
sono disfatti.
Se ne vedono
le parti buie il tanto sangue.


Se i morti erano vivi
e poi morti sopra dei ponti
le macchine continuano a sfrecciare,
solo di tanto in tanto
formando delle code.

 (da "Nel ventre", parte prima di "Ospiti", edizioni Manni 2000)

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