AVVENTURA DI UN LADRO
Massimo
Bontempelli
A Gianni il ladro, nella
notte piena di nuvole, bastò la luce di poche stelle per scendere dall’abbaino
dentro una casa e farvi un bottino di prim’ordine. Ora ne usciva con la sacca
piena e l’animo contento. Alzò un attimo gli occhi al cielo che si stava
sgombrando, poi guardò il tetto lentamente in giro. Tutto il mondo era in
silenzio e vuoto: non c’era nel mondo che lui Gianni su quel tetto vicino al
cielo.
Non c’era più d’aver paura. Fermata bene la sacca sulle spalle, si mise a
sedere sopra le tegole, e appoggiato un braccio alla parete dell’abbaino si
concesse qualche minuto di riposo. Nessuno dei suoi compagni aveva mai fatto un
bottino tanto importante. L’abbaino sorgeva al mezzo del vasto pendio di tegole
che sale dall’orlo dei tetti alla cresta. Lui dall’abbaino volgendosi in su
vedeva quella linea lunga del vertice tagliare il cielo; guardando avanti e
intorno a sé, l’immensa distesa del pendio fino all’altro lato del palazzo,
rotta solo da un comignolo, in basso quasi addosso il cornicione. La vista
delle tegole lo riposava. Gianni sa camminare sui tetti come un gatto.
Pregustava la maraviglia dei suoi compagni (trine, seta, qualche argento) e
forse un elogio dal capo.
Il ladro Gianni senza orologio misurava il tempo a perfezione. Quando i cinque
minuti furono passati, staccò il braccio dalla parete, tentò, le cinghio della
sacca, appoggiò una mano a terra per darsi la spinta a mettersi in piedi. Ma
frattanto girò lo sguardo verso la cresta del tetto, e d’un tratto si sentì
gelare.
Da dietro quel vertice era spuntata una testa grossa e nera, due occhi lucidi
traverso l’ombra lo saettarono, poi di colpo un uomo fu in piedi al sommo del
tetto col braccio teso e la rivoltella puntata verso Gianni, e nel silenzio
sonò il comando: “Mani in alto!”. Il ladro Gianni alzò tremando le braccia. “E
fermo!” Aggiunse colui. Senza gridare, le sue parole ferivano l’aria e
arrivavano taglienti all’orecchio di Gianni che sentiva il cuore spezzarglisi
nel petto: aveva riconosciuto l’uomo, era uno dei poliziotti più abili e
implacabili della città.
I due si guardarono per forse dieci secondi. Lo sbirro guardava Gianni negli
occhi. Gianni guardava lui alle ginocchia, e le braccia ogni tanto stavano per
ricadergli giù ma lui con uno sforzo le rimetteva subito in alto.
Lo sbirro s’ergeva verso la parete estrema della cresta del tetto. Avanzò di
qualche passo. Il ladro ebbe modo di accorgersi che il piede dell’altro non
padroneggiava a fondo la tegola. Forse per questo, l’altro ora stava fermo;
s’era piantato su due piedi con le corte gambe un po’ aperte. E parlò a Gianni,
sempre con quella rivoltella spianata: “Attenzione a quello che dico: alzati,
vieni qua, mani in alto; al primo gesto che fai per abbassarle o per cambiare
direzione, sparo. Forza, don Gianni!”.
Mentre quello parlava, il ladro Gianni aveva infatti rapidamente esaminato la
possibilità di buttarsi a destra verso il cornicione, ma il colpo dell’arma lo
avrebbe raggiunto. Scomparire nell’abbaino era mettersi in trappola. Non poteva
che ubbidire.
Riuscì a levarsi in piedi senza servirsi delle braccia. Poi, ma lento, passo
passo cominciò a salire obliquamente in tetto in direzione dell’arma. Le mani
gli tremavano. “Più svelto” disse lo sbirro con un sogghigno “pesa tanto quella
sacca? Più svelto”.
“ Avanti, don Gianni, hai lavorato bene, è giusto che ti porti a dormire.
Altrimenti... Cristo!”.
Il cuore di Gianni balzò di sorpresa e di gioia, perché lo sbirro per un
piccolo moto inconsulto del piede aveva barcollato un attimo ed era precipitato
scivolando sulle tegole. Subito Gianni vide il grosso corpo rotolare giù per la
china del tetto, egli allora si mise a correre su verso la cime. L’altro s’era
smarrito, s’afferrò con la sinistra a una tegola ma questa si staccò di netto e
lui mandò un gemito sentendosi straziare le unghie alla radice, tentò invano
afferrarsi con l’altra che lasciò andare la rivoltella, rotolò ancora, batté la
testa contro il comignolo ma non si fermò; e il ladro Gianni raggiunta la cime
si voltò e vide lo sbirro arrivare all’orlo della discesa e il suo corpo
scomparire nel vuoto.
L’investì e lo invase una folgorante felicità. Fissò allucinato il punto laggiù
dove il corpo del nemico era scomparso.
E così guardando, s’avvide che non era scomparso del tutto: le due mani dello
sbirro erano rimaste afferrate all’orlo del cornicione e furiosamente si
sforzavano di tenervisi strette.
Gianni si sedette sulla cima del tetto a fissare quelle due mani grosse, sempre
più nere e convulse. Aspettava, prima d’andarsene, di vederle scomparire.
Quella sua felicità, che per un minuto aveva forse raggiunto il delirio, s’era
calmata. Ora il ladro Gianni era sicuro e tranquillo, stava seduto col busto e
il capo un poco protesi in avanti, come si sta a teatro nei momenti più ansiosi
del dramma. E si figurava il corpo pendente là sotto, il corpo del nemico che
tra poco precipiterà giù a sfracellarsi sul lastrico. Tese l’orecchio per
essere pronto a sentire il tonfo.
Una di quelle due mani non resse più allo sforzo e si staccò dal cornicione,
subito tutta la forza e lo spasimo dell’uomo si raccolsero per un momento
nell’altra, poi la prima tornò ad afferrarsi e l’altra si staccò e si agitava
nell’aria.
D’improvviso qualche cosa di ignoto brillò nell’animo del ladro Gianni, ed era
assai diverso dal delirio di quella prima felicità. Chiuse e strinse gli occhi
e subito li riaperse: di laggiù sentì un rantolo, e pareva venisse da quelle
mani. Il ladro Gianni non capiva più niente, ma senza capire, di colpo s’alzò,
in un lampo sfilò dalle spalle la sacca e la posò sulle tegole: un’altra volta
chiuse e riaperse per un attimo gli occhi, si passò una mano sulla fronte, e
senza sapere perché, senza sentire quello che stava facendo corse giù, fin là;
arrivato là si gettò ventre a terra, s’appese con una delle sue mani di ferro
allo spigolo del comignolo, si tesi in avanti, porse l’altra gridando:
“attaccati!” e abbrancò la mano dell’uomo che si dibatteva. La sentì stringere,
la tirò a sé con tutta la forza, come un pescatore tira la rete pesante; vide
venir su la testa e le spalle, tirò ancora; l’uomo aiutava il suo sforzo,
arrivò tutto. Gianni gli dette un ultimo strattone, poi aiutò l’uomo a porsi a
sedere sull’angolo del tetto.
Seguì un silenzio e la notte respirava intorno a loro. Lo sbirro fissava in giù
verso l’abisso ma certo non vedeva niente, il ladro Gianni gli guardava la
schiena ma non sapeva di guardarla. E aveva voglia di andarsene ormai, ma non
si muoveva, come se aspettasse qualche cosa , e non sapeva che cosa né perché.
Finalmente lo sbirro senza voltare la testa verso il compagno mormorò qualche
parola. Gianni non capì e domandò: “Come?”. L’altro ripeté, sempre a capo
chino: “Fa freddo”. Gianni si sentiva a disagio. L’altro si prese la testa tra
le mani e cominciò a singhiozzare piano.
Il ladro si cercò in tasca un fiammifero e una sigaretta, la accese e la porse
allo sbirro: “Prendi”. Lo sbirro si voltò e Gianni vide che aveva il volto
rigato di lagrime. Ripeté: “Prendi” e chinandosi gli pose la sigaretta tra le
labbra. La sigaretta tra le labbra dello sbirro tremava. Dopo un poco lo sbirro
balbettò: Grazie”; la sigaretta gli cadde di bocca, sull’orlo del cornicione.
Il ladro Gianni fu lesto a raccoglierla, scrollò le spalle, finì lui di fumarla.
Fatto questo, come l’altro s’era di nuovo girato di là con la faccia tra le
mani, Gianni si alzò in piedi, si voltò, senza più guardarlo risalì in cima,
dove aveva lasciato la sacca. Se la accomodò sulle spalle, scese piano l’altro
versante avviandosi verso un doccione dell’acqua per cui scivolando si scende a
terra. La luna era scomparsa e non c’era più una nuvola in cielo. Il ladro
Gianni pensò con orgoglio alla maraviglia dei compagni, all’elogio che forse il
capo gli farà per il bottino. Prima di lasciare il tetto e abbracciarsi al
doccione, guardò ancora una volta il cielo. Aveva cento volte lavorato di notte
ma non s’era mai accorto che ci fossero tante stelle.
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