IL NOSTRO RISCHIO QUOTIDIANO
Marco D'Eramo
Chi non ha pensato: tra
quei detriti, quelle macerie, lamiere deformate avrei potuto esserci io? Nel
registro macabro, le bombe di Madrid sono il primo evento che ha dato un
contenuto emozionale al concetto di Europa unita: quelle bombe è come fossero
esplose a Milano, Roma, Parigi: a casa.
L'identificazione con le possibili vittime era stata molto meno coinvolgente il
6 febbraio scorso, quando 39 persone erano morte e 134 ferite in un attentato
alla metropolitana di Mosca; né era scattata l'identificazione con i pure
giovani - e occidentali - 190 dilaniati dall'esplosione alla discoteca di Bali
(Indonesia) il 12 ottobre 2002. In precedenza, il 19 marzo 1995, l'attentato al
gas alla metropolitana di Tokyo, con i suoi 400 feriti e (per fortuna solo) 7
morti, ci aveva colpito certo, ma non aveva fatto scattare nessun meccanismo
d'immedesimazione. Persino l'11 settembre 2001 ci aveva identificati più con i
parenti delle 2.700 vittime che con le vittime stesse delle Twin Towers, più
con il lutto che con la morte: stava qui la differenza di percezione tra le due
sponde dell'Atlantico. (In questo senso, è vero che solo ora noi europei
possiamo davvero capire lo stato d'animo americano di allora). Ma una
differenza con l'11 settembre c'è: è andata persa l'unicità, l'irripetibilità,
quella stessa che il 2 agosto 1980 fece degli 85 morti e 200 feriti della
strage di Bologna un'eccezione abnorme.
La caratteristica nuova della strage di Madrid è proprio la certezza che eventi
simili si ripeteranno. Non solo ognuno di noi avrebbe potuto attraversare
quelle stazioni madrilene, ma la più verosimile prospettiva per il futuro è che
domani, o fra due anni, potremo camminare in altri simili atri, stazioni,
aeroporti, malls, in altri non-luoghi d'Europa e del mondo, dove un
contatto di detonatore ci farà diventare non-persone. Quelle bombe hanno
modificato la percezione del “terrorismo di massa”, rendendolo un elemento di rischio
del nostro vivere quotidiano: giustificata o meno, assistiamo a una
trasformazione del terrorismo da calamità a rischio statistico. La stessa
differenza che - pur nella stessa natura collettiva della morte - passa dal
terremoto all'incidente aereo, dall'eruzione vulcanica al disastro ferroviario.
La prospettiva
sociale
Il terrorismo e i suoi
effetti sono analizzati al peggio nella prospettiva militare (la "guerra
al terrorismo”), al meglio nella prospettiva politica (motivazioni, cause, come
evitarlo, come disinnescarlo), ma mai in quella sociale (quali trasformazioni
produce nella sfera pubblica, in quale struttura sociale s'inserisce). Certo,
ogni bomba ha la sua specifica “causa efficiente”, qui la guerriglia cecena, li
una setta giapponese, qui Al-Qaeda, lì i servizi deviati, ma gli attentati sono
diventati un fenomeno sociale, proprio nel senso in cui Emile Durkheim mostrò che
il suicidio è sì un atto individuale, personalissimo, intimo (ognuno pone fine
alla propria irripetibile esistenza per irripetibili ragioni), ma che esso è un
fenomeno sociale.
Se perciò vediamo il terrorismo di massa come un rischio ormai inerente al nostro
assetto planetario, come un elemento di sistema, possiamo considerarlo
nella prospettiva proposta nel 1986 da Ulrich Beck, quando scrisse Risikogesellschafl
(tard. it. La società del rischio. Verso una seconda modernità,
Carocci 2000), una prospettiva assai più fruttuosa se applicata al
rischio-terrorismo di quanto sia riuscito a tirarne fuori lo stesso Beck nel
suo smilzo e deludente Das Schweigen der Wórter. Uber Krieg und Terrorismus
(2002) - Il silenzio delle parole. Su guerra e terrorismo -, tradotto
in italiano da Einaudi (2003) come Un mondo a rischio.
La tesi di Ulrich Beck è che nei paesi ricchi la modernizzazione ha trasformato
il mondo, ma così facendo ha trasformato anche la modernizzazione stessa,
facendoci passare da una società di scarsità in cui il problema era la
distribuzione delle ricchezze, problema che determinava la struttura di classe
della società, a una società in cui il problema è la distribuzione dei rischi,
dove il “rischio - scrive Beck - può essere definito come un modo
sistematico di trattare le insicurezze e le casualità indotte e introdotte
dalla modernità stessa”.
I rischi che investono le società avanzate hanno parecchie caratteristiche,
dice Beck non rispettano alcuna frontiera, sono perciò intrinsecamente globali;
sono in genere impalpabili, invisibili; non sono valutabili dal sistema di
contabilità moderno: per dirla in soldoni, non sono assicurabili dai
Lloyds; sono sistemici, sono determinati cioè dalla natura stessa del modo di
produzione moderno; i rischi sono dovuti effetti laterali di processi
tesi a perseguire scopi desiderabili.
Nell'86 il libro di Beck ebbe la fortuna di uscire proprio a ridosso della
catastrofe di Chernobyl che costituì l'esemplificazione immediata della teoria:
e in effetti il rischio era inteso da Beck all'epoca soprattutto come
conseguenza non voluta dell'industrializzazione.
Rischi sono l'inquinamento delle acque, la diossina di Seveso, le radiazioni di
Chernobil, i priori della la Bse e la mucca pazza: per ognuno di questi eventi
si vede come essi siano effetti laterali globali, impalpabili, non
contabilizzabili e sistemici. Il prione è invisibile (finché non uccide
con la malattia Creutzfeldt-Jacob), nessuna compagnia assicura contro di esso,
è sistemico perché indotto dalla necessità di nutrire a basso costo mandrie
sterminate, ed è l'effetto collaterale dell'abbondanza alimentare.
Ma queste stesse definizioni si applicano anche al terrorismo di massa se lo
consideriamo come effetto laterale indesiderato del dominio globale
sul mondo e dello strapotere occidentale. Come una volta si parlava dei “costi
del progresso”, questi sarebbero i “rischi dell'impero”.
I metodi
tradizionali non bastano
Il punto è che chiunque
voglia opporsi al questo dominio globale, non può farlo con i metodi tradizionali
(pensiamo un istante che il resto del mondo guardi l'Occidente come la Cecenia
guarda la Russia). Può uno stato dichiarare guerra agli Usa o alla Nato con una
pur minima speranza di successo? Possono i palestinesi affrontare l'esercito
israeliano in campo aperto (quello stesso esercito che li cannoneggia con i
carri armati?). L'unica possibilità che resta a chiunque voglia opporsi è una
strategia non governativa di attacchi asimmetrici (il concetto di attacchi
asimmetrici è usato da Chalmers Johnson). Di fronte al terrore codificato degli
eserciti e degli stati occidentali, il resto del mondo è impotente, come di
fronte ai bombardieri Stealth che volano a 20.000 metri di altezza. Non stiamo
qui discutendo di legittimità morale, ma di praticabilità politica: d'altronde
nulla di quanto hanno fatto finora i terroristi è neanche lontanamente
paragonabile alla ferocia crudeltà degli eccidi compiuti dai coloni belgi per
portare “civiltà e progresso” in Congo.
Perciò non è un caso se il terrorismo di massa si è diffuso dopo il crollo
dell'Urss: fino a che il mondo era bipolare, le opposizioni potevano esprimersi
in guerre guerreggiate appoggiate da uno dei due campi: le sporche guerre in
cui non c'immedesimavamo. Col crollo di una della due superpotenze, questa
possibilità è venuta meno quasi ovunque, tranne per esempio in Africa dove le
contraddizioni di sistema si esprimono ancora in vere e proprie guerre (ed è
questo il motivo per cui non abbiamo finora assistito a un terrorismo
africano). Il terrorismo di massa rappresenta la fine del monopolio statale
sulla violenza internazionale (lo stato è il “detentore del monopolio della
violenza legittima”, secondo Hobbes e Weber), tanto che Beck ha chiamato i
terroristi “Ong violente”.
Ancor prima dell'11 settembre, Chalmers Johnson affermava che nella costruzione
americana di un impero mondiale sono impliciti effetti boomerang. E Ulrich Beck
dice appunto che i rischi costituiscono agiscono a boomerang, colpisce
anche chi che trae benefici dai processi di cui i rischi sono effetti laterali.
Il terrorismo uccide anche chi profitta dell'impero.
Ma il terrorismo rientra fra i rischi analizzati da Beck anche perché crea un
suo proprio business. Proprio come l'inquinamento crea un mercato del
disinquinamento, così il terrorismo crea un immenso mercato della sicurezza:
industrie di sorveglianza elettronica, compagnie di vigilanza, fabbricanti di
detectors, e via via fino alle industrie belliche e alle grandi corporations.
Come nel caso ambientale, anche il mercato del terrore è una spirale senza fine
che di continuo si nutre di sé.
Ma quel che è più interessante è che il terrorismo di massa ha sull'opinione
pubblica e sul comune sentire lo stesso effetto dei rischi secondo Beck.
Infatti, mentre le società in cui il problema era ed è la distribuzione delle
ricchezze, cioè le società di classe, esprimono l'ideale dell'uguaglianza,
quelle in cui il problema è la distribuzione del rischio hanno come forza
dominante la sicurezza. “La forza trainante nella società di classe può essere
sintetizzata nella frase: ‘Io sono arrabbiato’. Il movimento innescato dalla
società del rischio è invece espresso dall'affermazione: ‘Sono spaventato’”.
Ora le nostre sono società in parte di classe e in parte di rischio, in cui
spinta all'uguaglianza e spinta alla sicurezza competono tra loro, in cui
rabbia e timore si sovrappongono, si urtano, prendono il sopravvento ora l'una
ora l'altro.
Il problema è che la paura è un sentimento di per sé conservatore, perché
l'ansia di sicurezza chiede rassicurazione, cioè lasciare tutto come sta.
Come dice la parola, il terrorismo innesca il terrore per eccellenza e perciò -
come ci dimostrano Bush, Blair, Aznar e Berlusconi - la sua è una spinta
potentissima verso la conservazione.
I pericoli
proiettati nel futuro
Ancora una
caratteristica: “i rischi hanno qualcosa d'irreale in sé: in un senso
fondamentale essi sono reali e irreali. Da un lato molti pericoli e danni sono
già reali oggi (...) Dall'altro, la forza sociale dei rischi sta nei pericoli
proiettati nel futuro. (..) Il centro della coscienza del rischio sta non
nel presente, ma nel futuro. Nella società del rischio, il passato perde potere
nel determinare il presente. Il suo posto è preso dal futuro, da qualcosa
quindi di non esistente, inventato, fittizio, come 'causa' dell'azione ed
esperienza corrente”. Lo stesso avviene per il terrorismo di massa che agisce
sulle nostre scelte politiche in quanto minaccia fu-tura, incubo incombente.
Come scriveva l'altro giorno Kristof sul New York Times, negli Stati uniti
muoiono ogni an no 42.000 persone in incidenti di auto, 115 al giorno, 3.450 al
mese; ma oggi temiamo più le bombe, mentre dovremmo essere terrorizzati
dall'entrare in macchina. Se tutti i morti per auto si concentrassero in ecatombi
mensili di 3.450 persone alla volta (più dell'attentato dell 11 settembre),
forse sarebbe diversa la nostra percezione dei rischi relativi.
Vi è infine un elemento che - contro tutte le apparenze - appaia terrorismo e i
rischi di Beck, ed è la minimizzazione. A prima vista sembra infatti
il contrario: che il terrorismo venga gonfiato al massimo, a scopi strumentali.
In realtà proprio l'enfatizzare nasconde il minimizzare: porre l'accento sulla
guerra al terrorismo mette in ombra l'aspetto sistemico, endemico di queste
stragi.
La guerra la terrorismo finisce per somigliare a tutte le altre guerre
metaforiche, “guerra alla droga”, “guerra al crimine” che spingono solo a una
militarizzazione della società. Ma la campagna per le cinture di sicurezza è un
modo per minimizzare gli incidenti di auto. Per non minimizzarli, bisognerebbe
ridurre l'uso dell'automobile. Guardare in faccia il terrorismo significa
guardare le relazioni sistemiche tra l'occidente e il resto del mondo, guardare
la violenza - simbolica e materiale - che esercita sul pianeta, e che è la
condizione per continuare a godere di benessere, agi, piaceri, divertimenti, e
- fino a pochi anni fa - tranquillità di fare una scappatella a Madrid.
(Tratto da “Il Manifesto”
del 16 Marzo 2004)