IL LUNGO PATTO TRA LA FOTOGRAFIA E
LA MORTE
Un incontro con
Susan Sontag
Francesca
Borrelli
Non c'è forma della
rappresentazione - dalla pittura, al cinema, al teatro, alla letteratura, alla
fotografia - che Susan Sontag non abbia appassionatamente frequentato,
indagato, messo alla prova di quel che passa per essere scontato e al suo
sguardo non lo è mai. Persino l'apparizione dei primi grattacieli di New York,
davanti agli occhi increduli della attrice polacca protagonista del suo ultimo
romanzo In America, si staccavano con prepotenza dal fondale della
nostra immaginazione, ingombrata da milioni di immagini documentarie e
cinematografiche, per avanzare verso il lettore trascinandolo a una rinnovata
meraviglia. Ma forse, di tutte le arti che hanno catturato l'attenzione dì
Susan Sontag, la fotografia è rimasta nei decenni quella verso cui ha mantenuto
una affezione più costante, probabilmente per la seduzione esercitata dal suo
carattere di leggibilità universale, per l'intrinseca democraticità del suo
valore testimoniale, che valica le frontiere stabilite dalle lingue e dai
back-ground culturali, sebbene non ci sia evidenza che possa fare a meno della
parola per essere interpretata. Quando circa trent'anni fa apparve il saggio di
Susan Sontag Sulla fotografia la sua eco fu tale che si riprodusse in
una miriade di citazioni, imitazioni, parafrasi; e non soltanto perché quasi
nulla era stato scritto fino a allora sull'argomento, ma perché quel saggio -
inaugurale di un interesse che sarebbe velocemente diventato di moda -
conteneva già in sé un panorama dal quale ben poche considerazioni sembravano
restare escluse. Solo apparentemente il libro che esce in questi giorni da
Mondadori - nell'ottima traduzione di Paolo Dilonardo, con il titolo Davanti
al dolore degli altri - riprende la riflessione sulla fotografia per
estenderla alle immagini di guerra: è piuttosto la storica alleanza tra due
messe a fuoco, quella dell'obiettivo e quella delle armi, a costituire il vero
soggetto di questo saggio.
Fin da quando vennero
inventate, le macchine fotografiche stabilirono con la morte un rapporto
privilegiato: negli interni familiari funzionavano a fissare preventivamente la
fisionomia dei propri cari, prima che diventassero cari estinti, mentre in
esterni inseguivano le azioni di guerra selezionando le atrocità da mostrare e
quelle da occultare; quando non si dedicarono a ritrarre i prigionieri politici
e i presunti avversari dell'ideologia al potere, pochi istanti prima che
venissero fatti fuori. Da che è stato possibile, la memoria si affida al
fermo-immagine più di quanto ricorra alle sequenze cinematografiche o
televisive, perché - come ci ricorda Susan Sontag - la fotografia ha
l'incisività di una massima, funziona come una citazione, avverte come un
proverbio. Il suo contributo al realismo si nutre di falsificazioni - dalla
famosa immagine del soldato repubblicano ritratto da Robert Capa,
all'altrettanto celebre bacio coreografato da Robert Doisneau: d'altronde, la
fotografia «non è mai solo il trasparente resoconto di un evento», se non altro
perché «inquadrare vuol dire escludere», e in fase di stampa i ritocchi sono
frequenti. Per non dire delle potenzialità aperte dall'era digitale, dove
l'arte della manipolazione è diventata talmente sofisticata da rendere obsoleta
ogni preventiva messa in scena del fotografo.
La contemplazione di una
immagine ci trasforma in voyeur, quando ritrae violenze e orrori della guerra
ci muove a compassione, ma si sa che le nostre emozioni sono instabili, dunque
non possiamo farvi affidamento; soprattutto perché - come Susan Sontag ripete
più volte nel suo libro e nel corso di questa intervista - «non si dovrebbbe
mai dare un `noi' per scontato quando si tratta di guardare il dolore degli
altri».
Sebbene lei si
sia dedicata con crescente passione alla tessitura di trame narrative, sembra
tuttavia che le sia eticamente necessario aprire delle parentesi di lavoro da
dedicare a altrettanti affondo nella realtà: dall'indagine sulla malattia come metafora alla ricognizione delle immagini
di guerra condotta in quest'ultimo libro. Forse non è un caso che anche le sue
ultime opere di finzione siano radicate in un contesto storico...
Proprio così, anche se in
questo momento ho un dubbio circa il fatto di avere davvero bisogno di questi
intervalli da dedicare a una indagine etica sulla realtà. Scrivere romanzi mi
appassiona di più, dunque queste parentesi le sento un po' come un sacrificio.
Tuttavia, come ha detto Oscar Wilde, posso resistere a qualsiasi cosa, salvo
alle tentazioni...Ora che ci penso a posteriori, mi sembra che questo mio libro
sia frutto del destino, ma in realtà è la conseguenza, appunto, di una
tentazione, per giunta arrivata in una forma anch'essa molto attrente per me:
circa due anni fa mi venne richiesto di tenere una conferenza all'università di
Oxford sulla falsariga di un tema che riguarda i diritti e gli errori umani. La
conferenza non era pagata e non era nemmeno previsto il rimborso del biglietto
aereo, perché i proventi erano destinati a Amnesty International: tutte
condizioni particolarmente tentatrici. Pensai in prima istanza di scrivere
qualcosa sulla guerra - è questo infatti il vero soggetto del libro più di
quanto non lo sia la fotografia - e buttai giù un primo canovaccio. Eravamo
alla fine di febbraio del 2001, passata la conferenza pensai che avrei potuto
fare di meglio e mi misi a ampliare quella prima stesura nel corso del
successivo anno e mezzo. Intanto ci furono gli attentati al World Trade Center,
una nuova stagione venne aperta dalla aggressività della politica estera di
Bush, e tutto questo mi rese più necessario affrontare in modo critico il
problema della guerra, che da sempre mi ossessiona. Dopo essere stata tante
volte a Sarajevo credo di avere una conoscenza della guerra molto più profonda
che non della politica. Mi interessava chiedermi quali sentimenti mi provoca,
interrogare le reazioni degli altri, senza limitarmi a esprimere opinioni. E'
incredibile, nonostante tutte le riprese televisive che hanno mostrato
l'assedio di Sarajevo, come in quei giorni ci fossero intellettuali brillanti,
intelligenti, abituati a viaggiare, il cui senso della realtà non aveva alcun
rapporto con la realtà stessa. Mi sono sentita chiedere da un famoso professore
di Oxford quale linea aerea avessi scelto per andare a Sarajevo, come se fosse
possibile sorvolare quello spazio aereo con una compagnia di volo civile, per
poi atterrare in una città sottoposta ai bombardamenti. Prima che partissi, un
redattore della New York Review of Books si offrì di mandarmi la
rivista nei due mesi in cui sarei stata via. Gli feci presente che a Sarajevo
le poste non funzionavano. Nessun problema - disse lui - ti manderò un
corriere. Saranno due casi limite, non so, certo che mi torna sempre in mente
la stessa domanda: quando diciamo «noi» di fronte alla guerra, a chi
corrisponde effettivamente questo «noi»? Mi sembra una entità un po' sospetta,
quanto meno da indagare.
Nel suo saggio Sulla fotografia (Einaudi) lei ha scritto che
«come strumento per filtrare il mondo e trasformarlo in immagine mentale, la
stampa sembra meno pericolosa delle immagini fotografiche. La pensa ancora
così? Non le sembra che con la loro evidenza muta le immagini fotografiche
scatenino luoghi comuni, cosiderazioni retoriche, sempre che non occultino
l'inganno di una messa in scena?
Non credo che la fotografia
sia più pericolosa della stampa, però sono d'accordo che dipende molto dal
contesto in cui la si usa. Forse sarebbe più semplice dire che per ricordare
sono più utili le fotografie, ma se le si vuole capire abbiamo bisogno delle
parole. Con questo non intendo stabilire una gerarchia, perché anche quel che
si comprende è spesso vago, soggetto a variazioni. Nell'aprile del 1945 e
all'inzio del mese successivo vennero scattate le prime immagini a
Bergen-Belsen, a Buchenwald e a Dachau, subito dopo la liberazione dei campi
nazisti: ecco, quelle foto ci mostrano meglio di qualunque racconto una
esperienza la cui crudeltà oltrepassa il limite dell'immaginazione; ma le foto
hanno sempre bisogno di didascalie, devono essere inserite in un contesto di parole.
Uno dei problemi che tratto in questo libro riguarda il modo in cui la storia
si struttura attraverso la memoria fissata nelle immagini.
Infatti, lei
scrive che la «memoria collettiva non è affatto il risultato di un ricordo ma
di un patto», che stabilisce ciò che è importante e come sono andate le cose,
usando le fotografie come tramite tra gli eventi e i nostri pensieri.
Certo, se io nomino le
Brigate Rosse, immediatamente viene in mente la fotografia del cadavere di Moro
estratto dall'auto, se dico nazismo penso alle immagini dei campi di
concentramento, e così via. Mi sembra che l'aumento delle informazioni si renda
più gestibile attraverso delle fotografie funzionanti come icone; il che apre
la strada alla formazione di cliché, ma non mi sembra così importante. Più
cruciale sarebbe, invece, cercare di capire qual è il livello di manipolazione
o di censura al quale certe immagini sono state sottoposte, e se dietro quelle
mistificazioni non si nascondano altri aspetti della realtà, non immediatamente
intellegibili. Inoltre, è più difficile digerire gli orrori e le atrocità
relative a situazioni storiche non documentate a sufficienza: penso, per
esempio, alla guerra di Corea, della quale non ci sono quasi immagini. Il paese
fu selvaggiamente bombardato, ma non è un fatto che destò grande impressione,
proprio perché non arrivavano fotografie delle rovine. Invece, i villaggi
vietnamiti distrutti vennero ampiamente documentati - per esempio dalle foto di
Burrows pubblicate su Life già a partire dal `62 - e dunque quella
guerra si è iscritta nella memoria collettiva come un capitolo particolarmente
violento della storia americana. Siamo cresciuti accumulando archivi di
immagini mentali, che in alcuni casi ci portano a ricordare diversamente da
quanto non faremmo se avessimo soltanto accesso a informazioni non visive. Ma,
in generale, si tende sempre di più a sfuggire le ossessioni visive alle quali
le fotografie inchiodano. Non soltanto la memoria è fatta di ciò che accettiamo
di ricordare, ma talvolta per rendere possibile una riconciliazione bisogna
anche che ci accordiamo sulla necessità di dimenticare.
In quest'ultimo
libro lei torna su alcune osservazioni, fatte trent'anni fa, a proposito delle
conseguenze che l'inflazione delle immagini ha sulla nostra capacità di provare
compassione. Allora aveva scritto che l'impatto emotivo era destinato a
diminuire man mano che aumentava la nostra esposizione al dolore rappresentato
nelle fotografie. Oggi dissente da quelle considerazioni, perché le sembra che
nulla provi la desensibilizzazione a cui ci sottoporrebbe la nostra «cultura
dello spettacolo.» Cosa è intervenuto a farle cambiare idea?
Faccio mia una frase di
Henry James, che diceva di non avere mai un'ultima parola. Quei saggi ebbero
tanta influenza e venero così tanto ripresi che è un po' come se me li avessero
strappati dalla pelle. Il fatto è che fui fortunata, ereditavo un argomento sul
quale esistevano a mala pena due studi, e per di più risalivano agli anni `30.
Cominciai col domandarmi in che modo questa nuova forma di conoscenza
intervenisse nella formazione dello spirito moderno, e naturalmente venni
catturata da Baudelaire: certo, non è stato il primo a riflettere sulla
modernità, ma questa analogia tra l'obiettivo fotografico e l'occhio del
flâneur, che va in giro a dragare per fare acquisti e provarsi sul sesso, mi
aveva affascinato. Però, nemmeno allora intendevo dire che fosse in atto un
processo di desensibilizzazione, piuttosto mi riferivo al fatto che certe
immagini ci eccitano e tuttavia, dopo un po', ci lasciano indifferenti. Con
l'andare del tempo, il mio interesse per la fotografia ha acquisito una valenza
più politica, invecchiando mi sono fatta più furba, ho cominciato a
interrogarmi sulla differenza che passa tra «noi», che dalla nostra postazione
protetta e economicamente agiata ci permettiamo di cambiare canale di fronte
alla vista di un telegiornale, e, per esempio, gli spettatori di Al Jazeera.
Non credo che loro condividano il disincanto di Baudrillard per il quale oggi
esisterebbero soltanto realtà simulate. O le dichiarazioni di André
Glucksmann, che arrivò su un aereo militare a Sarajevo, si trattenne poche ore
e poi se ne venne fuori dicendo che quella guerra era un evento mediatico. Mi
domando come sia possibile essere così scollati dalla realtà, vivere così poco
presenti a se stessi e alla storia.
Nelle prime
pagine del suo libro lei scrive: «Per i militanti l'identità è tutto». Sembra
che l'identità sia diventata una variante della religione, e si sa che in nome
della religione sono state scatenate, nel corso della storia, molte delle
guerre più sanguinose. Non crede che questa retorica dell'identità sia
diventata particolarmente pericolosa?
Non so se l'identità stia
diventando una religione, ma di certo la religione è un fattore identitario al
quale la costruzione della modernità dovrebbe opporsi. Per me è un puzzle, non
so da che parte entrarci dentro. Probabilmente, questa nuova rivendicazione di
identità ha a che vedere con il tramonto della politica. D'altronde, mentre
sembrerebbe avviarsi in Europa un proceso di laicizzazione, in America si fa
ricorso ai valori cristiani sempre più spesso. Lo sa come ha risposto Bush alla
domanda su chi fosse il suo filosofo preferito? «Gesù Cristo» - ha detto. Per
tornare alla questione dell'identità - non importa se di gruppo, etnica,
politica o sessuale - non c'è dubbio che ci sia anche un problema di
rappresentanza. Negli Stati Uniti, il 30 per cento della popolazione è contro
Bush, ma nessuno rappresenta i loro interessi. Inoltre, nuove identità vengono
create dalle trasformazioni del mondo del lavoro, oppure, in Europa, dalla
moneta unica.
Lei fa un
accenno, nel libro, al problema di una ecologia delle immagini. Almeno in
alcuni casi, per esempio, è prevedibile che i primi spettatori delle fotografie
che documentano orrori e morte siano i parenti delle vittime di quegli orrori e
di quelle morti. Crede sia auspicabile un limite alla diffusione di alcune
fotografie particolarmente cruente?
No, i sentimenti dei
parenti delle vittime non giustificano la censura. Né si può tenere conto di
questioni di buon gusto nel fare vedere come vanno le cose in alcune aree del
mondo. Sono una libertaria radicale; anche nel caso di fotografie
pubblicitarie, come ne ho viste tante in Italia, che secondo me rappresentano
un gratuito insulto alla dignità delle donne. Ci sono casi in cui alcune
immagini vengono mostrate solo per fare cassetta, me ne rendo conto, tuttavia
se si comincia a distinguere cosa censurare e cosa no ci si mette in una
posizione di debolezza. La verità è che gli scrupoli intervengono sempre quando
si tratta di mostrare il dolore di chi ci è vicino, mai quando si documentano
atrocità perpetrate in zone remote del mondo. Sul New York Times, nel
novembre del 2001, vennero publicate tre foto a colori di Tyler Hicks che
mostrano, in sequenza, un soldato telebano trovato ferito in un fosso dalle
truppe dell'Alleanza del Nord, poi denudato e finito dai soldati accorsi per
massacrarlo. Forse si pensava che a Kabul non ci fossero degli Internet-café dove
i parenti del soldato talebano avrebbero potuto accedere a quelle immagini? Non
ci si è posti il problema. Invece, le fotografie delle persone che si buttavano
dalle torri del World Trade Center sono state viste in Europa molto prima che
ne venisse consentita la diffusione in America. Il video che riprendeva il
giornalista americano Daniel Pearl, rapito a Karachi, poi costretto a
confessare di essere ebreo e dunque sottoposto a un massacro rituale, venne
tolto dalla circolazione con il pretesto che avrebbe ulteriormente addolorato
la vedova. Ma quello stesso video conteneva anche altri materiali, tra cui
immagini di bambini palestinesi uccisi dai militari israeliani, dunque vederlo
dava informazioni utili.
(Tratto dal giornale “Il
Manifesto” del 10 Giugno 2003)