Marito mio anche la tua ultima lettera è arrivata aperta, perciò ti mando risposta senza chiudere la busta. Questa non è una lettera aperta, da altri, ma una lettera non chiusa.
Mi scrivi per chiedere il divorzio e io te lo devo. Non credo che uscirò più dal carcere, tu invece presto potrai guadagnarti i permessi della mezza libertà. Hai scelto di staccarti dal nostro passato di soldati politici, hai scritto la tua pubblica promessa di “mai più”, che hai maturato in questi anni di gabbie. Hai chiuso dietro di te il tempo passato con l’impeto di un drogato che si consegna alla disciplina di una comunità di recupero. Così ti accoglierà il mondo di fuori, come un intossicato che impara l’astinenza.
Non posso fare come te, non posso seguirti, come pure era scritto nel patto di nozze. Non mi sento in convalescenza da febbri di malaria, non so ammettere di aver agito invano. Se è stato male quello che è uscito dalle mie mani e dai miei pensieri, allora è stato il male necessario, inevitabile come la siccità. Il lutto nostro e altrui è stato dolore obbligatorio. Non posso fare come te. La tua lettera è piena di vita possibile, da ricominciare: un’altra donna ti aspetta fuori. Avrai un impiego, tu che non sapevi fare niente, che sei passato dalla scuola alla lotta clandestina senza aver visto un ufficio di collocamento.
Stàccati pure, da qui dentro non me ne accorgerò. Vuoi un’altra donna, ma sarà una donna d’altri. Non perché è già stata con un altro uomo, a differenza di me che ho abbracciato solo te, ma perché chi non ha condiviso l’odio e la compassione politica, chi non si è battuto allora, o semplicemente non c’era, è un estraneo per noi, una persona altrui.
Il prete qui fa lezioni di catechismo e io ci vado per bisogno di ascoltare storie. Fino alla tua lettera non avevo pensato al senso del comandamento di non desiderare la donna d’altri. Dal tuo esempio riesco a capirlo: desideri la donna degli altri, quella del mondo contro cui abbiamo urtato e che ci ha rinchiusi. La desideri per ottenere la roba degli altri, una casa, un salario, le ferie, il voto. Te l’auguro, ti do la mia benedizione, che è il consenso di stracciare un foglio con i nostri nomi vicini. Non mi lusingare con il mondo di fuori, io non conosco altro luogo all’infuori di questo. Sono diventata donna qua dentro, non fra le tue lenzuola né in clandestinità. Ero ragazza allora e credevo che gli uomini fossero grandi. Non vedo più uomini, ma penso che non ce ne siano mai stati, che non siano esistiti degli uomini, all’infuori di mio padre. Eri ragazzo e sei rimasto così, dài via tutto il tuo gruzzolo in cambio di un’automobilina, come facevi a scuola. La tua lettera crepita di speranzelle.
Irriducibile: anche tu scrivi questo di me. Sapessi invece come è riuscito a ridursi il mondo intero dentro il formato di scatoletta della mia cella, sapessi come l’intera vita si è accomodata nella miniatura della reclusione.. Lascia la parola irriducibile a quelli che ci hanno infilzato come farfalle ai loro aggettivi legali. Chiamami suora di clausura, senza velo né voto, chiamami alberello bonsai, radici attorcigliate in poco spazio. Credo al dio dell’affanno che dà conforto a chi si è tagliata la mammella dei figli, credo di scontare una vocazione e non una pena. Credo e credo e non avrò niente in cambio di questo, perché non è merce questo credo.
Ho pena per te, marito smarrito. Laverai piatti, picchierai tasti in un ufficio di informatica, avrai permessi, scriverai memorie e non pronostico altro se no vomito sul foglio. Tu e altri come te vi siete buttati sopra questa bigiotteria elettronica con l’entusiasmo di chi vuole dimostrare di saper collaborare alla modernità. Non è stato solo un lavoro l’elaboratore, ma la conquista di una licenza di cittadinanza. Il tuo zelo fa onore a quello di certi istituti che promettono agli studenti in ritardo di recuperare cinque ani in uno.
Fossi libera di uscire, andrei a bussare a un convento, a un muro qualunque. Chiederei di entrare e sbattere forte la porta. Non uscirò più: questa è la mia vita e non possono togliermi niente che non mi sia io stessa amputata. Ricordi che non dovevamo avere figli? Bisognava prima vedere il nostro governo nelle strade, solo allora era giusto mettere al mondo il nostro seme. Che figli fare mentre si è in guerra? Ora i figli sono appassiti nel mio ventre magro, il mondo di fuori non meli può più offrire, né me li può levare. Il mestruo di fine ciclo porta via il tempo dei figli, mese dopo mese, i crampi mi avvertono che il sangue è pronto per essere gettato al gabinetto.
Tu vomitasti il giorno dell’ammazzamento, ma a una donna non si muovono le viscere alla vista di un’emorragia. Ho avuto invece pena per il nemico rovesciato a terra, sporcato, ridotto a niente. Ho avuto pena per come era veloce il cambio tra la sua superbia di prima e la miseria dei rantoli. Non c’era di mezzo il tempo per scontare una condanna, che era già finito, già era un fagotto da sollevare con misericordia. Strano era ammazzare, non lasciava niente, uno squaglio di forze, una macchia in terra, la notizia che si sta sulla terra come lo sputo nel palmo.
Marito mio, mi scrivi che te lo sogni di notte, però questo ti succede da quando ti hanno spezzato le ossa nella rivolta del carcere. Prima dormivi bene. Ora sogni i colpi che hai sferrato tu al posto di quelli che hai preso. Lasciali stare i sogni, non dar loro importanza, sono zavorra del sonno. Ti ho amato, ma quella notte dopo l’ammazzamento ti ho anche voluto bene. Mi svegliai col tuo vomito addosso. Mi chiedevi scusa e io non capivo di cosa, singhiozzavi e io ero impastata delle tue viscere. Non fu brutto, te lo scrivo adesso, non fu brutto, le cose del corpo, anche la merda, non mi hanno mai disgustato. Vomitavi l’anima, i pensieri sbagliati del maschile, del guerriero sgomento delle sue reazioni, che si sentiva smentito da se stesso. Non era debolezza, non era fragilità, era il corpo semplice, un po’ di sudore, di febbre, di diarrea, nervi tesi da giorni e tutto il bisogno di credersi autorizzati ad ammazzare. Era vita meccanica che ti faceva quell’effetto, non c’entravano niente le virtù, i caratteri. Era sfogo, purga, nient’altro.
Tu invece ti vergognavi
davanti a me. Volesti buttare le lenzuola, nessuno doveva sapere, mi pregavi di
non dire niente ai nostri. Tu eri mio, se non ero io per te, chi lo era? Certo
che non dicevo niente, perché non era niente. Non ti liberavi da quella stupida vergogna di aver vomitato, di averlo
fatto a letto come la pipì da bambino.
Ma che ne sapevi tu, che conoscevi tu del sangue, del vomito, delle
viscere rivoltate, di un ferro nel ventre che estirpava il figlioluzzo ancora
pesce, che ne sapevi tu di com'era fatta la faccia di carne spaccata della
vita? Ci sono le donne per questo.
Tu sapevi dar voce ai tuoi pensieri, sapevi scrivere le parole esatte e
feroci, sapevi fare il piano per ammazzare un uomo. Ma poi veniva il pezzo di pelle che esplodeva, il piccolo tanfo
chimico degli spari, i nervi sgangherati e la reazione scomposta del colpito,
occhi abbagliati dalla morte, bava, sangue e tutta la spazzatura concreta
dell'azione. Che ne potevi sapere di
quello? lo nemmeno sapevo, ma ero pronta e più che pronta da sempre: sono
donna, macellaia, lavandaia, con le mani sempre a mollo in qualche zuppa. Perciò allora fu bello il tuo vomito, non
quello di oggi scritto su carta da cancelleria e firmato insieme a un
giudice. Prenditi pure la donna
d'altri.
E adesso vattene da me, da ora non sei mio marito, non sei niente per me.
Non mi mandare più notizie, non voglio più leggere lettere aperte. Sia fatta la
tua vita e sia lasciata in pace la mia volontà.
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(Tratto
dal libro “Decalogo – dieci scrittori raccontano i dieci commandamenti”,
Rizzoli editori, 1997, Milano)