ITALIANI IN VILLEGGIATURA
Modalità e
vittime del confino fascista
Edizione dei
testi degli interventi a cura di Lorenzo Tamburini
Lo scorso sabato 31
gennaio si è tenuta, presso la Domus Mazziniana di Pisa, una giornata di studi
sul confino di polizia nel ventennio fascista per dimostrare che, nonostante
alcune recenti dichiarazioni abbiano suggerito il contrario, il confino
dell’opposizione al regime non era propriamente uno svago. La manifestazione,
organizzata senza il supporto delle autorità locali, è stata fortemente voluta
dalla Biblioteca e Casa Editrice Franco Serantini di Pisa, in collaborazione
con la Biblioteca della Casa della Donna di Pisa e l’ANPI, e ha felicemente
avuto un buon riscontro di critica e pubblico. Un ringraziamento particolare ai
relatori e alle relatrici, che sono stati, in ordine di intervento:
Serena Vitale, La
memoria ferita.
Simonetta Carolini, La repressione del dissenso e la memoria storica:
un’introduzione.
Alessandra Pagano, La storia e la geografia del confino in Italia:
principali aspetti e mappatura.
Alessandra Gissi, Le donne al confino politico 1926 – 1943.
Franco Bertolucci, L’esperienza del confino per la provincia di Pisa:
storia e storie di un territorio e dei suoi abitanti.
Fiorenza Tarozzi, Le anarchiche al confino.
Lorenzo Benadusi, Omosessualità al confino.
Marco Lenci, L’opposizione al colonialismo italiano: repressione e
deportazione in Etiopia, Eritrea e Libia.
Laura De Marco, Manicomio e confino: pratiche di repressione.
SULLA VIA DEL CONFINO
Era un’impresa facile
essere mandati al confino. Non importavano proclami in piazza o una forte
attività antifascista, a volte era sufficiente il rifiuto del saluto romano, un
“Muoia Mussolini!” sibilato a denti stretti, magari dopo aver udito l’ultimo
bollettino di morti della guerra coloniale. Bastava questo. C’era sempre, da
qualche parte, un solerte cittadino che all’udire quelle parole, sia per cieca
fede nel regime che per paura, si dirigeva al più vicino posto di polizia e
faceva la sua denuncia. Non vi era un processo, ma solo una misera “autodifesa”
scritta, che richiedeva una competenza giuridica. Documento molto spesso
inutile, dato che la condanna poteva essere formulata anche prima dell’arresto.
A quel punto, il futuro confinato veniva messo in carcere e successivamente (a
volte anche dopo mesi o anni in prigione) spedito al confino. Lipari,
Ventotene, Ponza. Bellissimi posti, che oggi sono desiderabili e piacevoli per
il loro sole e il mare. Ma non allora.
L’ideale di Mussolini era quello di creare un popolo italiano fedele e forte,
un degno erede del perduto Impero Romano. Il partito fascista e la sua
ideologia, ovviamente, racchiudevano in sé tutti i passi per raggiungere questo
ideale di perfezione. Forte, perché il fascismo era sinonimo di virilità,
perseveranza e fiera ostinazione (il celebre “Me ne frego! ”). Fedele, quindi
uniforme: un’unica massa consenziente pronta a seguire il suo Duce ovunque egli
l’avesse portata.
Ma qualsiasi ideale ha per forza dei contestatori e, nel caso di un ideale
selettivo come quello fascista, anche degli individui che non rientrano nelle
categorie sopra elencate. Si pone quindi il problema di cosa fare di queste
persone. Il fascismo ha già dimostrato con l’omicidio Matteotti quanto poco siano
gradite le contestazioni, ma è stato comunque un episodio che ha generato
spaccature e malcontenti. La soluzione del confino è pratica e pulita: si
permette all’oppositore di restare in vita, di avere anche una casa dove vivere
apparentemente indisturbato, tuttavia lo si mette in condizione di non nuocere,
bloccandolo in un posto isolato dal mondo. Un gesto che racchiude in sé tre
aspetti: il compiacimento per aver dimostrato all’oppositore politico quanto
facilmente possa essere ridotto al silenzio, la supremazia di uno stato
repressivo inviolabile e l’ulteriore conferma per l’eventuale “diverso” di
essere veramente tale, un’anomalia emarginabile per legge.
Ma chi erano i confinati? Uomini dell’opposizione, contestatori, ma anche
categorie impensabili. Le levatrici, confinate in blocco, perché sospettate di
praticare l’aborto clandestino e impedire così la proliferazione della razza.
Oppure i “barrocciai” o altri lavoratori itineranti, che potevano essere
veicolo di diffusione di idee sovversive. Chiaramente emarginabili erano anche
gli omosessuali, ed era proprio qui che la logica di ragionamento fascista
raggiungeva l’apice del paradosso. Omosessuale non era semplicemente un uomo
attratto da un altro uomo, ma chi era motivo di vergogna per i suoi atteggiamenti
effeminati o perché, in una relazione, era l’elemento passivo. Difficilmente un
omosessuale attivo e virile nel portamento veniva confinato.
Il confino, punto di forza delle Leggi Eccezionali del novembre 1926, non fece
che riproporre il domicilio coatto, già introdotto da Crispi: una legge nata
per i briganti, che dopo i moti antigovernativi di Sicilia e Lunigiana, era
stata estesa a qualsiasi dissenso verso la società politica. In questo breve
resoconto, verranno analizzati alcuni casi particolari di confinati.
LE DONNE
Il fenomeno del confino
femminile fu altrettanto consistente di quello maschile, anche se le fonti sono
assai meno accurate e spesso riconducibili solo agli archivi della polizia. I
motivi per i quali una donna poteva essere confinata erano più o meno gli
stessi di quelli degli uomini: inizialmente solo per motivi politici,
successivamente per motivi di “immagine”. C’era un ideale preciso della donna,
la “fascista-fascista”, figura fiera ed energica, infaticabile procreatrice e
sostegno morale dell’uomo.
Partendo con ordine dal 1926, le prime vittime del confino furono le
organizzatrici dell’antifascismo militante. La prima donna ad essere confinata
fu Alda Costa, ferrarese, socialista, anti-interventista durante la prima
guerra mondiale. Seguirono Egle (la cui performance dietro le sbarre di
“Bandiera Rossa” mandò in subbuglio il carcere), Anita e Candelora (efficaci
collegamenti tra i vari antifascisti, magari anche legate sentimentalmente a
qualcuno di loro). L’anno dopo, tra le motivazioni incriminanti fu inserito il
legame di parentela. Ida Lucetti la cui famiglia vantava una lunga tradizione
di sovversione e una altrettanto lunga sequela di arresti e segnalazioni, fu
tradotta a Ustica. Persino mettere fiori su una tomba poteva essere pericoloso,
se apparteneva ad una vittima del fascismo. Successe a Vera, colpevole di avere
così ricordato la morte di Spartaco Lavagnini e poi a Isabella, che aveva
preparato una corona di fiori per il funerale di un antifascista.
Ma come già detto prima, in un’ideologia totalitaria tutto questo non basta. Ci
sono precisi canoni da rispettare e se la donna fascista non si impegna per il
bene morale della patria, è inutile e da confinare. E’, con le parole
spregiative del regime, una “meretrice”. Alcune di loro esercitano, perché
senza fissa dimora, come Michelina, la cui colpa maggiore non è stata vendere
il proprio corpo, quanto aver urlato un sentito e popolano “Andate a morì
ammazzati voi e Mussolini!” o come Emilia, che non si prostituisce, però ha
avuto tre figli illegittimi (e questo è grave) da un pregiudicato fuoriuscito
(e questo è ancora più grave).
Ma non è ancora sufficiente. Il destino si adopera per togliere il sonno a
Mussolini e mettergli davanti nuovi nemici. L’effetto domino del crollo di Wall
Street ha le sue ricadute anche in Italia. I salari vengono tagliati e le prime
vittime dei licenziamenti sono le donne che, visto che hanno una prole da
mantenere, “occupano inutilmente” dei posti di lavoro. E i bambini diventano
un’ottima arma nelle mani dei fascisti. Lea è confinata, perché madre
irresponsabile che ha affidato sua figlia al Partito Comunista, causandone la
morte a Mosca per malattia. Al contrario, Carlotta figli non ne ha, ma è
scaltra, violenta e soprattutto amica di tutti i comunisti di Massalombarda,
nonché organizzatrice di “riti bolscevichi”. Maria, invece non ha nemmeno
queste colpe, ma il marito è in carcere per aver ucciso due fascisti e la sua
presenza è un potenziale detonatore nelle menti del popolo ravennate. Fuori. E’
l’irredentismo sloveno a togliere il lavoro a Ludmilla e a spedirla per due
anni a Ponza. E alcuni scarabocchi con nomi e cifre sono il foglio di via per
la biellese Amalia.
Siamo al 1935. L’Italia, che ha sempre sofferto di un nazionalistico complesso
di inferiorità nei confronti dei paesi vicini colonizzatori, è impegnata su più
fronti di conquista possibile. In Africa, sottomettono Libia, Etiopia e Eritrea
e, già che ci sono, offrono man forte a Francisco Franco nella guerra di
Spagna. Qualcuno è un po’ perplesso sull’effettiva validità di questa
strategia, qualcun altro per motivi personali o religiosi (avventisti e
testimoni di Geova) dissente dalla strategia militarista. Il fascismo non
approva il “disfattismo” pessimista di queste persone e li manda ad accrescere
il già consistente numero di confinati. Ovviamente, anche qui le donne giocano
un ruolo cruciale. Perché si può essere comuniste, “fasciste-fasciste”,
anarchiche o indifferenti, ma si è sempre madri o sorelle di qualcuno che è
stato spedito in guerra o che corre questo rischio.
Inizialmente si viene puniti solo per attività connesse alla guerra di Spagna.
Combattere coi repubblicani spagnoli permette agli antifascisti italiani di
eliminare, alla luce del sole, qualche fascista nostrano e Gioiosa è tra le
donne condannate per aver permesso l’espatrio verso la Spagna dei nemici del
regime. Successivamente è la Seconda Guerra Mondiale a causare la rabbia e la
voglia di ribellione delle donne italiane, già fortemente provate nel
sostituire gli uomini sul posto di lavoro e nel dover essere l’unica ed
esclusiva fonte di cibo per la famiglia. Enrichetta lo urla in piazza che
Mussolini è uno “svuota-salvadanai” e che chi ne tesse le lodi è un
“pappagallo”. E Rachele, ironicamente un nome molto caro al Duce, viene
arrestata per aver addirittura sputato sulla sua effigie. Altrettanto drastiche
la bolognese Rosa e la torinese Francesca che desiderano una pallottola da
piantare in faccia a Mussolini. Invece Maria Angela non commette nessun gesto
eclatante, è solo una povera contadina che fa il suo lavoro, ma è una testimone
di Geova e obbedire al proprio Dio piuttosto che al Duce la manda un anno a
Ventotene.
Per quelle come Maria Angela, la vita al confino non è facile. Lontane da ogni
ideale politico, si ritrovano spesso isolate nelle discussioni, che
inevitabilmente vertono sul fascismo. La jugoslava Meta lamenta di essere
l’unica donna del suo gruppo e ciò le crea un comprensibile imbarazzo e senso
di solitudine. La già citata Amalia, invece, una volta a Ponza comincia subito
a organizzare riunioni e gruppi, tanto che le sono imposte, come misure
restrittive, prima il divieto di andare a braccetto con gli uomini e poi di non
poterci parlare affatto. Amalia è solo la prima di una serie di donne a cui venne
impedito, per motivi di ordine generale, di parlare con altri uomini.
Un altro problema era quello della sopravvivenza economica. Il sussidio
giornaliero calò drasticamente da dieci a sei lire e qualsiasi spesa
straordinaria, persino le cure mediche, doveva essere chiesta al Ministero che,
con calma e a discrezione, avrebbe preso provvedimenti. Oppure il problema
dell’indennità dell’alloggio, che obbligò Maria a vivere a Ponza, col suo
bambino, in una stanza umida messa pietosamente a disposizione dagli altri
confinati. A Lipari, Paola lamenta le discriminazioni nel trattamento delle
confinate donne che non ricevono dallo Stato nemmeno di che vestirsi. Savina1,
dal cosentino, lamenta che i generi alimentari stanno scarseggiando.
L’assistenza sanitaria era altrettanto latente: si denunciavano condizioni
igieniche al limite della tollerabilità, donne incinte o con problemi di reni
abbandonate a loro stesse.
A differenza dei confinati maschi, le donne non avevano un organo
amministrativo che documentasse le loro richieste, eccezion fatta per le fonti
di polizia. E’ da questo archivio che viene fuori un universo femminile provato
dalle torture del confino ma che, nelle sue richieste, mantiene inalterata una
dignità che il regime fascista non riuscì assolutamente a stroncare.
IL CONFINO NELLE COLONIE
Anche il colonialismo
italiano era nato, inizialmente, come valvola di sfogo per deportare i numerosi
briganti che infestavano l’Italia. Tuttavia finì presto con l’estendersi, e in
forma massiccia, anche alla popolazione locale dei paesi conquistati, che
venivano obbligati ai lavori forzati nella costruzione delle opere di regime in
Africa. Molto spesso, si attuavano anche delle deportazioni di massa, visto che
i luoghi dove la “manodopera volontaria” risiedeva erano distanti dai cantieri.
Si crea “Lo statuto degli indigeni”, dove si ribadisce l’importanza della
punizione corporale che è aberrante per un europeo, ma sicuramente più
congeniale alla mente primitiva del colonizzato di colore. Lo stesso primitivo
che protesta, e anche energicamente, perché la procedura di confino non prevede
un processo, e quindi ritiene incivile condannare qualcuno senza l’intervento
di un giudice.
La colonizzazione in Africa e i relativi sconfinamenti avvengono in tre fasi.
La prima fase fu nel 1885, con l’impianto a Massaua. Gli italiani si trovarono
davanti un mondo praticamente sconosciuto, che non sapevano come gestire e che
si rivelò subito insidioso con il massacro di cinquecento soldati a Dogali. La
repressione del governo fu altrettanto dura e vide la nascita di due tipi di
“relegazioni”: quella interna all’Africa ebbe come centro l’isola di Nocra, un
campo di raccolta dalle condizioni di vita molto dure, mentre quella esterna vide
i Ras, i capi ritenuti più pericolosi dell’opposizione indigena, in viaggio
verso località italiane come Procida. Il clima troppo freddo per gli africani e
le proteste solidali degli italiani fecero scemare rapidamente questo flusso
coatto.
La seconda fase del colonialismo italiano riguardò la guerra di Libia (iniziata
nel 1911 e protrattasi, a fasi alterne, fino al 1931) e in particolare la
repressione dopo il tradimento di Sciara Sciat (quando le truppe di rinforzo
arabe abbandonarono a loro stessi i bersaglieri italiani in battaglia). Se la
“relegazione esterna” riguardò le Tremiti (la Libia reclama ancor oggi le salme
dei deportati), quella interna fu ancora più devastante. Per ordine del
generale Rodolfo Graziani, la massima autorità italiana presente sul campo, fu
attuata la politica della “terra bruciata”: interi villaggi, senza alcun
rispetto per gli anziani o i bambini, furono deportati in pieno deserto in
grezzi campi di concentramento e praticamente abbandonati al loro destino.
La terza fase vedrà ancora protagonista lo spietato Graziani, ma stavolta come
causa scatenante. E’ un attentato ai suoi danni, organizzato dagli etiopi al
suo servizio, a scatenare la repressione e il confino, nuovamente in Italia,
dei Ras locali. Poi, per esplicito intervento di Mussolini, secondo cui
“c’erano troppi neri a giro”, la deportazione esterna avrà fine, per
concentrarsi sul lager somalo di Danane, le cui torture quotidiane sono
raccontate nella testimonianza diretta, recentemente pubblicata, del comandante
Mazzucchetti.
Una menzione particolare la merita Isaac Menghistu Isaac, l’unico a ricevere un
trattamento equivalente a quello dei confinati italiani. Persona di notevole
cultura, venne a Roma nel 1930 per studiare Ingegneria e si lasciò scappare
affermazioni antimperialiste, durante le ultime tragiche notizie sulla guerra
in Etiopia. Deportato tra Ponza, Ustica e Ventotene, si darà attivamente alla
militanza politica, diventando anche amico di Sandro Pertini che, nel 1980, lo
riceverà al Quirinale.
IL CASO MASETTI
Bologna, 30 ottobre 1911.
E’ mattina nel cortile della caserma e i soldati si stanno preparando per
raggiungere i loro compagni in Libia. Quella della Libia è una campagna dai
risultati alterni, l’ennesimo capitolo dalla fine incerta della colonizzazione
italiana in Africa e in molti, in tutta Italia, hanno già iniziato campagne per
la smilitarizzazione. Al contrario, il tenente colonnello Stroppa a questa
guerra ci crede. Ma Augusto Masetti, un soldato fra tanti, non vuole andare in
guerra. Soltanto la settimana prima ci sono stati i massacri dei soldati
italiani a Sciara Sciat e a Tripoli, seguiti da una spietata repressione nei
confronti degli arabi. Pagine tristi o infamanti di cui non andare fieri.
Stroppa e i suoi superiori puntano ad altro. Ma anche Masetti. Precisamente sta
puntando il suo fucile verso il suo stesso esercito. E spara. Tutti gli sono
addosso, Masetti grida “Viva l’anarchia! Abbasso l’esercito!”. Stroppa è
colpito, ma non muore, è solo ferito.
La notizia che un soldato ha sparato a un suo superiore si sparge rapidamente,
gettando nel panico le autorità. Durante gli interrogatori, Masetti dà ogni
volta una giustificazione diversa per il suo atto e appare confuso. Si decide
di verificare il suo stato psichico. La prima visita è l’8 novembre al
manicomio di Reggio Emilia, per stabilire se sia processabile o meno. La vita
di Masetti è analizzata in ogni deviazione: dall’isterismo del ceppo materno al
sonnambulismo di cui ha sofferto da piccolo fino ai suoi problemi con l’alcool.
Si applica anche il metodo lombrosiano, perché col suo aspetto grezzo, quasi
scimmiesco, Masetti rientrerebbe nelle categorie “degenerate” dei criminali. Il
giudizio finale è che Masetti non è un anarchico come si è proclamato ma, più
semplicemente, un uomo incapace di dominare le proprie emozioni. Un degenerato
da internare nel manicomio di Reggio Emilia.
Una volta in manicomio, Masetti alterna momenti di quiete alla disperazione.
Gli giungono molte cartoline di sostegno, che mettono in allarme le autorità. Trasferito
a Montelupo Fiorentino, sembra ravvedersi del suo gesto, tanto che il direttore
si mostra favorevole ad un suo ritorno nel mondo civile. Segue un nuovo
trasferimento a Imola, il cui direttore Ferrari aveva destato scalpore nel
mondo psichiatrico italiano per i suoi tentativi di civile recupero degli
internati. Qui Masetti trova anche un lavoro come calzolaio. Ma non è ancora
finita, c’è un nuovo trasferimento al manicomio di Padova, dove i suoi
sorveglianti notano l’atteggiamento quieto e la speranza in una liberazione
ormai prossima. Ma i giudici continuano a non fidarsi delle perizie mediche.
I comitati Pro Masetti cominciano a diffondersi e ad alzare la voce. Gli
anarchici accusano il governo di aver voluto punire Masetti con la pazzia,
piuttosto che con la fucilazione, perché consapevoli dell’antipatia che il
popolo italiano aveva per la guerra. Oltre alla salvezza di Masetti, ci si
adopera anche per la propaganda antimilitarista nelle caserme, a cui seguono
scioperi e manifestazioni. Tre persone vengono uccise a Ancona.
La perizia del 1915 stabilisce che Masetti deve restare internato e viene
rispedito a Imola. Le proteste e le lotte in suo favore, più demoralizzate di
lui, si spengono e addirittura alcuni suoi sostenitori passano all’interventismo.
Masetti trova un amico nel direttore Baroncini, che si dimostra fiducioso nel
suo recupero, tanto da ricevere dei richiami dall’alto per le uscite premio che
concede a quell’internato pericoloso. Nel 1919, grazie a una supplica della
madre, Masetti esce dal manicomio per essere curato in una casa privata a poca
distanza.
La triste vicenda di Masetti è un esempio lampante di come un regime poteva
sfruttare a suo piacimento anche la scienza, soprattutto una così potente come
la psichiatria. E l’accanimento nel tenerlo rinchiuso è solo un’anticipazione
del confino a Sassari, che lo attende negli anni ’30, per la sua esposizione
contro la guerra in Etiopia. Da quella fucilata del 1911, la vita di Augusto
Masetti sarà per sempre imbrigliata e decisa dalle autorità. Persino nella
morte, causata con ironia da un motorino che lo travolse, ormai ottantenne, nel
1966. A guidarlo, un vigile urbano.
L’IMPEGNO DELLA PROVINCIA
DI PISA
21 morti in conflitti a
fuoco e 63 sedi di partiti, sindacati o cooperative distrutte. 58 confinati,
senza contare i residenti mandati al confino da altre regioni. Questo è parte
del tributo che l’antifascismo di Pisa ha pagato nella sua lotta contro il
regime. Una provincia molto attiva, quando si è trattato di alzare la voce
nelle varie fasi di maggiore protesta e che poteva contare su un sottobosco di
riviste gestite e scritte da operai. Ed è un fatto notevole, se si pensa che la
media lavorativa degli operai era di dieci ore al giorno e la stragrande
maggioranza non era andata a scuola oltre le elementari, costruendosi di
conseguenza una cultura da autodidatti.
Uno dei primi a provare personalmente l’emarginazione di regime fu il 57enne
livornese, ma pisano d’adozione, Virgilio Salvatore Mazzoni, esponente della
Camera del Lavoro, intellettuale dalle valide doti oratorie e animatore della
vita culturale pisana. In una prima fase l’impegno del fascismo fu colpire
personalità come lui (che già aveva subito il domicilio coatto sotto Crispi),
gli intellettuali che potevano creare un’opposizione concreta e ragionante,
senza fare politica attivamente, ma comunque offrendo una linea di pensiero
contrastante. Nella prima fase (dalle Leggi Eccezionali alla chiusura di
Lipari), verranno confinate altre figure di intellettuali, come l’ex sindaco di
Carrara Edoardo Starnuti, direttore de “La Sveglia Repubblicana”, Roberto
Barsotti, organizzatore degli Arditi del Popolo, o il propagandista comunista
Giuseppe Ciucci che, tanto per smentire le teorie “vacanziere”, al confino si
ammala e muore.
La seconda fase comprende il periodo delle guerre di Etiopia e Spagna, dove
oltre ai contrari ai conflitti si cerca di bloccare quelli che in guerra ci
vogliono andare, ma in Spagna, per sparare ai fascisti. Tra le figure
principali, Francesco Fausto Nitti, già nell’organizzazione antifascista “La
Giovane Italia”. Combattente in Spagna, si sposterà poi nella Resistenza
Francese. Catturato e confinato a Lipari, tanto per non smentirsi, sarà
protagonista della fuga dall’isola assieme a Emilio Lussu. Oppure Florindo
Eufemi, ciclista, astro nascente dello sport fascista, che al traguardo della
Nizza – Marsiglia, tira diritto per andare a combattere in Spagna, dove poi
verrà ucciso. I nemici del regime sono cambiati: non sono soltanto gli
intellettuali da incarcerare preventivamente ogni volta che un gerarca arriva
in città, adesso ci sono anche gli operai e i piccoli artigiani, quella massa
imprevedibile che Mussolini vuole imbrigliare, ora che il consenso popolare e
la sintonia con i Savoia sembrano aver raggiunto l’apice. E chi si ribella
riceve una punizione esemplare. L’imbianchino Fulvio Bianchi ha solo detto “Si
muore di fame già adesso, figuriamoci con la guerra!”, ma ciò non gli impedisce
di essere confinato per quattro anni.
Dal 1939 al 1943, anno in cui la pratica del confino viene finalmente abolita,
le vittime principali sono i reduci della Resistenza spagnola, come Ideale
Guelfi e Guido Ciardi, arrestati in Francia e internati nei campi di lavoro
locali. Oppure Umberto Raspi, operaio anarchico di Volterra, che partecipa al
Biennio Rosso tra gli Arditi del Popolo e poi va a combattere in Spagna. Dopo
il confino, va a Genova a sostenere la Resistenza. Catturato dalle SS, viene
deportato a Buchenwald e fucilato. Una fine altrettanto tragica era toccata due
anni prima ad un altro operaio anarchico, Gino Piaggesi, morto per le dure
condizioni di vita nel carcere di Palermo. Sono comunque gli ultimi sussulti di
una repressione talmente morente che da indagini successive si scoprirà che
molti “ribelli” avevano la tessera del PNF, segno di una crisi irreversibile
nel regime. Le ultime due denunce di rilievo sono per l’ebreo (particolare
sottolineato nella denuncia) Giangiacomo Gallico e per il fruttivendolo Romolo
Corucci, entrambi accusati di raduni sovversivi.
Molti dei personaggi
sopra elencati sono passati dallo status di aspiranti eroi a quello di illustri
dimenticati, per pigrizia, mancanza di memoria storica o altre giustificazioni,
comunque non abbastanza valide. L’iniziativa della BFS (iniziativa autogestita,
teniamo a ricordarlo) è servita a ribadire dei punti fermi nella storia di una
nazione, che si vuole dimenticare con troppa faciloneria. Dietro il lavoro di
bombardamento alleato, che viene portato come unica e sola causa della fine del
fascismo, ci sono stati tantissimi uomini e donne, piccoli forse e
insignificanti agli occhi della Storia, le cui parole, battaglie, ma
soprattutto lo spirito di sacrificio hanno permesso di spianare la strada alla
vittoria finale. Consapevoli di poter sparire o di poter morire. Abbiamo voluto
ricordarli coi fatti, senza eccessiva retorica, perché è solamente col ricordo
e lo studio dell’esperienza passata che l’umanità può pretendere di migliorarsi
e giungere ad una società civile e democratica.
1 ACS, Agr, Confino
Politico, fasc. “Savina B.” b. 94