FIAMME
Luigi Bernardi
È venuta anche la
brunetta al tuo funerale. Nessuno la conosceva e lei se n’è rimasta in
disparte, un po’ spaurita. Non ha pianto, però aveva lo stesso un’espressione
addolorata, vagamente perplessa. Pareva una che sa di avere perduto qualcosa,
ma non sa esattamente cosa. Tutti si sono chiesti chi fosse, i tuoi amici del
bar hanno anche azzardato un crescendo di ipotesi, non ti sarà difficile
immaginare di che genere. Se non altro, hanno avuto il buon senso di parlare lontano
dalle orecchie di tua moglie. Immagino che ti farà piacere saperlo, sempre che
dove ti trovi tu abbia ancora la possibilità di provare piacere.
Hai deciso di farla
finita dopo tre mesi durante i quali ti sei reso conto che l’esperienza di
oltre cinquant’anni di vita non sarebbe bastata per affrontare il mondo nel
quale ti aveva precipitato la malattia. Un mondo che ti pareva troppo
sconosciuto e doloroso per un semplice benzinaio come te. Da un benzinaio ci si
aspetta che pompi benzina dentro i serbatoi delle automobili, che controlli le
coppe dell’olio, che sia bravo a sostituire tergicristalli e pulire vetri, non
che sia capace di rimettere in discussione abitudini, affetti, manie, gesti
solo per partecipare al gioco della sopravvivenza. Una posta allettante, certo,
forse la più allettante di tutte, ma anche un azzardo faticoso e spesso
inutile, perché le regole possono cambiare da un gioco all’altro, e senza che
nessuno ti chieda un parere.
Ci hai pensato a lungo
prima di fare quello che hai fatto, hai trascorso giorni interi a rimuginarci
su, sballottato dall’instabilità delle tue affrettate decisioni. Poi, quando
pareva ti fossi convinto a regalarti un altro po’ di tempo, sei uscito
precipitosamente nel piazzale delle pompe. Hai impugnato la prima che ti sei
trovato a portata di mano e ti sei irrorato il corpo di benzina. Poi ti sei
frugato in tasca, hai afferrato l’accendino e te lo sei avvicinato al cuore.
Era il tuo accendino di sempre, quello che spesso si inceppava e bisognava
farlo scattare anche cinque o sei volte prima di ottenere la fiammella. Ti ha
voluto bene questa volta, ha funzionato al primo colpo.
Sei stato aggredito da
una di quelle cose che cominciano ad attaccarsi in qualche parte del tuo corpo,
a intaccarlo, a sostituirsi progressivamente a lui fino a farlo diventare un
corpo di cosa morta, un corpo che può solo morire. Brutto male, lo chiamano,
non solo perché è brutto prenderlo, ma anche perché è brutto da vedere, osceno,
inconcludente nella sua geometria impazzita. Ti aveva ghermito la vescica, hai
saputo dopo che la tua poteva considerarsi una malattia professionale perché
alcuni componenti dei vapori della benzina vengono espulsi dal corpo insieme
alle urine. Solo che, prima di andarsene a infestare le condotte fognarie del
comune, si sono divertiti a scombinare la tranquilla esistenza delle tue
cellule, avvelenandone i codici riproduttivi. Dopo che l’hai saputo, ti sei
chiesto il senso del concetto di malattia professionale. Uno fa una professione
per vivere, per stare meglio, non per ammalarsi, non per morire. Tanto vale
allora non fare niente, almeno non si fatica.
Ci sono cose, nella vita,
che ti spaventano eppure ti danno la voglia di conoscerle, di affrontarle, di
sfidarle. Anche se dovessi perdere, qualcuno potrebbe giovarsi degli errori che
hanno portato alla tua sconfitta, correggerli e vincere. All’inizio ci hai
provato, ti sei perfino stupito di come fosse facile apprendere certe nozioni,
e di come fosse facilissimo mettersi a filosofeggiare sulla vita e sul senso
delle cose. È stato allora che ti è affiorato per la prima volta il pensiero di
farla finita prima che il male presentasse all’incasso l’ultima cambiale,
quella che non avresti mai saputo come onorare. La fantasia di non dare al
cancro la soddisfazione di ammazzarti ha cominciato ad ammorbidire la sorda
rabbia che ti stava montando dentro. Hai anche pensato che se tutti quelli ai
quali era stato diagnosticato un cancro si fossero uccisi con le proprie mani
forse lui, il dio del cancro, avrebbe cominciato con il sentirsi così frustrato
e affamato da doversene andare a far danni in un altro mondo.
Ti sei accorto tardi del
male che ti stava divorando perché, impegnato com’eri a tenere dietro alle tue
pompe di benzina, non avevi prestato attenzione al fatto che le tue urine si
erano scurite un po’. Non avevi neppure dato peso alla sensazione che ti
ghermiva quando andavi al bagno. Era come se un sottile filo di corrente
elettrica ti attraversasse i testicoli e andasse a scaricarsi alla base del
pene, strozzandolo. Non era una sensazione spiacevole, forse per questo non te
ne sei preoccupato. Alla mia età, pensavi, è normale avere qualche problema con
la prostata. Poi un giorno hai cominciato a urinare sangue, scuro, denso. Ogni
tanto qualche grumo di una sostanza che pareva carne viva fuoriusciva insieme
al piscio, saettando come un missile per andare a schiacciarsi contro la parete
di ceramica del water. Una volta hai avuto il coraggio di ripescarne uno,
aiutandoti con la carta igienica. Non era carne, era sangue, sangue coagulato.
Così sei andato dal medico, che ti ha mandato da un altro dottore, che ti ha
spedito da uno diverso ancora, finché una mattina hai dovuto presentarti
all’ospedale, davanti a una porta dove c’era una targhetta sbilenca che diceva
Cistoscopia.
È lì che hai incontrato
la brunetta.
Ti hanno fatto entrare,
hanno detto di toglierti pantaloni, mutande scarpe e calzini. Poi ti hanno
fatto sedere su una specie di lettino e ti hanno detto di sdraiarti all’indietro
infilando i piedi su due supporti posti a poco meno di un metro da terra. Hai
eseguito alla lettera quanto ti era stato richiesto. Se ti avessero visto i
tuoi amici del bar, in quella posa, ti avrebbero preso in giro per il resto dei
tuoi giorni. Allora, raccontaci di quella volta che sei andato dal ginecologo,
avrebbero detto sogghignando e dandosi gomitate nel costato. E quando te l’ha
preso in mano? Dài, dicci di quando l’infermiera te l’ha preso in mano.
Gliel’hai fatto vedere l’alzabandiera, eh? Parevano lì, le voci dei tuoi amici
del bar, invece c’era solo silenzio. Anche il tuo corpo era silenzioso,
sembrava scollegato dai tuoi pensieri, sembrava non appartenerti più, come
fosse diventato quello di un altro. Sotto, da qualche parte a penzoloni in quella
posa oscena, doveva esserci il tuo pene, ma nemmeno di quell’organo così
imprescindibile alla vita avvertivi l’esistenza. Neppure quando un’infermiera,
una brunetta dalla faccia imbronciata, te lo ha afferrato, gli ha alzato il
prepuzio scoprendo il glande e ha introdotto nell’uretra una piccola siringa
senza ago. Le metto un po’ di disinfettante, sentirà un leggero fastidio, ha
detto mentre con le dita premeva sullo stantuffo. Poi ti ha sorriso e ha
aggiunto che fra poco sarebbero arrivati i dottori per l’esame vero e proprio.
Quando sono entrati i
medici il distacco dei tuoi pensieri da quel corpo appesantito dagli anni e
avvilito dalle circostanze ti era ormai palpabile. Ti pareva di galleggiare a
un paio di metri da terra e da là assistere alla proiezione di un pezzo di vita
che non ti riguardava. È la prima volta che fa questo esame?, hanno chiesto al
tuo corpo. Qualcuno dentro di te deve avere risposto che sì era la prima volta.
Poi ti hanno fatto altre domande sulla malattia, sui sintomi, su che lavoro
facevi, se fumavi o abusavi di alcolici. La voce che era dentro di te aveva
risposto meticolosamente a ogni questione. Dall’alto vedevi i medici intorno al
tuo corpo, avevano indossato la mascherina per proteggersi la bocca, si erano
infilati i guanti, adesso sembrava che ognuno stesse assumendo un compito
preciso, in modo del tutto svagato, quasi automatico, come se quello che si
accingeva a fare fosse qualcosa al quale dedicare poco più di una qualche
distratta attenzione. Il medico più giovane ha afferrato un aggeggio che
sembrava il bizzarro incrocio fra una pompa da bicicletta e una grossa siringa
munita di un ago di metallo spesso come una matita. Solo più tardi hai saputo
che quell’affare si chiamava cistoscopio. Il dottore ha avvicinato lo strumento
al tuo pene, che teneva saldamente con l’altra mano. La punta dell’ago di
metallo e la bocca del tuo pene sono entrati in contatto, poi hai visto l’ago
sparire dentro di te. In quell’istante è stato come se il tuo corpo ti avesse
bruscamente richiamato in lui, per non rimanere solo, per dividere la
sofferenza con te.
Quando hai ripreso il
contatto con te stesso, hai avuto la sensazione di avere sbagliato la manovra,
ti sentivi ribaltato, di certo ti eri entrato dentro in maniera non corretta.
Doveva essere successo proprio così, altrimenti perché giù nel pube avvertivi
questa pressione dall’esterno verso l’interno, era troppo innaturale per non
essere frutto di un errore. Ti sentivi pieno, ed era come se ti stessero
pompando dentro. No, volevi dire, guardate che io sono i miei pensieri, sono
andato a fare un giretto però adesso sto tornando ed è dalla testa che devo
entrare, non da lì, e poi conosco la strada e non serve che mi spingiate.
Quando ti sei accorto che stavi vaneggiando, è stato ancora peggio. C’era
quello strumento che ti entrava dentro, saliva su lungo un condotto che fino ad
allora era stato percorso soltanto nella direzione contraria. Quello era un
condotto per portare fuori delle cose non per immetterle. Hai provato la
sensazione di vomitarti dentro, di essere sul punto di scoppiare, di non
trovare altro modo per espellere la tensione. Quello strumento di metallo ti
stava imbottendo e tu non potevi liberartene. Ti hanno detto di respirare
profondamente. L’hai fatto, ma non era nei polmoni il pieno che avevi la
necessità di cacciare fuori. Di fianco a te si è acceso un monitor e così ti
sei visto come eri fatto dentro. Almeno gli occhi hai potuto chiuderli.
Ti hanno detto che
avevano finito, ti hanno fatto scendere e i tuoi piedi hanno toccato il
pavimento. Hai pensato che le gambe non ti avrebbero sorretto. Devi essere
impallidito perché i medici hanno chiamato la brunetta e le hanno chiesto di
aiutarti. Lei ti ha sorretto sotto il braccio e ha mosso i tuoi passi verso lo
spogliatoio. Nonostante il dolore che ti infiammava il ventre e un senso che ti
pareva di umiliazione che ti annebbiava la vista, ti ha attraversato lo stesso
il pensiero che quella brunetta era proprio carina, e che se non avessi avuto
gli anni che avevi qualche fantasia te la saresti anche potuta concedere. Poi
ti sei reso conto che eri già nello spogliatoio e che la brunetta ti aveva
appena infilato le mutande e ora stava aiutandoti a indossare i pantaloni.
Prima però ti aveva avvolto il pene con una specie di pannolino. Un bambino, ti
sei detto, sono tornato un bambino. Poi ci hai ripensato e ti sei corretto. Un
vecchio, nient’altro che un vecchio.
Tornato a casa, per una
settimana hai vissuto solo nel conflitto con il dolore. Poi, piano piano, i
tuoi pensieri sono approdati alla brunetta, alla sua carnagione scura, alla
morbida peluria che le fasciava le braccia, al denso ciuffo di peli che le
avevi intravisto sotto le ascelle quando i tuoi occhi erano riusciti a
infilarsi attraverso la manica corta della sua divisa. Hai rivisto in lei le
ragazze della tua giovinezza. Ti sei illuso di poter ricominciare. Allora ti
sei messo ad annusare a vuoto nell’aria che ti circondava per vedere se
riuscivi a catturare il morbido odore che le avevi trafugato mentre ti
accompagnava nello spogliatoio. Hai sentito solo il puzzo di benzina e dentro
di te è cominciata ad albeggiare una tormentosa rabbia.
Qualche giorno dopo, in
ospedale, i medici ti hanno detto che nella vescica ti erano cresciute diverse
escrescenza tumorali, papillomi, così li hanno chiamati. Eri stato fortunato
perché avevano una conformazione tale che si potevano estirpare con
un’operazione endoscopica, senza tagli. Un intervento molto semplice, come
l’esame con il cistoscopio, solo che questa volta ti avrebbero fatto l’anestesia.
Dopo nemmeno una settimana di degenza in ospedale saresti uscito con la vescica
ripulita e senza più il terrore di urinare sangue. Il successivo esame
istologico avrebbe permesso di individuare la natura del tumore, che spesso si
rivelava benigno e, anche in caso contrario, poteva essere egregiamente
combattuto. Sei uscito dall’ambulatorio indeciso se essere preoccupato o
sollevato. Sembrava quasi che non ti importasse, che la sola cosa che ti stesse
a cuore fosse andare alla ricerca della brunetta. Avevi voglia di rivederla,
volevi accertare che quello che ricordavi di lei corrispondesse davvero alla
ragazza che ti aveva assistito dopo l’esame e non fosse soltanto il desiderio
di un’emozione più forte del dolore e della malattia. Hai imboccato la scala
che portava al piano inferiore, dove era situato il laboratorio di endoscopia,
ti sei diretto verso la porta e l’hai trovata chiusa. Ti sei informato presso
la guardiola, ti hanno detto che oggi era giorno di riposo e che neppure
l’infermiera era presente. Per combattere la delusione del mancato incontro, ti
sei costretto a preoccuparti per l’imminente operazione chirurgica.
Ti hanno ricoverato dopo
un mese dall’esame. Sei stato di nuovo sottoposto a domande sempre uguali, a
prelievi di sangue, a misurazioni della temperatura e della pressione. Poi, il
giorno dell’intervento, è venuta un’infermiera a prenderti con una barella. Non
era la brunetta. Ti ha fatto sdraiare, ti ha avvolto con un lenzuolo e una
coperta e ha cominciato a spingere la lettiga lungo il corridoio, fino in fondo
dove c’era l’ascensore. Siete scesi al piano di sotto e avete raggiunto il
laboratorio. Appena dentro hai avuto un sussulto, la brunetta era lì, impegnata
a sterilizzare degli strumenti. Quando l’altra infermiera le ha detto di
spostarsi perché doveva condurti in sala operatoria, lei si è girata, ti ha
guardato e ti ha riconosciuto. Hai appena fatto in tempo ad ascoltare il suo,
Non si preoccupi che dopo la riporto su io in camera, che l’anestesista ti ha
chiesto come stavi.
Ti sei svegliato che eri
di nuovo sulla barella. La brunetta ti stava infilando dentro all’ascensore.
Appena si è accorta che avevi gli occhi aperti, ti ha detto, Coraggio, si
svegli che l’operazione è finita. Tu, che non avevi mai subito un’anestesia in
vita tua, ti sentivi imbrogliato, avevi paura che la confusione che avvertivi
in testa fosse la spia di un qualcosa di irreparabile che doveva essere
accaduto durante la narcosi. Hai guardato la brunetta cercando una messa a
fuoco che si è subito rivelata problematica. Posso dirti una cosa?, le hai
chiesto. E poi, senza aspettare la sua risposta, Sei bellissima. E glielo hai
detto non perché lo credessi, la brunetta è caruccia, persino bellina, ma
niente più. Non glielo hai detto neppure perché un’occasione del genere non ti
sarebbe capitata mai più. Glielo hai detto semplicemente perché è stata la
prima persona che hai visto dopo avere ripreso i sensi, e ti è sembrata una
fata, una fata sorridente che con la sua bacchetta magica ti aveva riportato in
vita. La brunetta, che passava due giorni alla settimana a trascinare su e giù
operandi e operati e in questo continuo saliscendi aveva sentito cose da non
stupirsi più di niente, si era schernita quanto bastava, ti aveva guardato, Ma
cosa dice?, aveva detto. Poi, mentre tu avevi chiuso gli occhi per cercare di
allontanare il dolore che si stava risvegliando insieme al tuo corpo, ti aveva
fissato a lungo e, Grazie, ti aveva sussurrato, accompagnando le parole con una
leggera carezza della mano su quella tua guancia ruvida per l’età e ispida per
la barba di due giorni.
Tre settimane dopo
l’intervento, i medici ti hanno convocato per riferirti i risultati dell’esame
istologico. Erano in due, quello che ti aveva operato e un altro che non avevi
mai visto prima. Hanno cominciato con un, Purtroppo, che ti ha fatto subito
capire tutto. Il tumore era maligno ed era ancora più esteso di quanto si fosse
rivelato agli esami. Bisognava aggredire subito il male con delle instillazioni
vescicali, una volta a settimana per otto settimane. I tessuti della vescica
erano solo parzialmente compromessi per cui non sarebbe stato necessario un
nuovo intervento prima di un paio di anni. Nel frattempo, però, ogni tre mesi
era meglio fare un controllo con il cistoscopio. Raramente questi tumori
avevano un esito terminale. Certo, avresti dovuto smettere di fumare, di bere
alcolici, e avresti anche dovuto cambiare mestiere. Però, con le cure giuste e
un po’ di fortuna, più avanti nel tempo, non sarebbe neppure stato necessario
asportarti del tutto la vescica e sostituirla con una protesi.
Dopo avere ascoltato le
parole dei dottori, sei andato a cercare la brunetta, al piano di sotto. L’hai
trovata quasi subito. Ti ha detto di aspettarla nell’atrio delle scale, che
sarebbe venuta a parlare con te. Sei rimasto solo per una decina di minuti.
Quando ti ha raggiunto, le hai raccontato quello che ti avevano detto i
dottori. Lei ti ha abbracciato forte sussurrandoti nell’orecchio che non era
poi così grave, che con un po’ di pazienza e un altro po’ di fortuna non
sarebbe stato quel male a ucciderti. Mentre la brunetta continuava ad
abbracciarti e tu sentivi che il suo odore stava come anestetizzandoti il
dolore, hai avvertito una fortissima sensazione di caldo all’inguine. Era
troppo piacevole per essere un nuovo sintomo della malattia. Finalmente ti sei
reso conto che stavi eiaculando. Non te n’eri accorto subito perché non avevi
avvertito contrazioni alla base del pene. Più che sprizzare, lo sperma
scivolare fuori, adagio, morbido, senza forza né fretta, come un filo d’olio
che scende lungo il collo di una bottiglia. Era una sensazione incompiuta, di
un piacere che non trova felicità. Per un attimo ti aveva riportato alla
memoria le prime esuberanti polluzioni di quando eri ragazzo e ti svegliavi nel
cuore della notte con il pigiama fradicio di umori misteriosi, poi invece una
certezza diversa si è impadronita della tua vacillante coscienza. Era così che
la linfa vitale doveva abbandonare un corpo alla fine del proprio ciclo. Era
così che si cominciava a morire.
Ti sei staccato
dall’abbraccio della brunetta. Dal groviglio di emozioni che ti attanagliavano
la gola sei riuscito a estrarre soltanto una parola, Grazie. E sei andato
all’appuntamento con i tuoi pensieri di fantasma.
(Tratto dal libro Erano angeli,
edizione Fernandel, Ravenna, 1998)