NOI ANIMALI
Beppe Sebaste
Ho letto un libro
bellissimo e sorprendente, Dogwalker, i racconti di Arthur Bradford tradotti da
Einaudi. E’ quanto di più contemporaneo si possa aspettare da un autore, e
nello stesso tempo di più estraneo e inattuale rispetto alle mode letterarie:
storie di sobria compassione. Non so più che effetto avessero prodotto, al loro
primo apparire, i racconti di Raymond Carver sui poveri, sbandati, divorziati,
alcoolizzati, ovvero i suoi umani e troppo umani personaggi. I brevi racconti
di Bradford vanno oltre, perché con tono lieve e mai sentimentale narrano di
marginali e anonimi personaggi tanto reali quanto, spesso, oltre-umani: accanto
a ciechi, bambini poveri e caratteriali, vecchi, alcoolizzati, handicappati,
appaiono cani a tre zampe, gatti, molluschi, e ancora cani, tanti cani, nidiate
di cani che si intrecciano con gli umani (il mirabile ultimo racconto riserva
ulteriori sorprese). Non stupisce che il giovane autore abbia prestato servizio
per anni in centri per disabili, e tutto del suo universo narrativo sembra
voler aprire la categoria dell’umano a quella del semplice vivente
(dell’animale); allargando, con l’area della coscienza., quella della
storiabilità, di ciò che è degno di essere narrato. Nessun dubbio sul
potenziale politico di questi racconti che dicono la vita – la vita nuda –
nell’epoca della sua più forte e violenta discriminazione. Per questo iniziamo
salutando questo libro la nostra ricognizione sul tema dell’animale e del
vivente.
Vent’anni fa il filosofo Jean-François Lyotard, nella sua indagine su ”La
condizione post-moderna”, mostrava come l’economia della nostra società si
stesse muovendo nella direzione di una “logica del vivente”, ovvero una società
in cui la vita stessa di ciascun individuo diventa valore di mercato. Nel mondo
degli affari la parola d’ordine è da tempo “valore della vita” (lifetime value
o LTV) del cliente, cioè la misura teorica di quanto un essere umano potrebbe
valere se la sua esistenza, per l’intera sua durata, fosse trasformata in un
modo o nell’altro in merce e sottomessa alla sfera commerciale”. Esistono
perciò popolazioni umane, per esempio gli anziani, escluse dal circuito del
consumismo, e quindi dalla vita. Che sono fuori (tranne l’intrattenimento
televisivo che assicura “consenso” ai vari berlusconismi) dalla messa in valore
stabilita dalla nostra civiltà che ci ostiniamo a chiamare capitalista, ma per
la quale occorrerebbe ormai coniare un’altra parola. Una civiltà che, oltre a
clonare se stessa, incitare i ricchi alla rivolta contro i poveri,
cannibalizzare questi ultimi su scala planetaria (vedi il traffico di organi a
spese dei vari dannati della Terra), discrimina al proprio interno cosa sia
vita e cosa non lo sia. Ma la discriminazione originaria, matrice di ogni
altra, è quella che da secoli divide il vivente stabilendo il confine tra
l’umano e il non umano, ovvero l’animale.
Dove pure abbiamo portato
scompiglio.
Nella sua bellissima introduzione all’edizione francese dei Trattati sugli
animali di Plutarco, Elizabeth de Fontenay tematizzava dieci anni fa il
prodigio di noi contemporanei: “San Francesco d’Assisi aveva reso vegetariano
il lupo di Gubbio. Ma oggi è venuto il tempo di cui si dirà, tra le altre cose,
che fu quello delle mucche rese pazze per avere mangiato carne (…) Con questo
elevato atto di biurgia agronomica, consistito nell’abolire la frontiera tra
carnivori e ruminanti, abbiamo creato un po’ più di smarrimento sulla Terra…”.
La problematica - che è poi la biopolitica nel suo senso più preciso e
terribile – è anche più vasta. Dall’altra parte della partizione del vivente,
quella dell’”animale”, si sono di volta in volta trovate razze e etnie (neri,
ebrei…), oppure semplicemente “folli” o portatori di handicap (e donne,
bambini, etc.). Il tema è attuale. Non solo perché le storiche cronache di
Bartolomeo Las Casas – il frate domenicano che, unico in Europa, protestò nel
Cinquecento contro i massacri degli indios insinuando che anch’essi fossero
esseri umani – sembrano oggi commenti alla protervia della politica estera
occidentale e le sue guerre giuste. Non solo perché nel nostro paese è tutto un
pullulare di nazismi diffusi, dai proclami “padani” alla minacciata
soppressione della legge 180 per i malati di mente. Ma perché in generale,
nazismo hitleriano docet, ogni qual volta si presenta una chiusura all’alterità
dell’altro (come nella nostra politica dell’immigrazione) si apre la strada
alla soppressione violenta dell’alterazione degli altri - che sia handicap o
dissenso. L’animale è l’uomo, questa è la verità. La vita, quando è nuda e
offesa, non presenta dissomiglianze. Oggi, senza che i genocidi degli umani
siano mai davvero cessati, la sofferenza degli animali suscita una crescente
sensibilizzazione, a cui la tradizione filosofica e letteraria del Novecento
non è estranea. Ancora Elizabeth de Fontenay ne osservava le ambiguità, e che
ad esempio alla “zoofilia” nazista e al vegetarianesimo di Hitler corrispose
un’apprensione diffusa per la questione animale da parte di autori ebrei e
perseguitati (Kafka, Singer, Canetti, Horkheimer, Adorno). Iscrivendo con
insistenza l’animale nelle loro opere, in funzione di denuncia di
quell’umanesimo razionalista da cui discende il nazismo stesso, “vittime di
catastrofi storiche hanno presentito negli animali altre vittime, paragonabili
fino a un certo punto a se stessi e ai loro prossimi. Hanno fatto spazio, nella
loro scrittura, a quell’altro disastro che costituisce il paradosso della
modernità, e che consiste nella dismisura del dominio esercitato dall’uomo
sulla natura, su tutto ciò che è” (E. De Fontenay).
Un libro di cui ci siamo occupati di recente (Gilles Chatelet, Vivere e pensare
come porci) si apriva con una citazione da Gilles Deleuze e Felix Guattari, che
figurano peraltro tra i dedicatari di Chatelet in quanto “non hanno mai
accettato di vivere e pensare come porci”. Il brano prendeva criticamente in
esame “i diritti dell’uomo”, che “non dicono nulla sui modi di esistenza
immanenti dell’uomo provvisto di diritti”: “la vergogna d’essere uomo non la
proviamo soltanto nelle situazioni estreme descritte da Primo Levi, ma anche in
condizioni insignificanti, di fronte alla bassezza e alla volgarità che
pervadono le democrazie, di fronte alla propagazione di questi modi di
esistenza e di pensiero-per-il-mercato, di fronte ai valori, agli ideali e alle
opinioni della nostra epoca”. La conclusione dei filosofi evoca l’animale: “Non
siamo responsabili delle vittime, ma di fronte alle vittime. E per sfuggire
all’ignobile, non resta che fare come gli animali (ringhiare, scavare,
sogghignare, contorcersi): il pensiero stesso è talvolta più vicino all’animale
che muore che non all’uomo vivo, anche se democratico” (Che cos’è la
filosofia?, Einaudi 1996).
La frontiera tra umano e animale è oggi tornata all’attenzione del pensiero,
segnando anzi una delle zone di indistinzione tra filosofia e letteratura. Il
brano citato sopra ne ricorda altri analogamente intensi di Deleuze-Guattari
ispirati a Franz Kafka e ai suoi numerosi animali (parlanti, ringhianti,
canterini), portatori di una poetica dell’intensità dal potenziale critico e
sovversivo (osserviamo en passant che “intensità” significa esattamente
lavorare ai limiti estremi del linguaggio umano, caricandolo di una gravità che
dice più di quanto dice, ed evade dal concetto classico di rapprresentazione).
Si può pensare anche ai romanzi di Philip K. Dick, dove appaiono apesso animali
che parlano, ballano, suonano il flauto, magari a fianco di poliomelitici dai
doni divinatori. O a quel bellissimo brano in cui un Dio bambino impara la
sofferenza e la morte, e il sentimento del sublime, da un cane in agonia
schiacciato per strada (Divina invasione). O ai racconti di Arthur Bradford da
cui abbiamo preso le mosse.
Notiamo poi come l’animalità sia connessa con la vergogna. Il sentimento della
vergogna, che per Deleuze-Guattari “è uno dei temi più potenti della filosofia”,
ricorre in altre opere importanti del pensiero contemporaneo. Come la nausea,
l’angoscia e altri stati-limite, la vergogna indicherebbe quella frontiera
dell’umano, quell’aporia, che è a sua volta segnale di un desiderio di
“evasione dall’essere”, dalla condizione non solo umana ma ontologica. Emmanuel
Lévinas ne ha trattato più volte, a partire da uno scritto degli anni trenta,
Dell’evasione, e poi come sentimento capace di anelare all’infinito e
all’alterità, a ciò che non si può ridurre a idea o aspetto mentale, a ciò di
fronte al quale non possiamo più potere: l’epifania dell’altro. In questi
ultimi anni il filosofo Giorgio Agamben ha trattato la vergogna in relazione al
duplice processo di soggettivazione e de-soggetivazione alla cui analisi lo
hanno spinto gli scritti di Primo Levi e altre testimonianze dai campi di
sterminio: quelle scritte per i “Mussulmani”, nome riservato a chi si poneva ai
limiti estremi della sopravvivenza e fuori del linguaggio; o quelle dei
Sonderkommando, addetti ai compiti più miserabili. E’ il concetto stesso di
testimonianza, se assunto con rigore - scrive Agamben - a introdurre il tema
della de-soggettivazione, poiché il vero testimone è sempre l’altro, quello che
non sa testimoniare, e la testimonianza attesta questa drammatica lacuna – che
è ammutolimento o afasia. Tratti che, si noti, appaiono in tutti i discorsi
sull’animalità delle bestie, e che accomunano il tema dell’animale a quello
dell’in-fanzia.
E’ allora importante affiancare questa aporia (Agamben), questo stato psichico
debordante (Lévinas), e il concetto stesso di handicap, al tema dell’animale.
E’ del resto l’argomento delle ricerche di Agamben sulla “vita nuda” avviate
già in Homo sacer, ed esplicitamente dedicate nell’ultimo libro alla questione
animale. In L’aperto, sintomaticamente ignorato dalla critica italiana, il
filosofo dispiega un’affascinante e provocatoria fenomenologia dell’animalità,
e insieme una decostruzione della ”antropogenesi” - il processo culturale e
soprattutto politico che ha fatto sì che l’uomo e l’umano siano nella nostra
società considerati tali. La bio-politica, che fino a qualche anno fa solo
Michel Foucault portava all’attenzione degli storici della cultura, esiste da
sempre, non solo nel laboratori americani di genetica, e ha guidato in modo
decisivo ogni svolta della nostra vita e della nostra civiltà. La questione
dell’animalità, la sua distinzione dall’umano in un’epoca in cui la sofferenza
degli animali getta di riflesso molte ombre sui tanto proclamati diritti
dell’uomo, è ciò di cui vogliamo parlare in questo excursus con l’aiuto delle
opere di filosofi, teologi, scrittori.