GUSTO GIOVANIL-PICARESCO, MA CON
MANIERA
Patrizia Danzè
Che si stia creando una
“nuova” e stereotipata scrittura di perverso candore nella quale sullo sfondo
ingenuo del minimalismo si sciorina un soporifero autoreferenzialismo concentrato
sul sesso, lo teme Edoardo Sanguinetti e lo ha detto a Ricercare, il
Laboratorio di Nuove Scritture ideato nel ’93 da Nanni Balestrini e Renato
Barilli, svoltosi a Reggio Emilia dal 24 al 26 ottobre. Un perverso candore che
non esclude un buonismo e un epigonismo bozzettistico di maniera, ha aggiunto
Romano Luperini, assieme ad uno stile giovanil-picaresco che, secondo Barilli,
accomuna positivamente tutti gli autori presenti alla manifestazione. Anche in
questa edizione 2003 Ricercare ha comunque “laureato” nuovi narratori,
la cui abilità di produrre testi coerenti a tematiche moderne, al di là della
loro specificità geografica e anagrafica, costituisce la tessera di
appartenenza alla repubblica dei “giovani” scrittori. Perché in questo mercato delle
idee che è Ricercare sono passati, in dieci anni, più di
centocinquanta autori. Vanessa Amporecchio (Einaudi), Marco Baliani (Rizzoli),
Mario Cavatore (Einaudi), Giuseppe Goisis (Feltrinelli), Roberta Jarussi
(Palomar), Raffaela Krismer (Transeuropa), Aldo Nove (Einaudi), Marco Philopat
(Shake), Enrico Remmert (Marsilio), Marco Rossari (e/o), Maurizio Torchio
(Sironi), Francesco Tripodi (Derive-Approdi), Grazia Verasani (Fernandel), sono
stati scelti dal comitato tecnico costituito da Nanni Balestrini, Silvia
Ballestra, Renato Barilli, Giuseppe Caliceti, Enzo Golino e Giulio Mozzi, per
la lettura in anteprima di excerpta di testi che saranno pubblicati da case
editrici attente ai nuovi talenti. Tra tutti Aldo Nove costituisce un unicum,
con il suo coraggioso proporsi tra gli autori nuovi (Antonello Satta Centanin è
nato con Woobinda proprio in Ricercare del ’95) e una lettura
dal vivo di alcuni brevi racconti di prossima pubblicazione. Una verifica, ha
osservato Andrea Cortellessa, dell’evoluzione di un autore la cui scrittura,
erosa da un lavoro di scarnificazione, è entrata al momento giusto nel
paesaggio narrativo. Perché proprio negli stilemi di marionettizzazione del
protagonista del suo narrato, che si fa carico, con la sua maschera, di un
vissuto autentico, sta, secondo Cortellessa, l’evoluzione di Nove; e la visione
infantile del suo personaggio, al quale non manca una cattiveria di tipo
tozziano, ha osservato Luperini, si allarga sulla totalità del mondo, seppure
filtrato da un’ottica surreale ed onirica. Una cattiveria etica (per Cesari,
Nove è un grande moralista, degli anni Novanta, s’intende), che Luperini augura
a tutti i giovani di Ricercare, i cui testi, a parer suo, sono troppo
“buoni” per evocare tutto un mondo su cui si chiede un giudizio. A Ivano
Bariani, Chiara Cretella, Roberto Leoni, Silvia Zolfanelli, giovanissimi autori
selezionati e presentati da Ricercare, si chiede in sostanza un
maggiore rigore narrativo e un minore accesso nell’assunzione di mitologie
letterarie. Il metamorfismo mortuario del testo della Cretella, l’unico, a
parere di Cortellessa, che sia vicino alla poesia, va discusso alle radici,
perché, nonostante il dittico sesso/morte che ha affascinato Barilli, e quel
che Niva Lorenzini ha chiamato espressionismo spinto, e certo pathos recettivo
rilevato da Sanguinetti, non si distacca da una soggettività che parla
letteralmente a filosoficamente. Una maggiore geometrizzazione dei rapporti
sentimentali presentano invece i testi di Leoni e Bariani, quest’ultimo
giovanissimo e promettente narratore la cui scrittura comica e la grande
capacità d’immaginare alleggerisce, secondo Mozzi, un narrato difficile. Tra
gli interlocutori al dibattito, scrittori, giornalisti, critici letterari e
addetti all’editoria, come Roberto Carnero, Severino Cesari, Andrea
Cortellessa, Filippo La Porta, Niva Lorenzini, Romano Luperini, Giulio Mozzi,
Tommaso Ottonieri, Edoardo Sanguinetti, Domenico Scarpa, Reinhard Sauer, Nicola
Signorile, Michele Trecca, è, insomma, emersa apertamente un’impressione
comune, e cioè che non bisogna aspettarsi alcunché di stupefacente da questa
generazione di scrittori. E se è vero che quel che è letterario diventa il
filtro assorbente della realtà, e se la realtà è fatta oggi di giochi di parole
pubblicitarie, di messaggi in sms, spezzettati e singhiozzati, di allusività
scoperte, la scrittura si adegua. Tuttavia il corteggiamento di un nuovo sermo
cotidianus (mozzi ha parlato talora di “linguaggio da Gazzetta dello Sport”),
che si concretizza in un parlato paratattico e iterato, rischia anch’esso di
diventare esercizio di maniera, oppure eccesso, quando non ibrida citazioni
letterarie e filosofiche con stilemi martellanti e sovrabbondanze orrorose
neobarocche. Lamento o sfogo solipsistico, spesso non si guarda al di là del
proprio ombelico, per usare l’immaginoso eufemismo categoriale di Barilli; e
nello scialo del particolare non c’è denuncia, secondo Luperini, del totale,
giacché, sul modello della soup opera, il mondo viene concentrato in un “buco”,
un luogo che finisce per diventare un non luogo e per avere inevitabilmente
tutte le caratteristiche dei luoghi comuni. Ne è un esempio l’“aeroporto” del
brano di Grazia Verasani (testo, a parere di Barilli, di impianto scenico e
giocato sulla forzatura dei luoghi comuni), come la “cascina” di Giuseppe
Goisis, il cui narrato ha, però, una sua freschezza contadina (Trecca) e una
polifonia (Luperini), attraverso la quale si tenta di sforare lo spazio
circostante per affacciarsi su una realtà fatta di giovani, sesso, musica, droga,
occupazione, immigrazione. O la stanza d’ospedale del brano della palermitana
Amporecchio, che Scarpa definisce, apprezzandone il movimento di andata e
ritorno, di certosina pazienza autoscopica, e in cui si consuma una gravidanza
fallita, tematica squisitamente femminile ma trattata, secondo Sanguinetti, da
un punto di vista maschile nella visione preumana, o postumana che si voglia,
della innaturalità della vita e della morte, il punto di fuga delirante dal
luogo, come dal non luogo, si risolve, comunque, in percezioni traumatizzanti
registrate con scatti sintattici e narrativi sismografici che, ad esempio, in
Maurizio Torchio e Marco Philopat omogeneizzano quel che Barilli definisce un
perfetto minimalismo. Tra narratore ed “eroe”, sia esse “storico”, come il Mel
Gerbino di Philopat, o tipizzato, come lo Spartaco Capocefalo di Enrico
Remmert, emerge un divario ironico che accentua personaggi complessivamente
poco caratterizzati nei loro conflitti interni tra individuo e individuo, e
individuo e società, talmente impoveriti dalla macchiettizzazione (spia,
secondo Lorenzini, di una effettiva pochezza) da costruire un esempio di quel
che Sanguinetti ha definito un manierismo letterario patologico. Patologica e
autoreferenziale anche la corporalità che emerge da alcuni racconti, come nel
caso di Marco Rossari, che sulle orme di Bukowski e di Nick Carter, secondo
Signorile, punta, con lo stesso tipo di strafottenza di un personaggio che sta
dietro e fuori la scrittura, ad un’ironia che non ha senso, ad una fisicità
(ancora Lorenzini) che non sorprende più. O, come nel caso di Roberta Jarussi,
il cui testo, dal non più sostenibile perverso candore sanguinettiano, offre,
con precisione ginecologica, un’attenzione sofferta a quell’epica dell’io che
non prende la distanza dalla materia narrata. Ma è sufficiente che la
letteratura, per sorprenderci, apra nuove dimensioni del narrabile e, più
semplicemente, ricorra a tematiche comiche, bizzarre o singolare? Una scrittura
del comico diluita nell’ironico e costruita sul tormentone lessicale è quella
di Raffaela Krismer che, nel tono diaristico minimalista del suo testo, reso
leggero, secondo Domenico Scarpa, da un buon ritmo narrativo, punta più sul
gioco metaletterario e sul frastuono comunicativo anziché sulla provocazione
emotiva (Signorile e Carnero). Postumana e preumana, ma pur sempre una sorta di
epica dell’io, è la prova di Francesco Tripodi, un gioco di specchi scoperto
nel quale, a prescindere dal rimando alle problematiche postumana
avanguardistiche d’inizio Novecento, si rincorrono, a dire di Mozzi,
Palazzeschi, Gozzano, Maeterlink, Valery e un liberty morbosamente fiorito,
quasi a sostenere un testo metamorfico nel quale il post o preumano ha ancora
troppi appigli con la realtà umana. C’è qualcuno, tuttavia, che non si è
preoccupato di essere “nuovo”. Non lo è, anagraficamente parlando, Mario
Cavatore (Einaudi) autopresentatosi come un “absolute beginner di 56 anni), né
Marco Baliani (Rizzoli) che propongono testi “tradizionali” e “classici” anche
nel ritmo narrativo, con storie che forse si aprono ad una maggiore prospettiva
storica e rimandano il primo Sgorlon (con il tema affascinante dello zingaro) e
a Pasolini il secondo, con più di un riecheggiamento contenutistico e
dialettale. E tentano di proporre, secondo Cortellessa, cornici più ampie
attorno al testo, fattore di non secondaria importanza in un paesaggio
narrativo in cui i testi giovanili sembrano essere formattati sempre più per la
fiction. Se Ricercare anche in questa edizione ha laureato dei nuovi
narratori, ha premiato, per la prima volta, Mauro Covacich, per il suo A
perdifiato (Mondadori), autore passato, come gli altri finalisti Tullio
Avoledo, Rossana Campo, Umberto Casadei, Paolo Nori, Aurelio Picca, Tiziano
Scarpa e Simona Vinci , attraverso il suo Laboratorio. Un Ricercare,
dunque, cresciuto e che, forse, non può più pensare ad un lavoro che sia solo
italiano. La necessità della ricerca batte tuttavia contro la barriera della
lingua e involge un’altra questione, quella della ricezione della nuova
narrativa italiana all’estero, discussa durante la manifestazione in una tavola
rotonda in cui, presenti Kylee Doust, Paolo Fabbri, Giulio Mozzi, Enrico
Palandri, Reinhard Sauer, Viktoria von Schrach, non sono mancate le polemiche.
Che gli italiani abbiano dovuto tradurre, come diceva la De Staël, per farsi
largo nella letteratura europea, è indubbio (del resto, ha osservato
Sanguinetti, anche Dante è stato sempre “tradotto” in italiano), ma che oggi
traducano opere straniere più di quanto gli altri paesi facciano con i nostri
testi (c’è il mondo anglofono completamente sordo agli italiani tranne che ad
Eco) è una verità sotto gli occhi di tutti. Nel momento in cui l’editoria non
fa più cultura, ha ricordato Cortellessa, bisogna che rifletta proprio sul suo
rapporto col mercato. E per un Mozzi che confessa di non avere gran simpatia
per il mercato (bella ma pericolosa e da cardiopalmo la sua stessa avventura
editoriale), un Sanguinetti tuona che l’editoria non si esaurisce nella
letteratura né il mercato si esaurisce nelle opere vendute.
(Pubblicato originalmente sul supplemento
culturale Stilos del giornale La Sicilia, di Catania, del 7
Novembre 2003)