L’INTELLETTUALE COME AUTORITÀ MORALE
Michael Ignatieff
Ha scritto la storia del
suo paese e i dizionari dei suoi concittadini, ne ha redatto i manifesti contro
l’ingiustizia e gli appelli alla libertà. Campione dello scrittore in bolletta,
panflettista dal cappotto logoro, agitatore della piazza, aveva la reputazione
di mordere la mano che gli veniva tesa. I professori disprezzavano in lui il
dilettante, i preti detestavano il libero pensatore, i politici temevano il fomentatore
di disordini. Lui difendeva le cause perse ma non visse abbastanza per vederle
trionfare da vivo. La sua statua è sempre là nel parco, ma chi si ricorda
ancora di lui?
Quando Sartre muore, nell’aprile 1980, si chiude un capitolo che era iniziato
con la pubblicazione da parte di Voltaire, nel 1733, delle Lettere inglesi.
Altri pensatori l’avevano preceduto – ecclesiastici ed eruditi – ma fu Voltaire
a inventare la figura dell’intellettuale pubblico: il flagello della Chiesa, la
spina nel fianco dei principi, il frequentatore caustico dei saloni delle
nobildonne parigine.
Era l’indipendenza finanziaria e morale che dava all’ironia di Voltaire il suo
coraggio sprezzante. Oggi dove sono gli intellettuali indipendenti? Tra gli
onorati professori, tra i burocrati della cultura, tra gli abbindolatori di
folle e altri buffoni? La morte dell’intellettuale ha lasciato un vuoto nella
vita pubblica. L’opinione ha sostituito il pensiero, il giornalismo il
dibattito, i discorsi dei personaggi importanti hanno fatto tacere la polemica.
I britannici dicono di non amare gli intellettuali, eppure alcuni di quelli che
hanno segnato il XX secolo sono britannici. Da Beveridge a Orwell, da Tawney a
Keynes, da Russell a Isaiah Berlin, l’intellettuale pubblico ha forgiato le
idee che hanno aperto la via a una socialdemocrazia liberale. E quando la
socialdemocrazia è entrata in crisi, sono stati gli intellettuali – da
Friedrich Hayek a Milton Friedman – a fornire la dinamite per farla esplodere.
In maggioranza erano professori universitari che non cercavano l’ascolto di
qualche ricercatore ma quello di un pubblico più vasto. Il loro impatto è stato
in gran parte dovuto al trionfo della socialdemocrazia – soprattutto attraverso
la creazione di un servizio di diffusione pubblica che ha dato loro un podio da
cui esprimersi. È stato grazie alla Bbc – in particolare il terzo canale
radiofonico – che personaggi come J.B. Priestley, Stuart Hampshire, Freddie
Ayer, V.S. Pritchett, T.S. Eliot, Nikolaus Pevsner, E.H. Gombrich, Graham Greene
ed Elizabeth Bowen sono diventati famosi per le loro idee che nutrivano le
conversazioni del paese.
Il loro prestigio riposava su abitudini di riverenza culturale che oggi hanno
fatto il loro tempo. Ma per quanto deferente, era sempre una cultura pubblica.
La loro azione creava una corrispondenza importante con gli ascoltatori che
volevano confrontare le loro idee. Oggi i talk show dei divi della televisione
hanno rimpiazzato il dialogo pubblico, i seminari universitari hanno sostituito
le conferenze aperte al pubblico.
Per l’intellettuale del secolo dei lumi l’accademia era la morte dello spirito.
Il Dizionario della lingua inglese di Johnson e l’Encyclopédie di Diderot
furono grandi atti di trasmissione delle conoscenze. Il sapere che sonnecchiava
nei collegi e nelle biblioteche della Chiesa divenne accessibile a un nuovo
pubblico di borghesi. Il filosofo dell’epoca dei lumi scriveva per questi nuovi
lettori – spesso delle donne – creati dal mercato capitalista. Fondava così il
primo discorso pubblico laico della società civile.
La rivolta intellettuale contro i monopoli dell’élite del sapere condusse a una
vasta democratizzazione dell’intelletto. Oggi dobbiamo continuare ad avere fede
in questo ideale. La rivoluzione dell’informazione ha reso la funzione di
trasmissione dei saperi più importante che mai. Dobbiamo salvare il sapere dai
gerghi chiusi degli specialisti. Nel medioevo la nostra credulità si basava su
una mancanza d’informazione; oggi, invece, è dovuta a un eccesso
d’informazioni. Siamo a conoscenza di troppi dati, non ne capiamo abbastanza. E
quando volgiamo lo sguardo alle scienze sociali e umanistiche, cosa ci troviamo
davanti? I tenured-radicals, i "radicali di ruolo", i rappresentanti
di quella sinistra salita in cattedra dopo il 1968 e che avrebbe dovuto
liberare l’università dal funzionalismo conformista delle scienze sociali
americane. Invece hanno cominciato a erigere nuovi bastioni del conformismo: la
scolastica neomarxista, il decostruzionismo, la teoria critica – ciò a cui si
gioca quando si è abbandonato il dibattito pubblico.
Ecco qui un motivo di grande ironia. Nell’Europa del XVIII e XIX secolo,
l’intellettuale pubblico godeva di un prestigio che andava di pari passo con la
detenzione del monopolio quasi esclusivo dell’informazione. In una società come
la Russia, composta principalmente di analfabeti, l’intellighenzia
rappresentava una forza morale. Noi oggi abbiamo la società che gli
intellettuali sognavano: un accesso quasi universale all’istruzione secondaria
e superiore. Gli intellettuali hanno perso il loro monopolio del sapere – una
buona cosa – ma hanno anche perso la loro autorità morale. Hanno smesso di
esprimersi in maniera semplice davanti al grande pubblico, e questo ha
distrutto la loro influenza. La società non è mai stata tanto istruita, ma mai
come ora gli intellettuali hanno goduto di così scarso prestigio.
La riverenza intellettuale ha lasciato il posto a un populismo imbronciato che
considera sprezzante la maggior parte delle forme di vera autorità
intellettuale. Si pensava che la democratizzazione della cultura ne avrebbe
allargato il pubblico, invece ha alimentato una ripugnanza populista verso la
cultura medesima. Nel XIX secolo cultura era sinonimo di civilizzazione.
All’inizio del XXI secolo è un semplice simbolo, riconosciuto come un
importante marchio d’identità da parte di qualunque gruppo sociale. Il pubblico
vuole sapere: è una cosa buona? Durerà? Dobbiamo preoccuparcene? Storicamente
gli intellettuali hanno fatto della questione delle norme culturali il loro
dominio. Oggi tacciono, imbarazzati per il loro elitarismo, restii a rischiare
la loro reputazione difendendo i grandi e ridicolizzando le menti inferiori.
Un tempo gli intellettuali erano i custodi del linguaggio politico. Orwell
tessé il legame tra il linguaggio semplice del pubblico e la libertà stessa. La
condizione per la libertà democratica era la comprensione popolare: oggi sono
entrambe minacciate dal gergo dilagante di professori universitari, politici e
uomini d’affari.
Dal J’accuse di Émile Zola alla Lettera a Husak di Vaclav Havel, gli
intellettuali hanno utilizzato il potere delle parole per combattere
l’intimidazione e i pregiudizi. Oggi la voce di Havel si è spenta e, con essa,
il mito che incarnava rischia di essere dimenticato. È la Russia ad aver creato
il mito dell’intellettuale come autorità morale. Da Vissarion Belinskij, negli
anni 1840, ad Aleksandr Solzenitzyn, negli anni 1970, l’intellettuale ha
obbligato la coscienza russa ad affrontare le “dannate questioni” della sua
esistenza. Nel 1994 l’ultimo dei grandi intellettuali russi rientrò nel suo
paese dall’esilio solo per scoprire che una società di mercato non ha pazienza
per il saggio morale. Come il caso di Havel, il ritorno di Solzenitzyn ci dice
che un capitolo della storia intellettuale d’Europa è forse in procinto di
chiudersi.
Alcuni diranno che è inevitabile: gli intellettuali prosperano solo in mezzo
alla tirannia. Havel non ha mai avuto tanta autorità come quando il suo potere
era minimo. Solzenitzyn non è mai stato così incredibile come quando si è fatto
l’angelo vendicatore di tutti coloro che erano stati schiacciati dal comunismo.
La caduta del comunismo per gli intellettuali oggi è forse un motivo di
allegria, ma anche un motivo di perplessità. Perché il comunismo è stato fonte
di "grande narrazione", di grand récit. Ha raccontato al mondo in
quale direzione andava la Storia. Gli intellettuali sono gli operai delle
grandi narrazioni, senza di esse sono persi. Per quasi tutto il XX secolo gli
intellettuali si sono impegnati nella battaglia del grand récit tra comunismo e
capitalismo. Questa lotta ha dato un senso alla loro vita. Oggi l’unica grande
narrazione verte sul conflitto tra globalizzazione e particolarismo – tra le
forze della tecnologia, del capitale e della scienza che ci trascinano verso
l’uniformità globale, e le tradizioni di linguaggio, cultura, religione e
identità che conservano intatte le nostre differenze. Alcuni intellettuali sono
per la globalizzazione, ma la maggior parte di quelli affezionati alla sinistra
di ieri difendono il particolarismo, manifestando la loro opposizione a un
mondo dominato da McDonalds e Microsoft. Allo stesso tempo molti intellettuali
si apprestano a sacrificare la loro funzione storica, consistente nel difendere
l’universale contro la violenza e la chiusura associate agli estremismi
tribali, nazionali, etnici.
In ogni caso la grande narrazione – quella di un mondo globalizzato contro
comunità assediate – presenta una falsa antitesi. La globalizzazione opera alla
superficie dell’identità, mentre il particolarismo definisce ciò che risiede in
profondità e che, alla lunga, è molto più essenziale: le tradizioni della
nostra lingua e della nostra storia. Il cambiamento globale spazza via il volto
della terra, ma noi lo sperimentiamo da abbastanza tempo da sapere che non
laverà i significanti delle cinquemilaseicento lingue del nostro pianeta. Il
particolare è altrettanto tenace e ingegnoso del globale. Sembra anzi che
procediamo verso una ritribalizzazione: più la globalizzazione fa convergere le
nostre abitudini di consumo, più noi difendiamo i particolari che resistono.
L’altra grande narrazione a cui gli intellettuali potrebbero essere indotti a
contribuire è quella dell’unificazione dell’Europa. Questo continente è stato
unito nello spirito molto prima che fosse unificato dai burocrati: prima nella
comunità del diritto romano, poi nella fede condivisa della cristianità,
quindi, a partire dal 1750, nella repubblica delle lettere che riunì i filosofi
da Edimburgo a San Pietroburgo. Dal 1944 gli intellettuali europei hanno
avanzato l’idea che l’integrazione europea non dovesse essere lasciata ai
politici: è un’unità che deve essere costruita nelle menti e nei cuori, tramite
la cultura. Risultato? Oggi abbiamo un dibattito europeo interamente dominato
da banchieri, economisti e politici.
Il silenzio degli intellettuali a proposito dell’Europa fa parte di una crisi
più generale dell’autorità della tradizione intellettuale umanistica che
abbiamo ereditato da Voltaire. Perché, cosa sa esattamente un intellettuale?
Per definizione è un generalista più che uno specialista, un moralista più che
un tecnico. Quando il sapere era nelle mani di un’élite, l’intellettuale poteva
pretendere di sapere qualcosa in più rispetto alla maggior parte della società.
Era da questo monopolio che derivava il suo potere e la sua autorità morale. Ma
oggi?
Gli unici intellettuali che sono sfuggiti alla crisi di autorità sono gli
scienziati. Grazie alle brillanti divulgazioni della fisica, della genetica e
della chimica, lo scienziato gode di un prestigio intellettuale superiore a
qualunque uomo di lettere. Per un motivo semplice: gli scienziati sembrano
possedere delle conoscenze, anche se qualunque scienziato onesto sa
perfettamente che ciò che egli conosce è solo una minima parte del grande
enigma dell’universo. Ma non è questo sapere in sé che gli conferisce
un’autorità pubblica, bensì la sua padronanza del metodo scientifico.
L’applicabilità del metodo scientifico alle questioni di etica e di politica
pubblica, tuttavia, è tutt’altro che chiara. Chi demistificherà allora la
scienza? Gli scienziati credono di poterlo fare essi stessi, in quanto custodi
della loro professione. Ma in questo caso il pubblico è lasciato ai margini.
Chi parlerà allora per il pubblico? L’intellettuale indipendente, il
giornalista, lo scrittore, l’insegnante o il produttore televisivo mai come
adesso sono stati tanto indispensabili per separare il grano dal loglio, ma mai
come adesso sono tanto mancati.
(Tratto da La
scomparsa dei maîtres-à-penser, Rivista "Lettera
Internazionale", n°. 63, 2000)