LA VITA DELL’UMANITÀ INFAME
Alessandro De
Giorgi
Negli ultimi anni si è
diffuso, fra i sociologi della devianza meno allineati al discorso dominante
sull’insicurezza e la criminalità, un certo consenso attorno all’ipotesi che
nella società contemporanea sia pressoché impossibile riconoscere qualsiasi
confine certo tra “devianza” e “conformità”. Lo stesso universo di valori che
trasmette ai cittadini “normali” gli imperativi quotidiani del successo
personale, della competizione e del consumo sembra essere infatti pienamente
condiviso dai “criminali”, i quali dovrebbero al limite essere considerati i
depositari di un’interpretazione “autentica” dell’ideologia neoliberale.
L’impressione è che quanto più labile e sfumata diviene la distinzione fra
questi universi, tanto più si consolidino le logiche sicuritarie che
caratterizzano il presente: come se le retoriche di legge e ordine
e tolleranza zero fossero ormai l’unico linguaggio attraverso il quale
la società dei “regolari” riesce ancora a narrare se stessa e a rimarcare la
propria distanza dagli “irregolari” – criminali di strada, prostitute
straniere, immigrati clandestini. Si tratta di un linguaggio spesso intriso di
connotazioni discriminatorie, punitive e razziste, che risuona assordante nei
mezzi di comunicazione di massa e in alcune pubblicazioni “scientifiche”, come
anche nelle conversazioni quotidiane e nelle riunioni dei comitati di quartiere,
ma che singolarmente tace di fronte alle innumerevoli occasioni in cui i due
mondi, appunto quello “legale” e quello “illegale”, hanno modo di incontrarsi
per scambiare servizi, beni e “prestazioni” di vario genere. Insomma, le città
contemporanee – teatri quotidiani di una guerra a bassa intensità contro la
povertà e l’emarginazione in nome della sicurezza dei cittadini – celano un
vasto sottosuolo dove si consumano relazioni inconfessabili tra “cittadini per
bene” e “canaglie”.
Il fondamentale libro di Alessandro Dal Lago ed Emilio Quadrelli La città e
le ombre. Crimini, criminali, cittadini. (Feltrinelli, pp. 402, €
20) intraprende un lungo viaggio etnografico nei sotterranei di una città
portuale dell’Italia settentrionale. Rincorrendo le narrazioni di ladri,
usurai, prostitute, spacciatori, “serve” immigrate e gestori di bische
clandestine attraverso i vicoli, i quartieri, i bar e le “case chiuse” di
Genova, l’indagine si propone di gettare luce sulla vasta “zona grigia” che si
distende fra due città: da una parte quella visibile – ossessionata dal
degrado, in perenne mobilitazione contro l’“invasione” extracomunitaria,
ansiosa di organizzarsi in comitati spontanei – e dall’altra quella nascosta –
popolata di personaggi che vivono di espedienti, lottano per la sopravvivenza,
il più delle volte in condizioni di marginalità e povertà estreme: “la città
legittima pronuncia parole di sospetto verso quella illegittima, ma ricorre a
quest’ultima per un gran numero di servizi e di prestazioni: dal lavoro domestico
a quello in nero nei cantieri, dalla domanda dei vari tipi di prostituzione a
quella di stupefacenti, gioco d’azzardo o credito illegale”.
In questo “limbo sociale” avvengono incontri costanti tra due “mondi sociali
diversissimi” che “si sfiorano e coesistono senza che gli sguardi degli
abitanti di un mondo si soffermino sui frequentatori degli altri”. È evidente –
ci avvertono i due autori – che tra “regolari” ed “irregolari” non esiste
rapporto simmetrico: il dato più visibile di questa asimmetria degli scambi
consiste nel fatto che i primi detengono una facoltà di parola sistematicamente
negata ai secondi, il che assicura alla città legale la possibilità di
etichettare il proprio sottosuolo come un universo ripugnante di illegalità,
perversione e pericolosità sociale. ma nello scorrere le narrazioni che danno
corpo al lavoro di Dal Lago e Quadrelli si intuisce subito come l’imposizione
di questo silenzio svolga anche la funzione rassicurante di preservare il
“decoro” della città custodendo i segreti di tanti suoi cittadini “modello” –
stimati professionisti che pagano volentieri le prestazioni sessuali di
immigrati minorenni, impiegati insospettabili che prima di rincasare dal lavoro
non disdegnano i favori di prostitute straniere, giovani di buona famiglia che
frequentano abitualmente i pusher o tranquilli pensionati che
raccolgono scommesse clandestine. Le narrazioni che animano La città e le
ombre si articolano attraverso la storia recente della città di Genova e
ne ricostruiscono gli eventi attingendo a un sapere “illegale” troppo spesso
trascurato dalle scienze sociali. Le carriere criminali di rapinatori,
contrabbandieri, usurai e piccoli trafficanti intrecciano un universo deviante
che si evolve parallelamente alle trasformazioni della città legale – la crisi
del porto, la ristrutturazione industriale, l’esaurimento della cultura dei
quartieri, l’immigrazione. Fenomeni sociali che siamo abituati a interpretare
attraverso le statistiche – i mutamenti nei mercati della droga, i rapporti fra
microcriminalità e crimine organizzato, l’incidenza della prostituzione
straniera, i giri d’affari del gioco d’azzardo – diventano infine esperienze
narrabili, circostanze vissute che hanno lasciato un segno sulle biografie di
uomini e donne.
Gli autori decidono dunque di lasciar parlare quelle che Foucault definiva le
“vite degli uomini infami”: esistenze in sé prive di significato dal punto di
vista della società ufficiale, e destinate ad avere qualche visibilità solo nel
momento in cui i meccanismo di controllo sociale si soffermano su di esse per
allontanarle, metterle al bando e neutralizzarle. Parla la “serva” immigrata,
per dire che “una vera e propria paga no (...). Tanti vestiti e scarpe me li
passa la signora. Io me li aggiusto e sembrano nuovi, perché la signora compra
sempre delle cose belle”. O una prostituta africana, per svelarci che molti
clienti italiani “sono poi ossessionati dal confronto col maschio nero,
vogliono sentirsi dire che loro sono meglio, che sono più potenti dei neri”.
A tratti si ha dunque l’impressione che i racconti di questi personaggi
marchiati di “infamia” dalla morale corrente assumano il tono smaliziato di una
prolungata “soffiata” sui cittadini per bene, sulle loro perversioni,
meschinità e ipocrisie più o meno sottili. Ma ancora di più il quadro che ne
emerge ci consegna una “verità” densa di discriminazione, asservimento e
sopraffazione: una versione profondamente diversa da quella che la società
legittima racconta a sé stessa nel tentativo di occultare le proprie contraddizioni
più laceranti. Uomini e donne migranti ricostruiscono allora il razzismo, la
violenza, la schiavitù – sessuale, lavorativa, sociale – cui sono costantemente
esposti i “corpi a perdere” di chi si vede relegato in una condizione di
“latitanza sociale”. Attraverso le loro parole si comprende per esempio – con
efficacia sconosciuta a molte indagini sociologiche – quanto la condizione di
clandestinità sia in effetti funzionale allo sfruttamento senza limiti della
forza lavoro immigrata, e più in generale sino a che punto l’inferiorità dello
“straniero” in tutte le sembianze possibili sia divenuta condizione essenziale
per il mantenimento di un ordine sociale contraddittorio.
Anche a fronte di crude narrazioni delle violenze subite e delle
discriminazioni patite, comunque, l’immagine che queste biografie ci rimandano
è quella di “uomini e donne forse perduti, secondo la morale corrente, ma non
sempre perdenti”, ovvero consapevoli delle scelte compiute e capaci di
interpretarne attivamente le implicazioni – come nel caso della prostituta che
preferisce la strada all’unica alternativa disponibile della schiavitù
domestica; o del tossicodipendente che analizza con foucaultiana lucidità la
funzione del trattamento nella produzione di “regimi di verità” all’interno del
discorso medico-scientifico e della sua vocazione missionaria: “Tu sei uno che
si fa, punto. Il presupposto, identico per tutti gli specialisti, è che questo
è un problema (...) Stabilito e scontato che tu avevi dei problemi, ognuno
aveva la sua cavia su cui sperimentare un buon numero di teorie. Devi
accontentare tutti, senza scontentare nessuno (...) Se una è fissata che sei
così per un conflitto irrisolto con tua madre, non la puoi contraddire. Ma se
un altro pensa che il vero problema sia la tua omosessualità non confessata,
non lo puoi deludere (...) Non puoi farlo, perché tu esisti solo perché loro ti
fanno esistere. Loro sanno chi sei, tu no”.
La città e le ombre si colloca quindi bel oltre i confini di una pura
indagine etnografica, per addentrarsi decisamente nel territorio – oggi più che
mai denso di implicazioni politiche – dell’inchiesta. Muovendosi esplicitamente
nel solco tracciato quarant’anni fa da Danilo Montaldi con le sue Autobiografie
della leggera, gli autori ci sembrano infatti interpretarne il messaggio
più significativo: “Non è quindi separabile l’interesse per il modo d’esistere
e la cultura degli strati subalterni da una visione della società globale; e
dalla ricerca degli strumenti utili per la sua trasformazione”.
(Tratto da Il
manifesto del 21 Settembre 2003)