L'IPOTESI SAUDITA
In un lungo e sconcertante
articolo, basato su una ricerca e un'analisi impeccabili, pubblicato su Le Monde del 5 Ottobre, il giornalista
Ali Laïdi, uno dei massimi esperti mondiali di terrorismo, spiega perché,
secondo lui, gli attacchi al TWC dell'11 Settembre non siano stati direttamente
collegati all'organizzazione di Bin Laden, bensì a un gruppo estremista
saudita, lo Hezbollah-Golfo, capeggiato dall'ideologo dei "kamikaze"
islamici Salman al-Awdah, attualmente in carcere nel suo paese, e già
responsabile di altri precedenti attentati contro gli americani in Medio
Oriente, con i quali erano state provocate decine di morti.
A partire dai cognomi dei sequestratori dei Boeing, Ali Laïdi ha rintracciato
la loro origine - erano quasi tutti sauditi di circa una
trentina di anni, appartenenti a famiglie conosciute delle vecchie tribù del
Sud dell'Arabia, che sono state escluse dal potere sin dall'inizio della
attuale dinastia, e che, almeno dal 1979, combattono la presenza di truppe
americane in quella che considerano la Terra Santa. L'organizzazione, che
sarebbe assolutamente indipendente da Osama Bin Laden, è il braccio della Jihad
nella Penisola arabica. Secondo l'articolo, che si intitola "L'ipotesi
della pista saudita", gli USA sarebbero pienamente al corrente di questi
fatti, ma non potrebbero renderli pubblici, per il rischio di esasperare i
conflitti interni del suo più grande alleato nella regione - il loro
"perno economico", dopo che il "perno politico" tradizionale,
l'Iran, è stato perso per l'Aiatolah - e di danneggiare i loro interessi
strategici. Inoltre, gli USA hanno oggi niente meno che 25.000 studenti sauditi
che vivono nel loro territorio, e una tale rivelazione potrebbe causare un
problema interno drammatico. Così, sempre secondo il commentarista di Le Monde, la "versione Bin
Laden" sarebbe quella di comodo, quella più adatta al "consumo
esterno" e ai media, ma non necessariamente quella vera. Anche se due
giorni dopo, il 7 ottobre, via TV Al Jazeera, il sheiko ha fatto una parziale
rivendicazione degli attacchi dell'11 settembre.
ASIMMETRIA ASSOLUTA
Un commento dello scienziato politico brasiliano Emir Sader rilasciato al
Jornal do Brasil: "È iniziata la prima 'guerra asimmetrica',
caratterizzata non solo dalla radicale superiorità di forze - come già era
successo in Iraq e in Jugoslavia - ma anche dall'assenza di uno Stato
costituito come tale dall'altra parte. (...) Come questa guerra riflette il
mondo attuale? Da una parte, considerando soltanto le forze attualmente in conflitto,
esiste una ricchezza di almeno 48 mila miliardi di dollari, il PIL degli Stati
Uniti e dell'Inghilterra, e dall'altro il valore non supera gli 800 milioni di
dollari - 6.000 volte in più in favore dei primi, questo senza contare altri
fattori di superiorità (tecnologica, militare, di comunicazione). Dobbiamo
chiederci allora che mondo sia questo in cui una coalizione dei paesi più
ricchi e potenti si unisce per attaccare uno dei paesi più poveri e distrutti
del mondo. E anche se la schiacciante superiorità materiale potrà trasformarsi
in una qualsiasi vittoria politica e morale per le forze occidentali".
QUALCHE DISCORSO E CATTIVA LETTERATURA
Una riflessione della poetessa e
drammaturga Mia Lecomte; un testo speciale offerto ai lettori di questa nuova
sezione della Rivista:
"Quello che più mi ha impressionato del discorso di Bin Laden, al di là
delle minacce, è stata la sua efficacia. L'impatto di una retorica così nuova,
sobria, pacata nei toni a dispetto della gravità delle affermazioni, tanto diversa
da quella americana, piena di rumore (slogans, canti,urla) a nascondere il
vuoto di concetti e motivazioni, incisiva proprio per quell'elemento di novità
in contrapposizione a una retorica/immagine dell'America già logora, e per
questo spesso ridicola. Basti pensare alla "cattiva letteratura", da
produzione cinematografica da mercato video di terz'ordine, a cui purtroppo ci
siamo abituati tanto da non farci più caso, dimostrata nella scelta del nome
della campagna militare o dalle filastrocche nazional-popolari usate dallo
stesso presidente Bush a chiusura dei propri discorsi ("We will not waver,
we will not tire,we will not falter, and we will not fail. Peace and freedom
will prevail"!).
Mi sono domandata se la potenza emanata dalle parole di Bin Laden derivasse
proprio da questo elemento di novità, una veicolazione dell'informazione
diversa e francamente spiazzante, oppure se venisse dalle convinzioni che
stanno dietro ai contenuti, delle vere convinzioni ad alimentare dei veri
contenuti. Comunque, che sia per la forza delle ragioni o di una nuova
immagine, il discorso è stato molto "importante" e purtroppo in grado
di coinvolgere le forze arabe moderate.
La guerra Santa minacciata-in una logica dell'"occhio per occhio"
rinnovata, una ritrovata verginità del rapporto di causa-effetto- è poi contro
l'America (e Israele, e i Paesi Arabi non allineati), non l'Occidente, come per
motivi che si intuiscono continuano ad insistere gli Americani, e gli Europei
dovrebbero pensarci bene prima di farsi mettere in guai che potrebbero non
vederli coinvolti, tirati per i capelli dagli errori degli altri. Lunedì, l'8
Ottobre, sul Corriere della Sera è uscito un bellissimo articolo di Tiziano
Terzani in risposta a quello della Fallaci. Credo proprio che valga la pena di
leggerlo."
Riportiamo integralmente l'intervento di
Tiziano Terzani - una risposta al polemico testo di Oriana Fallaci - a cui fa
riferimento Mia Lecomte:
Il Sultano e San Francesco
Oriana, dalla finestra di una casa poco lontana da quella in cui anche tu sei
nata, guardo le lame austere ed eleganti dei cipressi contro il cielo e ti
penso a guardare, dalle tue finestre a New York, il panorama dei grattacieli da
cui ora mancano le Torri Gemelle. Mi torna in mente un pomeriggio di tanti,
tantissimi anni fa quando assieme facemmo una lunga passeggiata per le stradine
di questi nostri colli argentati dagli ulivi. Io mi affacciavo, piccolo, alla
professione nella quale tu eri già grande e tu proponesti di scambiarci delle
«Lettere da due mondi diversi»: io dalla Cina dell’immediato dopo-Mao in cui
andavo a vivere, tu dall’America. Per colpa mia non lo facemmo. Ma è in nome di
quella tua generosa offerta di allora, e non certo per coinvolgerti ora in una
corrispondenza che tutti e due vogliamo evitare, che mi permetto di scriverti.
Davvero mai come ora, pur vivendo sullo stesso pianeta, ho l’impressione di
stare in un mondo assolutamente diverso dal tuo.
Ti scrivo anche - e pubblicamente per questo - per non far sentire troppo soli
quei lettori che forse, come me, sono rimasti sbigottiti dalle tue invettive,
quasi come dal crollo delle due Torri. Là morivano migliaia di persone e con
loro il nostro senso di sicurezza; nelle tue parole sembra morire il meglio
della testa umana - la ragione; il meglio del cuore - la compassione.
Il tuo sfogo mi ha colpito, ferito e mi ha fatto pensare a Karl Kraus. «Chi ha
qualcosa da dire si faccia avanti e taccia», scrisse, disperato dal fatto che,
dinanzi all’indicibile orrore della Prima Guerra Mondiale, alla gente non si fosse
paralizzata la lingua. Al contrario, gli si era sciolta, creando tutto attorno
un assurdo e confondente chiacchierio. Tacere per Kraus significava riprendere
fiato, cercare le parole giuste, riflettere prima di esprimersi. Lui usò di
quel consapevole silenzio per scrivere Gli ultimi giorni dell’umanità, un’opera
che sembra essere ancora di un’inquietante attualità.
Pensare quel che pensi e scriverlo è un tuo diritto. Il problema è però che,
grazie alla tua notorietà, la tua brillante lezione di intolleranza arriva ora
anche nelle scuole, influenza tanti giovani e questo mi inquieta.
Il nostro di ora è un momento di straordinaria importanza. L’orrore indicibile
è appena cominciato, ma è ancora possibile fermarlo facendo di questo momento
una grande occasione di ripensamento. È un momento anche di enorme
responsabilità perché certe concitate parole, pronunciate dalle lingue sciolte,
servono solo a risvegliare i nostri istinti più bassi, ad aizzare la bestia
dell’odio che dorme in ognuno di noi ed a provocare quella cecità delle
passioni che rende pensabile ogni misfatto e permette, a noi come ai nostri
nemici, il suicidarsi e l’uccidere.
«Conquistare le passioni mi pare di gran lunga più difficile che conquistare il
mondo con la forza delle armi. Ho ancora un difficile cammino dinanzi a me»,
scriveva nel 1925 quella bell’anima di Gandhi. Ed aggiungeva: «Finché l’uomo
non si metterà di sua volontà all’ultimo posto fra le altre creature sulla
terra, non ci sarà per lui alcuna salvezza».
E tu, Oriana, mettendoti al primo posto di questa crociata contro tutti quelli
che non sono come te o che ti sono antipatici, credi davvero di offrirci
salvezza? La salvezza non è nella tua rabbia accalorata, né nella calcolata
campagna militare chiamata, tanto per rendercela più accettabile, «Libertà
duratura». O tu pensi davvero che la violenza sia il miglior modo per
sconfiggere la violenza? Da che mondo è mondo non c’è stata ancora la guerra
che ha messo fine a tutte le guerre. Non lo sarà nemmen questa.
Quel che ci sta succedendo è nuovo. Il mondo ci sta cambiando attorno. Cambiamo
allora il nostro modo di pensare, il nostro modo di stare al mondo. È una
grande occasione. Non perdiamola: rimettiamo in discussione tutto,
immaginiamoci un futuro diverso da quello che ci illudevamo d’aver davanti
prima dell’11 settembre e soprattutto non arrendiamoci alla inevitabilità di
nulla, tanto meno all’inevitabilità della guerra come strumento di giustizia o
semplicemente di vendetta.
Le guerre sono tutte terribili. Il moderno affinarsi delle tecniche di
distruzione e di morte le rendono sempre più tali. Pensiamoci bene: se noi
siamo disposti a combattere la guerra attuale con ogni arma a nostra
disposizione, compresa quella atomica, come propone il Segretario alla Difesa
americano, allora dobbiamo aspettarci che anche i nostri nemici, chiunque essi
siano, saranno ancor più determinati di prima a fare lo stesso, ad agire senza
regole, senza il rispetto di nessun principio. Se alla violenza del loro
attacco alle Torri Gemelle noi risponderemo con una ancor più terribile
violenza - ora in Afghanistan, poi in Iraq, poi chi sa dove -, alla nostra ne
seguirà necessariamente una loro ancora più orribile e poi un’altra nostra e
così via.
Perché non fermarsi prima? Abbiamo perso la misura di chi siamo, il senso di
quanto fragile ed interconnesso sia il mondo in cui viviamo, e ci illudiamo di
poter usare una dose, magari «intelligente», di violenza per mettere fine alla
terribile violenza altrui. Cambiamo illusione e, tanto per cominciare, chiediamo
a chi fra di noi dispone di armi nucleari, armi chimiche e armi batteriologice
- Stati Uniti in testa - d’impegnarsi solennemente con tutta l’umanità a non
usarle mai per primo, invece di ricordarcene minacciosamente la disponibilità.
Sarebbe un primo passo in una nuova direzione. Non solo questo darebbe a chi lo
fa un vantaggio morale - di per sé un’arma importante per il futuro -, ma
potrebbe anche disinnescare l’orrore indicibile ora attivato dalla reazione a
catena della vendetta.
In questi giorni ho ripreso in mano un bellissimo libro (peccato che non sia
ancora in italiano) di un vecchio amico, uscito due anni fa in Germania. Il
libro si intitola Die Kunst, nicht regiert zu werde n: ethische Politik von
Sokrates bis Mozart ( L’arte di non essere governati: l’etica politica da
Socrate a Mozart ). L’autore è Ekkehart Krippendorff, che ha insegnato per anni
a Bologna prima di tornare all’Università di Berlino. La affascinante tesi di
Krippendorff è che la politica, nella sua espressione più nobile, nasce dal
superamento della vendetta e che la cultura occidentale ha le sue radici più
profonde in alcuni miti, come quello di Caino e quello delle Erinni, intesi da
sempre a ricordare all’uomo la necessità di rompere il circolo vizioso della
vendetta per dare origine alla civiltà. Caino uccide il fratello, ma Dio
impedisce agli uomini di vendicare Abele e, dopo aver marchiato Caino - un
marchio che è anche una protezione -, lo condanna all’esilio dove quello fonda
la prima città. La vendetta non è degli uomini, spetta a Dio.
Secondo Krippendorff il teatro, da Eschilo a Shakespeare, ha avuto una funzione
determinante nella formazione dell’uomo occidentale perché col suo mettere
sulla scena tutti i protagonisti di un conflitto, ognuno col suo punto di
vista, i suoi ripensamenti e le sue possibili scelte di azione, il teatro è
servito a far riflettere sul senso delle passioni e sulla inutilità della
violenza che non raggiunge mai il suo fine.
Purtroppo, oggi, sul palcoscenico del mondo noi occidentali siamo insieme i
soli protagonisti ed i soli spettatori, e così, attraverso le nostre
televisioni ed i nostri giornali, non ascoltiamo che le nostre ragioni, non
proviamo che il nostro dolore.
A te, Oriana, i kamikaze non interessano. A me tanto invece. Ho passato giorni
in Sri Lanka con alcuni giovani delle «Tigri Tamil», votati al suicidio. Mi
interessano i giovani palestinesi di «Hamas» che si fanno saltare in aria nelle
pizzerie israeliane. Un po’ di pietà sarebbe forse venuta anche a te se in
Giappone, sull’isola di Kyushu, tu avessi visitato Chiran, il centro dove i
primi kamikaze vennero addestrati e tu avessi letto le parole, a volte poetiche
e tristissime, scritte segretamente prima di andare, riluttanti, a morire per
la bandiera e per l’Imperatore. I kamikaze mi interessano perché vorrei capire
che cosa li rende così disposti a quell’innaturale atto che è il suicidio e che
cosa potrebbe fermarli. Quelli di noi a cui i figli - fortunatamente - sono
nati, si preoccupano oggi moltissimo di vederli bruciare nella fiammata di
questo nuovo, dilagante tipo di violenza di cui l’ecatombe nelle Torri Gemelle
potrebbe essere solo un episodio. Non si tratta di giustificare, di condonare,
ma di capire. Capire, perché io sono convinto che il problema del terrorismo
non si risolverà uccidendo i terroristi, ma eliminando le ragioni che li
rendono tali.
Niente nella storia umana è semplice da spiegare e fra un fatto ed un altro c’è
raramente una correlazione diretta e precisa. Ogni evento, anche della nostra
vita, è il risultato di migliaia di cause che producono, assieme a
quell’evento, altre migliaia di effetti, che a loro volta sono le cause di
altre migliaia di effetti. L’attacco alle Torri Gemelle è uno di questi eventi:
il risultato di tanti e complessi fatti antecedenti. Certo non è l’atto di «una
guerra di religione» degli estremisti musulmani per la conquista delle nostre
anime, una Crociata alla rovescia, come la chiami tu, Oriana. Non è neppure «un
attacco alla libertà ed alla democrazia occidentale», come vorrebbe la
semplicistica formula ora usata dai politici.
Un vecchio accademico dell’Università di Berkeley, un uomo certo non sospetto
di anti-americanismo o di simpatie sinistrorse dà di questa storia una
interpretazione completamente diversa. «Gli assassini suicidi dell’11 settembre
non hanno attaccato l’America: hanno attaccato la politica estera americana»,
scrive Chalmers Johnson nel numero di The Nation del 15 ottobre. Per lui,
autore di vari libri - l’ultimo, Blowback , contraccolpo, uscito l’anno scorso
(in Italia edito da Garzanti ndr ) ha del profetico - si tratterebbe appunto di
un ennesimo «contraccolpo» al fatto che, nonostante la fine della Guerra Fredda
e lo sfasciarsi dell’Unione Sovietica, gli Stati Uniti hanno mantenuto intatta
la loro rete imperiale di circa 800 installazioni militari nel mondo.
Con una analisi che al tempo della Guerra Fredda sarebbe parsa il prodotto
della disinformazione del Kgb, Chalmers Johnson fa l’elenco di tutti gli
imbrogli, complotti, colpi di Stato, delle persecuzioni, degli assassinii e
degli interventi a favore di regimi dittatoriali e corrotti nei quali gli Stati
Uniti sono stati apertamente o clandestinamente coinvolti in America Latina, in
Africa, in Asia e nel Medio Oriente dalla fine della Seconda Guerra Mondiale ad
oggi.
Il «contraccolpo» dell’attacco alle Torri Gemelle ed al Pentagono avrebbe a che
fare con tutta una serie di fatti di questo tipo: fatti che vanno dal colpo di
Stato ispirato dalla Cia contro Mossadeq nel 1953, seguito dall’installazione
dello Shah in Iran, alla Guerra del Golfo, con la conseguente permanenza delle
truppe americane nella penisola araba, in particolare l’Arabia Saudita dove
sono i luoghi sacri dell’Islam.
Secondo Johnson sarebbe stata questa politica americana «a convincere tanta
brava gente in tutto il mondo islamico che gli Stati Uniti sono un implacabile
nemico». Così si spiegherebbe il virulento anti-americanismo diffuso nel mondo
musulmano e che oggi tanto sorprende gli Stati Uniti ed i loro alleati. Esatta
o meno che sia l’analisi di Chalmers Johnson, è evidente che al fondo di tutti
i problemi odierni degli americani e nostri nel Medio Oriente c’è, a parte la
questione israeliano-palestinese, la ossessiva preoccupazione occidentale di
far restare nelle mani di regimi «amici», qualunque essi fossero, le riserve
petrolifere della regione. Questa è stata la trappola. L’occasione per uscirne
è ora.
Perché non rivediamo la nostra dipendenza economica dal petrolio? Perché non
studiamo davvero, come avremmo potuto già fare da una ventina d’anni, tutte le
possibili fonti alternative di energia? Ci eviteremmo così d’essere coinvolti
nel Golfo con regimi non meno repressivi ed odiosi dei talebani; ci eviteremmo
i sempre più disastrosi «contraccolpi» che ci verranno sferrati dagli oppositori
a quei regimi, e potremmo comunque contribuire a mantenere un migliore
equilibrio ecologico sul pianeta. Magari salviamo così anche l’Alaska che
proprio un paio di mesi fa è stata aperta ai trivellatori, guarda caso dal
presidente Bush, le cui radici politiche - tutti lo sanno - sono fra i
petrolieri.
A proposito del petrolio, Oriana, sono certo che anche tu avrai notato come,
con tutto quel che si sta scrivendo e dicendo sull’Afghanistan, pochissimi
fanno notare che il grande interesse per questo paese è legato al fatto
d’essere il passaggio obbligato di qualsiasi conduttura intesa a portare le
immense risorse di metano e petrolio dell’Asia Centrale (vale a dire di quelle
repubbliche ex-sovietiche ora tutte, improvvisamente, alleate con gli Stati Uniti)
verso il Pakistan, l’India e da lì nei paesi del Sud Est Asiatico. Il tutto
senza dover passare dall’Iran. Nessuno in questi giorni ha ricordato che,
ancora nel 1997, due delegazioni degli «orribili» talebani sono state ricevute
a Washington (anche al Dipartimento di Stato) per trattare di questa faccenda e
che una grande azienda petrolifera americana, la Unocal, con la consulenza
niente di meno che di Henry Kissinger, si è impegnata col Turkmenistan a
costruire quell’oleodotto attraverso l’Afghanistan. È dunque possibile che,
dietro i discorsi sulla necessità di proteggere la libertà e la democrazia,
l’imminente attacco contro l’Afghanistan nasconda anche altre considerazioni
meno altisonanti, ma non meno determinanti.
È per questo che nell’America stessa alcuni intellettuali cominciano a
preoccuparsi che la combinazione fra gli interessi dell’industria petrolifera
con quelli dell’industria bellica - combinazione ora prominentemente
rappresentata nella compagine al potere a Washington - finisca per determinare
in un unico senso le future scelte politiche americane nel mondo e per limitare
all’interno del paese, in ragione dell’emergenza anti-terrorismo, i margini di
quelle straordinarie libertà che rendono l’America così particolare.
Il fatto che un giornalista televisivo americano sia stato redarguito dal
pulpito della Casa Bianca per essersi chiesto se l’aggettivo «codardi», usato
da Bush, fosse appropriato per i terroristi-suicidi, così come la censura di
certi programmi e l’allontanamento da alcuni giornali, di collaboratori
giudicati non ortodossi, hanno aumentato queste preoccupazioni.
L’aver diviso il mondo in maniera - mi pare - «talebana», fra «quelli che
stanno con noi e quelli contro di noi», crea ovviamente i presupposti per quel
clima da caccia alle streghe di cui l’America ha già sofferto negli anni
Cinquanta col maccartismo, quando tanti intellettuali, funzionari di Stato ed
accademici, ingiustamente accusati di essere comunisti o loro simpatizzanti,
vennero perseguitati, processati e in moltissimi casi lasciati senza lavoro.
Il tuo attacco, Oriana - anche a colpi di sputo - alle «cicale» ed agli
intellettuali «del dubbio» va in quello stesso senso. Dubitare è una funzione
essenziale del pensiero; il dubbio è il fondo della nostra cultura. Voler
togliere il dubbio dalle nostre teste è come volere togliere l’aria ai nostri
polmoni. Io non pretendo affatto d’aver risposte chiare e precise ai problemi
del mondo (per questo non faccio il politico), ma penso sia utile che mi si
lasci dubitare delle risposte altrui e mi si lasci porre delle oneste domande.
In questi tempi di guerra non deve essere un crimine parlare di pace.
Purtroppo anche qui da noi, specie nel mondo «ufficiale» della politica e
dell’establishment mediatico, c’è stata una disperante corsa alla ortodossia. È
come se l’America ci mettesse già paura. Capita così di sentir dire in
televisione a un post-comunista in odore di una qualche carica nel suo partito,
che il soldato Ryan è un importante simbolo di quell’America che per due volte
ci ha salvato. Ma non c’era anche lui nelle marce contro la guerra americana in
Vietnam?
Per i politici - me ne rendo conto - è un momento difficilissimo. Li capisco e
capisco ancor più l’angoscia di qualcuno che, avendo preso la via del potere
come una scorciatoia per risolvere un piccolo conflitto di interessi terreni si
ritrova ora alle prese con un enorme conflitto di interessi divini, una guerra
di civiltà combattuta in nome di Iddio e di Allah. No. Non li invidio, i
politici.
Siamo fortunati noi, Oriana. Abbiamo poco da decidere e non trovandoci in mezzo
ai flutti del fiume, abbiamo il privilegio di poter stare sulla riva a guardare
la corrente. Ma questo ci impone anche grandi responsabilità come quella, non
facile, di andare dietro alla verità e di dedicarci soprattutto «a creare campi
di comprensione, invece che campi di battaglia», come ha scritto Edward Said,
professore di origine palestinese ora alla Columbia University, in un saggio
sul ruolo degli intellettuali uscito proprio una settimana prima degli
attentati in America.
Il nostro mestiere consiste anche nel semplificare quel che è complicato. Ma
non si può esagerare, Oriana, presentando Arafat come la quintessenza della
doppiezza e del terrorismo ed indicando le comunità di immigrati musulmani da
noi come incubatrici di terroristi. Le tue argomentazioni verranno ora usate
nelle scuole contro quelle buoniste, da libro Cuore , ma tu credi che gli
italiani di domani, educati a questo semplicismo intollerante, saranno
migliori?
Non sarebbe invece meglio che imparassero, a lezione di religione, anche che
cosa è l’Islam? Che a lezione di letteratura leggessero anche Rumi o il da te
disprezzato Omar Kayan? Non sarebbe meglio che ci fossero quelli che studiano
l’arabo, oltre ai tanti che già studiano l’inglese e magari il giapponese? Lo
sai che al ministero degli Esteri di questo nostro paese affacciato sul
Mediterraneo e sul mondo musulmano, ci sono solo due funzionari che parlano
arabo? Uno attualmente è, come capita da noi, console ad Adelaide in Australia.
Mi frulla in testa una frase di Toynbee: «Le opere di artisti e letterati hanno
vita più lunga delle gesta di soldati, di statisti e mercanti. I poeti ed i
filosofi vanno più in là degli storici. Ma i santi e i profeti valgono di più
di tutti gli altri messi assieme».
Dove sono oggi i santi ed i profeti? Davvero, ce ne vorrebbe almeno uno! Ci
rivorrebbe un San Francesco. Anche i suoi erano tempi di crociate, ma il suo
interesse era per «gli altri», per quelli contro i quali combattevano i crociati.
Fece di tutto per andarli a trovare. Ci provò una prima volta, ma la nave su
cui viaggiava naufragò e lui si salvò a malapena. Ci provò una seconda volta,
ma si ammalò prima di arrivare e tornò indietro. Finalmente, nel corso della
quinta crociata, durante l’assedio di Damietta in Egitto, amareggiato dal
comportamento dei crociati («vide il male ed il peccato»), sconvolto da una
spaventosa battaglia di cui aveva visto le vittime, San Francesco attraversò le
linee del fronte. Venne catturato, incatenato e portato al cospetto del
Sultano. Peccato che non c’era ancora la Cnn - era il 1219 - perché sarebbe
interessantissimo rivedere oggi il filmato di quell’incontro. Certo fu
particolarissimo perché, dopo una chiacchierata che probabilmente andò avanti nella
notte, al mattino il Sultano lasciò che San Francesco tornasse, incolume,
all’accampamento dei crociati.
Mi diverte pensare che l’uno disse all’altro le sue ragioni, che San Francesco
parlò di Cristo, che il Sultano lesse passi del Corano e che alla fine si
trovarono d’accordo sul messaggio che il poverello di Assisi ripeteva ovunque:
«Ama il prossimo tuo come te stesso». Mi diverte anche immaginare che, siccome
il frate sapeva ridere come predicare, fra i due non ci fu aggressività e che
si lasciarono di buon umore sapendo che comunque non potevano fermare la
storia.
Ma oggi? Non fermarla può voler dire farla finire. Ti ricordi, Oriana, Padre
Balducci che predicava a Firenze quando noi eravamo ragazzi? Riguardo
all’orrore dell’olocausto atomico pose una bella domanda: «La sindrome da fine
del mondo, l’alternativa fra essere e non essere, hanno fatto diventare l’uomo
più umano?». A guardarsi intorno la risposta mi pare debba essere «No». Ma non
possiamo rinunciare alla speranza.
«Mi dica, che cosa spinge l’uomo alla guerra?», chiedeva Albert Einstein nel
1932 in una lettera a Sigmund Freud. «È possibile dirigere l’evoluzione
psichica dell’uomo in modo che egli diventi più capace di resistere alla
psicosi dell’odio e della distruzione?» Freud si prese due mesi per
rispondergli. La sua conclusione fu che c’era da sperare: l’influsso di due
fattori - un atteggiamento più civile, ed il giustificato timore degli effetti
di una guerra futura - avrebbe dovuto mettere fine alle guerre in un prossimo
avvenire.
Giusto in tempo la morte risparmiò a Freud gli orrori della Seconda Guerra
Mondiale. Non li risparmiò invece ad Einstein, che divenne però sempre più
convinto della necessità del pacifismo. Nel 1955, poco prima di morire, dalla
sua casetta di Princeton in America dove aveva trovato rifugio, rivolse
all’umanità un ultimo appello per la sua sopravvivenza: «Ricordatevi che siete
uomini e dimenticatevi tutto il resto».
Per difendersi, Oriana, non c’è bisogno di offendere (penso ai tuoi sputi ed ai
tuoi calci). Per proteggersi non c’è bisogno d’ammazzare. Ed anche in questo
possono esserci delle giuste eccezioni. M’è sempre piaciuta nei Jataka , le
storie delle vite precedenti di Buddha, quella in cui persino lui, epitome
della non violenza, in una incarnazione anteriore uccide. Viaggia su una barca
assieme ad altre 500 persone. Lui, che ha già i poteri della preveggenza,
«vede» che uno dei passeggeri, un brigante, sta per ammazzare tutti e derubarli
e lui lo previene buttandolo nell’acqua ad affogare per salvare gli altri.
Essere contro la pena di morte non vuol dire essere contro la pena in genere ed
in favore della libertà di tutti i delinquenti. Ma per punire con giustizia
occorre il rispetto di certe regole che sono il frutto dell’incivilimento,
occorre il convincimento della ragione, occorrono delle prove. I gerarchi
nazisti furono portati dinanzi al Tribunale di Norimberga; quelli giapponesi
responsabili di tutte le atrocità commesse in Asia, furono portati dinanzi al
Tribunale di Tokio prima di essere, gli uni e gli altri, dovutamente impiccati.
Le prove contro ognuno di loro erano schiaccianti. Ma quelle contro Osama Bin
Laden?
«Noi abbiamo tutte le prove contro Warren Anderson, presidente della Union
Carbide. Aspettiamo che ce lo estradiate», scrive in questi giorni dall’India
agli americani, ovviamente a mo’ di provocazione, Arundhati Roy, la scrittrice
de Il Dio delle piccole cose : una come te, Oriana, famosa e contestata, amata
ed odiata. Come te, sempre pronta a cominciare una rissa, la Roy ha usato della
discussione mondiale su Osama Bin Laden per chiedere che venga portato dinanzi
ad un tribunale indiano il presidente americano della Union Carbide
responsabile dell’esplosione nel 1984 nella fabbrica chimica di Bhopal in India
che fece 16.000 morti. Un terrorista anche lui? Dal punto di vista di quei
morti forse sì.
L’immagine del terrorista che ora ci viene additata come quella del «nemico» da
abbattere è il miliardario saudita che, da una tana nelle montagne
dell’Afghanistan, ordina l’attacco alle Torri Gemelle; è l’ingegnere-pilota,
islamista fanatico, che in nome di Allah uccide se stesso e migliaia di
innocenti; è il ragazzo palestinese che con una borsetta imbottita di dinamite
si fa esplodere in mezzo ad una folla.
Dobbiamo però accettare che per altri il «terrorista» possa essere l’uomo
d’affari che arriva in un paese povero del Terzo Mondo con nella borsetta non
una bomba, ma i piani per la costruzione di una fabbrica chimica che, a causa
di rischi di esplosione ed inquinamento, non potrebbe mai essere costruita in
un paese ricco del Primo Mondo. E la centrale nucleare che fa ammalare di
cancro la gente che ci vive vicino? E la diga che disloca decine di migliaia di
famiglie? O semplicemente la costruzione di tante piccole industrie che cementificano
risaie secolari, trasformando migliaia di contadini in operai per produrre
scarpe da ginnastica o radioline, fino al giorno in cui è più conveniente
portare quelle lavorazioni altrove e le fabbriche chiudono, gli operai restano
senza lavoro e non essendoci più i campi per far crescere il riso, muoiono di
fame?
Questo non è relativismo. Voglio solo dire che il terrorismo, come modo di
usare la violenza, può esprimersi in varie forme, a volte anche economiche, e
che sarà difficile arrivare ad una definizione comune del nemico da debellare.
I governi occidentali oggi sono uniti nell’essere a fianco degli Stati Uniti;
pretendono di sapere esattamente chi sono i terroristi e come vanno combattuti.
Molto meno convinti però sembrano i cittadini dei vari paesi. Per il momento
non ci sono state in Europa dimostrazioni di massa per la pace; ma il senso del
disagio è diffuso così come è diffusa la confusione su quel che si debba volere
al posto della guerra. «Dateci qualcosa di più carino del capitalismo», diceva
il cartello di un dimostrante in Germania. «Un mondo giusto non è mai NATO»,
c’era scritto sullo striscione di alcuni giovani che marciavano giorni fa a
Bologna. Già. Un mondo «più giusto» è forse quel che noi tutti, ora più che
mai, potremmo pretendere. Un mondo in cui chi ha tanto si preoccupa di chi non
ha nulla; un mondo retto da principi di legalità ed ispirato ad un po’ più di
moralità.
La vastissima, composita alleanza che Washington sta mettendo in piedi,
rovesciando vecchi schieramenti e riavvicinando paesi e personaggi che erano
stati messi alla gogna, solo perché ora tornano comodi, è solo l’ennesimo
esempio di quel cinismo politico che oggi alimenta il terrorismo in certe aree
del mondo e scoraggia tanta brava gente nei nostri paesi.
Gli Stati Uniti, per avere la maggiore copertura possibile e per dare alla
guerra contro il terrorismo un crisma di legalità internazionale, hanno
coinvolto le Nazioni Unite, eppure gli Stati Uniti stessi rimangono il paese
più reticente a pagare le proprie quote al Palazzo di Vetro, sono il paese che
non ha ancora ratificato né il trattato costitutivo della Corte Internazionale
di Giustizia, né il trattato per la messa al bando delle mine anti-uomo e tanto
meno quello di Kyoto sulle mutazioni climatiche.
L’interesse nazionale americano ha la meglio su qualsiasi altro principio. Per
questo ora Washington riscopre l’utilità del Pakistan, prima tenuto a distanza
per il suo regime militare e punito con sanzioni economiche a causa dei suoi
esperimenti nucleari; per questo la Cia sarà presto autorizzata di nuovo ad
assoldare mafiosi e gangster cui affidare i «lavoretti sporchi» di liquidare
qua e là nel mondo le persone che la Cia stessa metterà sulla sua lista nera.
Eppure un giorno la politica dovrà ricongiungersi con l’etica se vorremo vivere
in un mondo migliore: migliore in Asia come in Africa, a Timbuctu come a
Firenze.
A proposito, Oriana. Anche a me ogni volta che, come ora, ci passo, questa
città mi fa male e mi intristisce. Tutto è cambiato, tutto è involgarito. Ma la
colpa non è dell’Islam o degli immigrati che ci si sono installati. Non son
loro che han fatto di Firenze una città bottegaia, prostituita al turismo! È
successo dappertutto. Firenze era bella quando era più piccola e più povera.
Ora è un obbrobrio, ma non perché i musulmani si attendano in Piazza del Duomo,
perché i filippini si riuniscono il giovedì in Piazza Santa Maria Novella e gli
albanesi ogni giorno attorno alla stazione. È così perché anche Firenze s’è
«globalizzata», perché non ha resistito all’assalto di quella forza che, fino
ad ieri, pareva irresistibile: la forza del mercato.
Nel giro di due anni da una bella strada del centro in cui mi piaceva andare a
spasso è scomparsa una libreria storica, un vecchio bar, una tradizionalissima farmacia
ed un negozio di musica. Per far posto a che? A tanti negozi di moda. Credimi,
anch’io non mi ci ritrovo più.
Per questo sto, anch’io ritirato, in una sorta di baita nell’Himalaya indiana
dinanzi alle più divine montagne del mondo. Passo ore, da solo, a guardarle, lì
maestose ed immobili, simbolo della più grande stabilità, eppure anche loro,
col passare delle ore, continuamente diverse e impermanenti come tutto in
questo mondo. La natura è una grande maestra, Oriana, e bisogna ogni tanto
tornarci a prendere lezione. Tornaci anche tu. Chiusa nella scatola di un
appartamento dentro la scatola di un grattacielo, con dinanzi altri grattacieli
pieni di gente inscatolata, finirai per sentirti sola davvero; sentirai la tua
esistenza come un accidente e non come parte di un tutto molto, molto più
grande di tutte le torri che hai davanti e di quelle che non ci sono più.
Guarda un filo d’erba al vento e sentiti come lui. Ti passerà anche la rabbia.
Ti saluto, Oriana e ti auguro di tutto cuore di trovare pace. Perché se quella
non è dentro di noi non sarà mai da nessuna parte.