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Sagarana La Lavagna Del Sabato 14 Gennaio 2012

ESSERE GIĄ STATI



Claudio Magris


ESSERE GIĄ STATI



 

A Luca Doninelli
 
(…) E così Jerry è morto, pazienza, non è questo il guaio, né per lui né per nessuno, neanche per me che l’ho amato e dunque l’amo, perché l’amore non si coniuga – diomio, in quel senso sì, certo, ci mancherebbe altro, però l’amore ha la sua grammatica e non conosce tempi ma solo modi verbali, anzi uno solo, l’infinito presente, quando si ama è per sempre e via tutto il resto. Qualsiasi amore, di qualsiasi tipo. Non è vero che ti passa, niente ti passa, e proprio questo è spesso una bella disgrazia, ma te la porti dietro con te, come la vita, che anche quella non è che sia proprio una fortuna, solo che l’amore passa ancora meno che la vita, è là, come la luce delle stelle, chi se ne frega se sono vive o morte, splendono punto e basta e anche di giorno non le vedi ma sai che ci sono.
Così non sentiremo più quella chitarra e pazienza anche per questo, si può fare a meno di tutto. Dio, come la suonava. E quando la mano non gli ha funzionato più, ha tirato giù la saracinesca e addio baracca e burattini. Su questo, nulla da obiettare. Prima o dopo succede e non importa più tanto come, comunque deve succedere e chissà quanti di noi qui intorno stasera, signore e signori, saranno vivi fra un mese, certo non tutti, è statisticamente impossibile, qualcuno che sta spingendo il vicino e protestando perché quello davanti gli toglie la vista del palcoscenico è già andato per l’ultima volta dal barbiere, ma pazienza, anno più anno meno fa poca differenza, non compiango chi sta per tirare i cracchi e non invidio chi tira avanti né m’interessa tanto sapere in quale gruppo sono.
Amen per Jerry, come per tutti e per tutto. Come dicevo, non critico la sua decisione; quando uno vuol scendere dal bus è giusto che scenda e se preferisce fare un salto dal bus in corsa, prima della fermata, affar suo. Uno può essere stufo, stanco, non poterne più o che ne so io. Ma quando, vedendolo giù perché non suonava più come prima, gli ho detto, così per fargli coraggio, che era stato un grande della chitarra, lui ha risposto che non gli bastava essere stato. Voleva essere – poco importa cosa, un musicista, un innamorato, qualsiasi cosa, ma essere.
Ah, signore e signori, in quel momento ho capito che grande fortuna è nascere, come me, o avere uno zio o un nonno o chi ti pare, nato a Bratislava o a Leopoli o a Kalocsa o in qualsiasi altro buco di questa scalcagnata Mitteleuropa, che è un inferno, un vero cesso, basta sentire quell’odore stantio, quella puzza che è la stessa da Vienna a Czernowitz ma almeno non ti impone di essere, anzi. Ah, se Jerry avesse capito, quando la mano non gli ha funzionato più, la grande fortuna di essere stato, la libertà, la vacanza, la grande licenza di non dover più essere, di non aver più bisogno di suonare, la libera uscita dalla caserma della vita!
Ma forse non poteva, perché non era nato né vissuto in quell’aria pannonica stagnante e spessa come una coperta, in quell’osteria fumosa in cui mangi male e bevi peggio ma stai bene quando fuori piove e tira vento – e fuori, nella vita, piove sempre e il vento è tagliente. Sì, qualunque droghiere di Nitra o Varazdin potrebbe insegnare a tutta la Quinta Strada – a parte quelli arrivati là magari da Nitra o da Varazdin o da un altro pezzo di fango pannonico – la felicità di essere stati.
Ah, la modestia, la leggerezza di essere stati, quello spazio incerto e cedevole dove tutto è lieve come una piuma, contro la presunzione, il peso, lo squallore, lo sgomento di essere! Per carità, non parlo di nessun passato e tantomeno di nostalgia, che è stupida e fa male, come dice la parola, nostalgia, dolore del ritorno. Il passato è orrendo, noi siamo barbari e cattivi, ma i nostri nonni e bisnonni erano selvaggi ancor più feroci. Non vorrei certo essere, vivere alla loro epoca. No, dico che vorrei essere sempre già stato, esonerato dal servizio militare di esistere. Una piccola menomazione talvolta è salvifica, ti protegge dall’obbligo di partecipare e di rimetterci le penne.
Essere fa male, non dà tregua. Fa’ questo, fa’ quest’altro, lavora, lotta, vinci, innamorati, sii felice, devi essere felice, vivere è questo dovere di essere felici, se no che vergogna. Sì, ce la metti tutta per obbedire, per essere bravo e buono e felice come è il tuo dovere, ma come si fa? Le cose ti cascano addosso, l’amore ti piomba sulla testa come un cornicione dal tetto, una brutta botta o peggio, cammini rasente ai muri per scansare quelle automobili impazzite ma i muri sono sbrecciati, pietre aguzze e vetri che ti scorticano e ti fanno sanguinare, sei a letto con qualcuno e per un attimo capisci cosa potrebbe e dovrebbe essere la vita vera ed è uno schianto insostenibile – raccogliere i vestiti buttati a terra, rivestirsi, via, uscire, per fortuna lì vicino c’è un bar, che buona cosa un caffè o una birra.
Ecco, bere una birra, per esempio, è un modo di essere stati. Sei là, seduto, guardi svaporare la schiuma, ogni bollicina un secondo, un battito del cuore, un battito in meno, riposo e promessa di riposo al cuore stanco, tutto è alle tue spalle. Ricordo che la nonna, quando andavamo a trovarla a Subotica, copriva con del panno gli spigoli dei mobili e toglieva un tavolo di ferro, così noi bambini non ci facevamo male quando correndo per la casa andavamo a sbattervi contro, e copriva anche le prese della corrente elettrica. Essere stati è questo, vivere in questo spazio dove non ci sono spigoli, non ti sbucci le ginocchia, non puoi accendere la lampada che ti fa male agli occhi, tutto è fermo, fuori gioco, nessun agguato.
Ecco, signore e signori, è questa l’eredità che abbiamo avuto dalla Mitteleuropa. Una cassetta di sicurezza, vuota ma con una serratura che scoraggia gli scassinatori desiderosi di metterci dentro chissà cosa. Vuota, niente che prenda il cuore e morda l’anima, la vita è là, già stata, sicura, al riparo da ogni accidente, una banconota scaduta di cento vecchie corone che appendi al muro, sottovetro, e non teme nessuna inflazione. Anche in un romanzo, la più bella cosa, almeno per chi lo scrive, è l’epilogo. Tutto è già accaduto, scritto, risolto, i personaggi vivono felici e contenti o sono morti, è la stessa cosa, in ogni caso non può succedere più niente. Lo scrittore tiene l’epilogo fra le mani, lo rilegge, magari cambia una virgola, ma al riparo da ogni rischio.
Ogni epilogo è felice, perché è un epilogo. Vai sul balcone, un po’ di vento passa tra i gerani e le viole del pensiero, una goccia di pioggia scivola sul viso, se piove più forte ti piace ascoltare il tambureggiare dei goccioloni sulla tenda, quando cessa vai a fare due passi, scambi qualche parola col vicino che incontri sulle scale, né a lui né a te importa cosa dite ma è piacevole intrattenersi un momento e dalla finestra del pianerottolo vedi laggiù, in fondo, una striscia di mare che il sole, uscito dalle nuvole, accende come una lama. “La settimana prossima andiamo a Firenze,” dice il vicino. “Ah sì, bello, ci sono già stato.” E così ci si risparmia la fatica del viaggio, le code, il caldo, la ressa, la ricerca di un ristorante.
Due passi, nell’aria della sera rinfrescata dalla pioggia, poi a casa. Non bisogna stancarsi troppo, se no va a finire che ci si agita e non si riesce a prender sonno. E l’insonnia, signore e signori, credetemi, è terribile, ti schiaccia ti soffoca ti incalza ti insegue ti avvelena – ecco, l’insonnia è la forma suprema dell’essere, essere = insonnia, per questo bisogna dormire, dormire è solo l’anticamera del vero essere già stato, ma intanto è già qualcosa, un respiro di sollievo…






Brano tratto dalla raccolta Storie, a cura di Nadine Gordimer, Feltrinelli editrice, Milano, 2005.




Claudio Magris
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