La Lavagna Del Sabato 03 Dicembre 2011 L’ILLUSIONE DI MANIPOLARE IL CORPO Lo sforzo ridicolo di cancellare i segni del tempo. Trascurando lo spirito Marc Augé
In Togo, ho assistito a numerose sedute di «possessione» e ho creduto di potervi scorgere un rapporto particolare con il tempo. Quando infatti i pensionanti di un convento cominciano a danzare seguendo il ritmo imposto dai colpi dei tamburi, non si sa su quale cadrà una divinità, un vodun, per «cavalcarlo» e sconfiggerlo. Nella regione di Anfouin, nei conventi c’erano soltanto ospiti donne, ma era un fenomeno recente e altrove si trovavano ancora pensionanti maschi. Uomini o donne che fossero, erano tutti vodunsi, cioè «donne del vodun» . La metafora sessuale era esplicita, così come quella della cavalcatura e del cavaliere. La donna era posseduta e poteva entrare in uno stato di trance più o meno pronunciato: ma quando ne usciva e ritornava in sé, almeno ufficialmente aveva dimenticato tutto di quell’episodio. Questa necessità dell’oblio è attestata dovunque: è uno dei criteri determinanti dei fenomeni di possessione, che li distingue radicalmente dal sogno di cui, al contrario, è auspicabile conservare nella memoria anche i minimi particolari. Tuttavia era possibile anche un’altra lettura della possessione che corregge la metafora del cavaliere e della sua cavalcatura: in essa scorge soltanto un’immagine, perché in realtà il vodun si trova nel rene del posseduto e nel momento della possessione gli sale nella testa. Ora, se si accosta quest’osservazione a tutte le indicazioni che presentano gli dèi, i vodun, come uomini antichi, antenati, non si può che essere sensibili alla nostalgia che li induce a riprendere possesso di un corpo da cui forse non sono mai stati del tutto assenti. Ma il vodun non è una persona semplice, spesso assomma in sé molteplici identità ed entrambi i generi. Inoltre bisogna fare molta attenzione al fatto che non è mai la totalità della persona che ritorna nel corpo di un vivente. È soltanto una parte, certamente essenziale, ma che ha appunto bisogno di un corpo e di pochi altri elementi per rifare una persona completa. La possessione ideale, insomma, è quella in cui si è posseduti solo da se stessi, e non spossessati da se stessi, ma alla riconquista del proprio passato più lontano. Se l’oblio s’impone dopo la possessione, allora, non è perché non ci si può ricordare lla presenza di un altro in sé, ma al contrario perché non bisogna credersi un dio troppo a lungo, cioè non bisogna tollerare in sé la presenza di un morto. Di tanto in tanto si ascoltano dotte discussioni sugli effetti e sul ruolo della possessione. In Brasile, nei culti consacrati ai caboclo dai fedeli dell’umbanda, questi erano abbastanza evidenti: la celebrazione settimanale dava un orizzonte festivo alla routine quotidiana. Tutte le donne, di modestissima estrazione, che nella vita quotidiana si vestivano in maniera più o meno funzionale, in occasione delle sedute si trasformavano in reginette di bellezza: l’abbigliamento da possessione era particolarmente elegante, il trucco curato. E quando i corpi si accasciavano, oppure si dibattevano, quando le donne che non erano ancora entrate nel gioco della possessione venivano in aiuto alla loro compagna, il carattere sensuale dello spettacolo era avvertibile da tutti Appena sopraggiungeva il momento dell’arrivo del caboclo, nell’istante stesso in cui s’impadroniva del corpo della sua «cavalcatura» , esplodeva un applauso generale. La performance proseguiva, e dal quel momento in poi era attribuita al caboclo, che poteva discorrere e danzare fino a quando i canti si spegnevano, i corpi si placavano, la rappresentazione si concludeva, e si passava ai pasticcini. Ma i caboclo non andavano via subito: restavano ancora un po’ per partecipare alla festa e al banchetto. Una sera, ho chiacchierato con una donna della quale sapevo che sua figlia, scolara mediocre, le dava qualche preoccupazione. Ma in realtà quello che conversava con me era il suo caboclo, non ancora andato via. Abbiamo bevuto qualcosa insieme ed egli mi ha confidato, ricorrendo alla solita metafora: «Il mio cavallo è molto seccato; ha dei problemi con sua figlia…» , prima di scendere nei particolari. Una o due volte, la mia interlocutrice è stata sul punto di sbagliarsi e dire «io» anziché «lei» , ma si è ripresa, e di lì a poco è arrivata la fase finale, quella in cui la posseduta torna in se stessa, e deve per forza dire di aver dimenticato tutto. A quel punto abbiamo potuto passare a parlare della figlia che andava male a scuola, come se non avessimo ancora affrontato l’argomento. Tutte le esperienze di possessione hanno alcuni tratti comuni. Postulano una continuità fra via e morte, dèi e antenati, identità e alterità, che corrisponde a un mondo dell’immanenza in cui il corpo umano, superficie su cui si iscrivono segni decifrabili dagli specialisti, è portatore di messaggi che occorre saper decifrare per sopravvivere come individui o come collettività. La malattia e la morte stessa sono dei segni. La possessione è un segno provocato. Il sogno è una ricerca di segni. La nascita stessa è portatrice di segni che peseranno sul destino dell’individuo. Nel mondo dell’immanenza si passa il tempo a decifrare l’ineluttabile. In un certo senso si potrebbe pensare che l’interpretazione dei segni affretti l’avvento del destino, proprio come al contrario i rituali detti di inversione possono scongiurare le grandi catastrofi. Ma d’altra parte si vede bene che ciò che è scritto è scritto, o, più precisamente, che tutto ciò che accade era scritto; se la lettura retrospettiva è nondimeno importante, è perché dimostra che l’avvenimento non è stato pura contingenza, che tutto resta nell’ordine. Questo incessante richiamo all’ordine delle cose può eventualmente risultare tragico per i singoli, ma al tempo stesso relativizza la portata delle vicende individuali e suggerisce che tutto può sempre ricominciare e che nulla, neanche la morte, è mai definitivo. Si potrebbe dire che oggi, nelle aree più privilegiate del pianeta globale, ci sforziamo di far produrre al corpo umano i segni che idealmente gli assicurerebbero l’eterna giovinezza, o più modestamente l’eccezionale longevità che da lontano può sembrarne l’equivalente. Agiamo quindi all’indietro rispetto alla logica degli africani: per mezzo di diete e di interventi d’ogni genere, creiamo noi stessi i segni per non doverli interpretare. Questo sforzo un po’ ridicolo si ricollega alla grande intuizione che si trova al cuore di tutti i miti, in tutte le pratiche rituali: noi non siamo altro che il nostro corpo. Ma di questa intuizione ignora la conseguenza più saggia, e cioè: accettiamo il nostro corpo così com’è, accettiamo il passare del tempo. E non dimentichiamo il detto scientifico che riecheggia l’intuizione pagana: nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma. Tratto dal “Corriere della Sera” del 24 Maggio 2011. Traduzione di Marina Astrologo. Marc Augé (Poitiers, 1935) č un etnologo e antropologo francese. home |