La Lavagna Del Sabato 15 Ottobre 2011 PERRY ANDERSON, ALL'ORIGINE DI BERLUSCONI Ida Dominijanni
Con l'occhio alle immagini dello scorso week end alla Fiera di Roma, e in testa le domande che il
congresso d'iniziazione del Pdl lascia aperte sulla resistibile ascesa di Berlusconi e della nuova destra e sulla resistibile discesa di quella che fu la più forte sinistra d'occidente, si legge con maggiore profitto il saggio pubblicato recentemente da Perry Anderson sulla «London Review of Books» con l'illuminante titolo «Una sinistra invertebrata» (http://www.lrb.co.uk/; ne ha scritto Nadia Urbinati su «La Repubblica» del 16 marzo). Lo sguardo lungo dello storico aiuta a collocare il presente nella prospettiva di una storia antica, e la distanza dell'intellettuale straniero a scremare, sia pure con alcune semplificazioni, le responsabilità storiche della sinistra da quelle tattiche (del resto, Anderson è più convincente quando scrive dell'Italia in questa prospettiva di lungo periodo che quando fa il polemista politico sugli ultimi venti anni, come nel saggio precedente uscito sempre sull LRB il 26 febbraio scorso). Se è vero che il congresso del Pdl ripropone con urgenza ineludibile tre questioni - il capovolgimento d'egemonia culturale dalla sinistra alla destra; il perché della fascinazione esercitata sulla mentalità collettiva dal berlusconismo; il rapporto fra il rinnovamento di An e lo stato della memoria nazionale del fascismo storico - Anderson fornisce tre chiavi di spiegazione convincenti, sulle quali varrebbe la pena di lavorare in profondità.
In primo luogo, lo storico inglese assegna alla questione culturale il primo posto nella spiegazione del paradosso di partenza, quello della trasformazione della più forte sinistra europea nella «sinistra
invertebrata» di oggi. L'origine del disastro va ricercata infatti, per Anderson, precisamente nel lato
debole di quella grande forza costituita, nel dopoguerra, dall'egemonia culturale della sinistra, e
segnatamente del Pci. Costruita per gran parte sull'eredità gramsciana, questa egemonia fece
incontestabilmente del Pci il perno della vita intellettuale e dell'opinione pubblica progressista italiane.
Ma era tuttavia marcata da una matrice storicista e idealista - l'impronta di Croce - che l'ha
progressivamente piegata - contro lo stesso Gramsci - nel senso di un ascendente morale e di una prassi dominata dalla ricerca del consenso più che dall'esercizio del conflitto. Non solo. Si deve a quella stessa matrice idealistica il privilegio accordato da sempre, nella cultura del Pci, alle discipline umanistiche classiche, a netto discapito di quelle scientifiche, economiche e di quel complesso di scienze sociali che dagli anni sessanta in poi sarebbe diventato determinante per la comprensione della società e della cultura di massa. Col risultato che nella prima fase della storia repubblicana l'egemonia del Pci sulla cultura «alta» non impedì alla Chiesa e alla Dc di spadroneggiare nel campo della cultura «bassa» con ampie dosi di pedagogia conformista. E nella seconda fase, dalla metà degli anni settanta in poi, velò completamente lo sguardo del Pci stesso sulla galoppante conquista dell'immaginario popolare intrapresa da Berlusconi e dalla sua industria culturale pop, cui Berlinguer non seppe opporre altro che l'etica dell'austerità (mentre i suoi eredi, Veltroni in testa, sarebbero partiti un decennio dopo, in ritardo e male, verso una rincorsa imitativa del modello cultural-commerciale berlusconiano). E un'analoga ipoteca idealista, incalza Anderson, ha pesato fin dagli anni 60 sull'analisi delle trasformazioni del capitalismo e del lavoro - fatto salvo l'apporto dell'operaismo, rimasto tuttavia sempre laterale, una sorta di ospite scomodo, rispetto al ceppo centrale della tradizione comunista.
Il trionfo di Berlusconi, e la sua conquista dell'immaginario collettivo prima che del consenso elettorale, va riportato dunque secondo Anderson a questo deficit cruciale, una sorta di tallone d'Achille, dell'egemonia culturale del Pci, come pure qui origina la perdita di presa della sinistra sul mondo del lavoro dai tardi anni 80 in poi, quando il postfordismo trova rappresentanza più nel modello aziendalpolitico di Arcore o nel neo-comunitarismo leghista che nell'ex partito operaio. Quanto allo sdoganamento prima e al ripulimento poi del Msi e di An, i fatti dell'ultimo quindicennio, da Fiuggi al novello Pdl, hanno anch'essi matrici lontane. In primo luogo nell'acquiescienza di Togliatti nei confronti della mancata de-fascistizzazione degasperiana degli apparati dello stato. E più in generale - di nuovo torna in primo piano la dimensione culturale - nella progressiva trasformazione dell'antifascismo in una retorica nazionale svuotata di contenuti, incapace di innescare in Italia un processo di autocoscienza sul passato fascista analogo a quello promosso in Germania dalla Histerikerstreit tedesca nonché di contrastare la progressiva riabilitazione del fascismo operata dall'opera di Renzo De Felice e dal consenso politico costruitole attorno negli anni 80. Il resto è cronaca dell'ultimo ventennio. Dal quale non usciremo senza portare più indietro lo sguardo. Ida Dominijanni home |