La Lavagna Del Sabato 24 Settembre 2011 UN’INTERVISTA CON HERTA MÜLLER A NAPOLI Maria Carmen Morese
Tutto quel che ho lo porto con me. Oppure: Tutto quel che è mio lo porto appresso. L’ho portato tutto, quello che avevo. Cose mie non erano. Questo è l’incipit dell’ultimo romanzo del premio Nobel 2009 Herta Muller, L’altalena del respiro, edito da Feltrinelli. L’autrice ha presentato il romanzo alla Feltrinelli Venerdì 18. Ha condotto l’incontro Maria Carmen Morese, direttrice del Goethe Institut.
Quando la guerra non è ancora terminata, nel gennaio del ’45, il giovane Leo Auberg, parte per il lager con l’ingenuità che caratterizza la sua adolescenza. Per ordine sovietico era cominciata la deportazione rumena-tedesca nei campi di lavoro forzato nell’attuale Ucraina.
Per anni c’è stato un vero velo di silenzio su queste vicende perché era pericoloso palarne in pubblico. Per cui tutti coloro che erano stati vittime di queste deportazioni ne parlavano in contesti familiari. I deportati erano tutti contadini ed i contadini non parlano volentieri di se stessi. Anche da mia madre che ha subito questa terribile vicenda non c’è stato verso di venire a sapere nulla. Era molto reticente a parlarne, anche da bambina non sapevo di questa tragica esperienza.
Una figura è stata importante per Herta Muller, e non solo per la stesura del romanzo. Oskar Pastior, poeta praticamente sconosciuto in Italia, è stato un vero punto di riferimento per l’autrice.
La prima persona che mi ha permesso di conoscere questi dettagli è stato Oskar Pastior che si era trasferito a Berlino, dove l’ho incontrato. Io ammiro molto Oskar per il suo spessore letterario e qualità poetica, credo che sia uno dei più alti esponenti della letteratura del ‘900, che ha saputo sperimentare. Però mi sono detta che forse anche lui non sarebbe stato disposto a parlare di questa cosa, io sapevo che lui era stato deportato, ma pensavo che non sarebbe stato d’accordo a parlare di quest’esperienza. In realtà ha dimostrato la sua disponibilità anche se in modo non diretto. Spesso emergevano dei riferimenti di quest’esperienza a margine dei discorsi veri che facevamo. Ci siamo incontrati con periodicità per circa due anni, lui raccontava ed io prendevo appunti. Poi abbiamo deciso di recarci insieme nei luoghi della tragedia, abbiamo visitato i luoghi in cui furono perpetuate queste umiliazioni e vessazioni. Abbiamo deciso di scrivere insieme una storia su queste vicende sulla base di molti dettagli poetici che scaturivano dall’elaborazione del ricordo di Pastior: suoi i termini come l’angelo della fame, il tempo di pelle e ossa. Ci stavamo accingendo a scrivere questo libro ed improvvisamente Oskar Pastior è venuto a mancare.
Il romanzo muove dai ricordi di Pastior, da quelle note ai margini dei discorsi sul passato, e Herta Muller, tradisce visibile commozione e dispiacere ricordando il poeta scomparso, sul viso, nell’espressione forte che la caratterizza, nelle labbra incurvate e nei chiarissimi occhi.
L’incontro con Pastior ha cambiato la mia traiettoria, nel senso che il suo modo di rielaborare questo vissuto era così personale e poetico, aveva un aroma così incentrato sulla sua personale elaborazione che io non ho potuto fare a meno, da allora, di tenere in considerazione la sua esperienza, ed ho scritto lungo il percorso tracciato da Pastior. Devo essere molto grata a lui per queste importantissime tracce che ha lasciato. Quando Oskar è venuto a mancare io mi sono ritrovata con la necessità interiore di scrivere questa storia e sono stata costretta a farlo da sola. E’ stata una situazione non facile, eravamo legati da una strettissima amicizia. Durante la lavorazione del libro ho scritto come se fosse ancora vivo: dentro di me gli chiedevo delle cose e lui mi dava dei consigli.
Il protagonista è un adolescente che desidera libertà e possibilità di esprimere se stesso. Quanto c’è di Pastior In Leo Ausberg?
Leo in realtà non è solo Pastior. Io ho conosciuto altre persone che sono state deportate, prima di lavorare con Pastior. Ho scoperto situazioni di altri deportati per cui la storia è un misto di Pastior ed altri personaggi. Si capisce che Leo è omosessuale. Lo era anche Pastior. L’omosessualità era un problema anche nel lager, perché se i capi avessero scoperto sicuramente lo avrebbero linciato, e molto probabilmente l’avrebbero fatto anche gli altri deportati perché era una condizione non accettata da nessuno. Leo vuole lasciare il paese e nella sua infinita ingenuità, crede di poter vivere la sua omosessualità più liberamente andando via. Non poteva immaginare quale sofferenza avrebbe comportato il lager. Lui immaginava di uscire dalla grettezza, dall’angustia per vivere le sue avventure nell’infinità del mondo.
E gli oggetti che popolano il romanzo?
In generale si può dire che gli oggetti vivono. Vivono con noi e sembra che ci definiscono e che ci definiamo attraverso di essi. Ora tutto ciò è ovvio in una situazione di normalità, ma quando non c’è più un rapporto normale con gli oggetti, quello quotidiano, ha luogo una sottrazione che investe anche la sfera personale. E’ come se fossimo derubati di qualcosa che ci appartiene. Quindi in una situazione estrema come quella del lager se ci vengono sottratti degli oggetti è come se venisse presa una parte di noi perché nel lager niente è personale. Tutto è del lager stesso, oggetti quali sassi, sabbia cemento, sono proprietà che ci si abitua ad amare, perché sostituiscono gli oggetti che mancano. Si impara ad amare questi oggetti per una necessità umana, salvaguardare la propria dignità. A quel punto avendo stabilito un tale rapporto con questi oggetti, nessun sadismo di nessun kapo sarà in grado di minare la dignità che in questo modo si è conquistata.
La nostalgia, questo potente sentimento, come si lega ai luoghi? (Maria Carmen Morese fa anche riferimento a Napoli e su quanto chi si allontani da Napoli provi nostalgia)
Chi di voi non ha avuto nostalgia di casa? A me capita di avere nostalgia della Romania, può sembrare strano ma mi capita. Si può avere nostalgia per i paesaggi, per le persone, per gli oggetti che condizionano, che danno forma alle nostre proiezioni. In alcuni casi noi ci identifichiamo con gli oggetti. La nostalgia di casa per Napoli ha a che fare col mare. Tutti i paesaggi esercitano questo richiamo. Lo fanno le montagne, le pianure, tutti i paesaggi.
Lucidissimo il riferimento alla tragedia trattata nel libro:
Bisogna precisare che non si tratta di un campo di concentramento dove venivano sterminati gli esseri umani. Un campo di lavoro forzato non è un campo di sterminio. Le persone erano costrette al lavoro. Nonostante tutto si è trattato di una piccola sciagura e questo dato va sottolineato soprattutto se confrontiamo questa situazione con quella di Primo Levi. Non si possono mescolare queste due vicende.
Herta Muller è nata a Nitzkydorf, villaggio di lingua tedesca nel Banato rumeno, tra Serbia, Romania ed Ungheria. In seguito al rifiuto di collaborare con la polizia segreta rumena ha inizio una vera opera di controllo nei suo confronti. Nel 1982 la raccolta di racconti Bassure, il suo esordio, viene censurato. Dopo aver contestato la dittatura di Ceausescu si trasferisce a Berlino. Nel 2009 ha vinto il più importante riconoscimento letterario con questa motivazione: Ha saputo descrivere il panorama dei diseredati con la forza della poesia e la franchezza della prosa.
Un incontro importante ed emozionante, con una delle protagoniste della letteratura mondiale. I lettori, rapiti dall’apparente severità, più volte trasformatasi in ironia delicata e fanciullesca, della Muller, hanno assistito all’importante lezione di quanto sia intensa e grandiosa la trasformazione della vita in letteratura e, viceversa, della letteratura in vita. suggestive le letture dal testo dell’attore Fabio Cocifoglia. Tratto dal sito www.levanteonline.net home |