La Lavagna Del Sabato 03 Settembre 2011 STANISLAW LEM O DELL’INCOMUNICABILITÀ Massimo Bianco
Sono in debito con Stanislaw Lem, un autore le cui opere sono attuali oggi come quando furono scritte. Lo sono da quando mi fu commissionato una decina di anni fa un articolo su di lui mai pubblicato e dormiente da allora in un cassetto per la prematura dipartita della rivista richiedente. È giunta l’ora di porvi rimedio e cancellare il debito.
A molti dei lettori di Trucioli probabilmente il suo nome non dirà nulla. Eppure si tratta di un grande scrittore, candidato per ben due volte al premio nobel dal suo paese natale, la Polonia, che gli ha peraltro conferito anche il massimo riconoscimento letterario dello stato polacco. Candidature ovviamente ignorate, perché Stanislaw Lem ha un difettuccio, quello di essere stato un autore di fantascienza quando la fantascienza è ancor oggi ritenuta da troppa parte della paludata critica letteraria una semplice letteratura di genere, non meritevole di considerazione. Un errore grave, perché se oggi purtroppo il suddetto genere è probabilmente ridotto a mero intrattenimento, azione e avventura in ambiente esotico per puri scopi commerciali privi di qualsivoglia spessore letterario, nel passato ha anche saputo svolgere una sua funzione sociale, filosofica e precognitiva, non disgiunta almeno in alcune occasioni da risultati artistici. Ma su questo punto potremmo eventualmente approfondire meglio in futuro. Torniamo invece all’autore del giorno, grande scrittore la cui opera ha peraltro realizzato le tre suddette funzioni con esiti brillanti.
Prima di approdare alla letteratura il polacco Stanislaw Lem, nato a Leopoli, oggi in Ucraina, nel 1921 e mancato lo scorso anno a Cracovia, si laureò in medicina ne1946, ampliando in seguito il proprio campo di interessi anche alla fisica, alla biologia e alla cibernetica. Alla narrativa si avvicinò agli inizi degli anni ’50, debuttando nel 1951con il suo primo romanzo di fantascienza, “Il pianeta morto”, storia allegorica con riferimenti critici alla società capitalistica d’una Terra futura priva di classi alle prese con il mistero della distruzione della civiltà venusiana. Da allora alla narrativa vi si dedicò per i successivi 35 anni, pubblicando più di venti scritti tra romanzi e antologie di racconti, a cui vanno aggiunti numerosi saggi.
I temi filosofici che si rincorrono più o meno in tutte le sue opere sono quelli dell’incomunicabilità e dell’incomprensibilità della realtà che ci circonda.
Ad esempio in “Pianeta Eden” (1959), romanzo scarno e affascinante ma meno facile da leggere di suoi altri a causa dello scarso appeal avventuroso, una nave spaziale umana atterra, a causa di un incidente, su un pianeta abitato da una razza intelligente e tecnologizzata. L’equipaggio tenta di conoscere e studiare gli usi e i costumi dei suoi abitanti ma tutto si dimostra vano, perché le abitudini e le stesse manifestazioni tecnologiche degli abitanti di Eden risulteranno del tutto incomprensibili:
“…E credi che io ci capisca qualcosa?! – Sbottò l’ingegnere – È il frutto della mente di un pazzo (…) o di più pazzi. Una civiltà di alienati ecco cos’è questo maledetto Eden! (…) a che cosa possano servire non lo so. Si tratta però di un pezzo e non di un meccanismo completo. Ma questo pezzo, così come è venuto fuori da questo mulino impazzito, mi sembra assurdo.”
E gli stessi tentativi di comunicare direttamente con la popolazione riescono solo per verificare quanto sia abissale la distanza che separa le due civiltà e scegliere alla fine di abbandonare il pianeta senza ulteriori ricerche. Una rinuncia derivante dall’impotenza:
“Penso che dovremmo andarcene. – Disse finalmente l’ingegnere. (…) Ogni intervento, fatto sia pure con uno scopo nobile e disinteressato, ogni nostro tentativo del genere finirebbe con tutta probabilità come la nostra spedizione odierna, con l’uso dell’annichilatore. Naturalmente troveremmo sempre delle giustificazioni in nome della legittima difesa, e così via, ma invece di aiuto porteremo la rovina.”
Senza bisogno di andare lontano nel cosmo, è facile verificare come noi esseri umani ci dimostriamo sovente incapaci di comprenderci l’un l’altro. Basta appartenere a società diverse o perfino alla medesima società ma a differenti generazioni, come l’autore esemplifica in “Ritorno dall’universo” (1961), dove i protagonisti della narrazione, al termine di un viaggio durato dieci anni soggettivi dal sistema stellare di Fomalhaut, ritornano, nel rispetto della teoria della relatività, su una Terra futura a loro di ben 127 anni, per trovarvi una società estranea e incomprensibile quanto avrebbe potuto esserlo una marziana.
“La guardavo, in silenzio. Non era che la lingua fosse molto cambiata. Solo che non capivo nulla. Nulla. Erano loro che erano cambiati. (…) Come sei strano! Proprio come se non fossi neanche… s’interruppe – un essere umano?”
Oggi la nostra società capitalistico consumistica e quella islamica, fondamentalista e no, sono venute a confronto diretto a causa dell’immigrazione, degli interessi economici e della paura che tracima nell’odio e nel terrorismo. Sono società le cui popolazioni hanno mentalità assai diverse. Viste in tale ottica allora le argomentazioni di Pianeta Eden e di Ritorno dall’universo non sembrano più semplici favole fantascientifiche, non credete? Forse quando Occidente e Islam impareranno a comprendersi riusciranno anche a far cadere i motivi di contrasto.
Il romanzo generalmente indicato come suo massimo capolavoro è “Solaris” (1961), opera bellissima, onirica, profonda e complessa, assai impegnativa, che non poco deve alla psicanalisi. Dalla vicenda sono stati tratti due film, quello del 1972 dal titolo omonimo del regista sovietico Andrej Tarkovskij, basilare ma purtroppo tagliato e sconciato nell’edizione italiana, e il più recente remake hollywoodiano con George Clooney protagonista, riuscito a metà.
Il Solaris del titolo è un immenso oceano vivente protoplasmatico, che ricopre l’intera superficie di un lontano pianeta. Si tratta di un metafisico oceano intelligente, autore di ammalianti quanto enigmatiche manifestazioni e capace di risvegliare i fantasmi dell’inconscio. Solaris è di fatto un ambiguo “dio bambino” dagli scopi imperscrutabili.
Kelvin, personaggio principale di una storia il cui autentico protagonista è Solaris stesso, è uno scienziato giunto su una base spaziale in orbita intorno al pianeta, per studiare questo essere senziente con cui da secoli si tenta invano di trovare anche solo una maniera per comunicare. Ma non sarà piuttosto l’oceano vivente a studiare gli esseri umani che cadono nelle sue grinfie?
Kelvin nasconde nei recessi del suo intimo un terribile rimorso, quello di aver spinto al suicidio, dieci anni prima, la sua compagna Harey. Un mattino sarà proprio la defunta partner ad apparire nella base, apparentemente rediviva ma in realtà ricreata chissà come dall’oceano senziente e convinta essa (o ella?) stessa di essere autentica. Un riflesso dell’io emerso a torturare e stimolare la mente dello studioso. E così come accade a Kelvin, ciascuno degli scienziati presenti nella base deve vedersela con il proprio demone personale, incapace di capire non solo la realtà che lo circonda ma anche la sua stessa psiche.
Un altro tema suo tipico e correlato ai precedenti è quello dello sviluppo tecnologico e del rischio che corre l’umanità di non comprendere più la tecnologia con la quale convive, facendosene così sfuggire di mano il controllo. Argomento come si vede altrettanto attuale, estrinsecato al meglio in “L’invincibile” (1964), opera incisiva e avvincente.
L’incrociatore Invincibile viene inviato sul pianeta Regis III alla ricerca della nave gemella Condor, misteriosamente scomparsa. Dopo varie peripezie, il potente e iper armato equipaggio s’imbatterà in un agghiacciante e inumano nemico, la “nube nera”, microscopici servomeccanismi capaci di raggrupparsi in immensi sciami assassini di milioni di individui in simbiosi. All’interno della biosfera di Regis III si è sviluppata un’incredibile modificazione dei prodotti meccanici, una “necroevoluzione o evoluzione della materia morta” come la definisce Gianfranco De Turris nell’introduzione al libro sull’oscar Mondadori nro 1639. Tra i sofisticati automi e servomeccanismi elettronici, dotati della capacità di autoriprodursi, superstiti di un’antica spedizione aliena, si è scatenata una vera e propria evoluzione darwinistica, che ha portato al dominio dei robot più adatti, per così dire, alla sopravvivenza, soppiantando non solo le altre forme meccaniche, ma anche l’intera vita animale e vegetale di terraferma del pianeta e parte di quella marina. Si tratta della cosiddetta “Meccanizzazione evolutiva”, che riguarda però, si badi bene, sistemi solo apparentemente intelligenti, ma che in realtà agiscono nella maniera descritta solo a causa dell’istinto prodottosi sulla base del programma originale: adattabilità all’ambiente e una sorta di ancestrale memoria di gruppo. Lo sciame rappresenta l’assoluta alienità e incomprensibilità, tanto che la mente umana, non riuscendo a comprenderne il senso, non recepisce di trovarsi di fronte a qualcosa di artificiale, morto, e dunque non senziente:
“Tutti dicono loro, pensò Rohan, come se si trattasse davvero di esseri vivi e ragionanti. (…) Abbiamo come avversari i prodotti di una evoluzione non biologica (…) non possiamo porre il problema in termini di vendetta o di rivincita per la sorte del Condor e del suo equipaggio. Sarebbe come battere il mare con le verghe perché ha inghiottito una nave.”
Non vi ricorda forse tutto ciò l’inarrestabile sviluppo dei computer, della robotica e dell’elettronica e la ricerca condotta da decenni sull’intelligenza artificiale, con le continue polemiche tra studiosi della IA e loro avversatori? Sebbene “L’invincibile” non preconizzi la nascita di autentica intelligenza meccanica, tuttavia ricorda ad esempio le preoccupanti teorie del noto ricercatore Hans Moravec, fondatore dell’Istituto di robotica della Carnegie Mellon University, convinto che al più tardi entro il 2050 i robot supereranno l’intelligenza umana e potranno cominciare un loro cammino evolutivo. Essi sostituiranno del tutto l’uomo in ogni sua attività e impareranno a riprodursi, sfruttando ogni possibile materia prima per costruire nuovi esseri non biologici sempre più intelligenti e creando immense colonie autonome. A quel punto gli esseri umani, obsoleti e inutili, saranno condannati all’estinzione.
Oltre a quelli citati vi sono numerosi altri frutti meritevoli di essere colti dall’albero dei prodotti del geniale polacco. Lem, infatti, ha continuato a scrivere fino a quando ha ritenuto di avere qualcosa di significativo da dire, auto pensionandosi prima di trasformare la sua arte in routine. Anche i suoi scritti più recenti dunque, come ad esempio “Pace al mondo” (1984), che riprende in parte i temi de L’Invincibile e l’ultimo, intitolato “Il pianeta del silenzio” (1987), sono giudicati dalla critica lavori di buona qualità. Purtroppo molte sue pubblicazioni non sono reperibilissime, ma vale la pena d’impegnarsi a trovarle, prima di tutto perché di notevole spessore letterario e piacevole lettura e poi perché fanno meditare, allargano la mente e arricchiscono lo spirito. (Tratto dal sito www.truciolisavonesi.it/articoli/numero96 ) home |