La Lavagna Del Sabato 27 Agosto 2011 INTERVISTA A KOSSI KOMLA-EBRI Velio Abati e Walter Lorenzoni
La cosa più interessante, forse, da cui partire è il tuo sguardo sulla letteratura della migrazione, che tu hai fortemente contribuito a fare conoscere qui in Italia. Oltre ad essere un autore importante, sei anche un organizzatore in questo settore, quindi sei la persona più adatta a presentare questo ambito della letteratura italiana.
Già è importante dire che è un ambito della letteratura italiana, perché non tutti la definiscono come tale, soprattutto i cattedratici. Molti storcono il naso nel chiamarla letteratura, figuriamoci letteratura italiana. Comunque, io preferisco la definizione di Raffaele Taddeo (Letteratura nascente; Raccolto Edizioni 2006) di narrativa, letteratura nascente. Noi all’inizio avevamo dei problemi su cosa voleva dire letteratura migrante, su come definirla; qualcuno aveva proposto addirittura di chiamarci “Nuovi italiani” e sono venute fuori tutte le definizioni possibili e immaginabili, mentre secondo me, ancora in questa fase, ci definisce meglio la definizione di narrativa, letteratura nascente. Personalmente però non ho niente in contrario alla definizione di lettere migranti o letteratura migrante se concepita nei termini anglosassoni di “migrant writers” o scrittori in transito, quindi come letteratura migrante e letteratura transnazionale. Quello che ho cercato di fare è di stimolare negli altri scrittori la presa di coscienza del momento storico in cui noi stiamo vivendo, riuscire a portare avanti molti tipi di lavoro, cioè vederci e vederci camminando, mentre stiamo portando qualcosa di nuovo, ognuno con i nostri limiti, senza pretese di sconvolgere chissà che cosa. Ho appena partecipato, ad esempio, ad un convegno a Siena e il titolo era Reinventare l’italiano. Chi siamo noi per dire che vogliamo reinventare l’italiano? Questo processo arriverà comunque, sono convinto che sarà inevitabile, perché nella nostra scrittura traspariranno per forza elementi, emozioni, sensazioni, filtrati dai vissuti portati da altrove e questo, sicuramente, arricchirà la lingua italiana. Ma questa è una fase in cui noi stiamo balbettando, questa letteratura, che ha dieci-quindici anni, la vedo divisa in tre tappe. Una prima tappa è stata la fase autobiografica, con Pap Khouma, Salah Methnani, Saidou Mousa Ba, che hanno cominciato a scrivere a quattro mani, sia con Oreste Pivetta dell’“Unità”, sia con Mario Fortunato o con Alessandro Micheletti. Questi sono stati i primi scrittori che in qualche modo hanno preso “in affitto” la lingua italiana, non in possesso, molte volte raccontavano ed erano gli italiani a trascrivere. I primi temi di questa letteratura erano le loro situazioni di emigranti, le loro difficoltà ad inserirsi in questa società italiana, un bisogno disperato di comunicare per urlare la loro esistenza e per dire: “Ci siamo anche noi, non siamo soltanto la vostra manodopera, non siamo cittadini di seconda classe, siamo esseri pensanti”. Dopo questa fase autobiografica, è venuta fuori una fase di creatività, però molte volte rimanendo sempre ancorati a quelli che sono gli elementi culturali del paese di partenza. Questo sempre per il bisogno di comunicare, di aprire una finestra sugli usi e costumi del paese di appartenenza, un bisogno di valorizzare la propria cultura che realmente veniva ignorata nel paese di accoglienza. Qui si è cominciato a scrivere da solisti, quindi non più a quattro mani, non più con una lingua in affitto: questi scrittori hanno fatto un mutuo sulla lingua e piano piano lo stanno pagando attraverso le loro opere per cercare di averne un maggior possesso. Pivetta aveva detto che secondo lui non era possibile che noi emigranti di prima generazione fossimo capaci di scrivere correttamente nella lingua italiana e che ci sarebbero volute chissà quante generazioni prima che riuscissimo a scrivere in italiano. Si è sbagliato perché tanto era forte il bisogno di comunicare che ce l’abbiamo fatta a trovare qualche modo per comunicare. L’uso della lingua italiana ha una particolarità non indifferente, essa non è per la maggiore parte di noi la lingua dei coloni, non è né il francese, né l’inglese, non c’è alcuna rivendicazione a storpiare la lingua o a volerla cambiare. L’algerino Tahar Lamri la definisce una lingua neutra, Il brasiliano Julio Monteiro Martins la definisce la lingua d’amore e la indica come la sua “prima lingua”, perché la lingua madre ormai è solo la lingua della memoria. La brasiliana Christiana de Caldas Brito insiste sul concetto che quando una persona emigra lascia tre madri: la madre patria, la madre naturale e la madre lingua e rigenerarsi in un’altra lingua diventa una cosa molto importante. La fase autobiografica è una fase essenziale della letteratura nascente, perché l’autobiografia è un atto vitale che vuol dire situarsi oggi tra ieri e domani e dire e definirsi per quello che si è ora. Questo mette in crisi l’identità dello scrittore e mette in crisi l’identità delle persone a cui lui si contrappone, anche perché descrive in tempo reale l’Italia di oggi; con quello che noi raccontiamo specchiamo l’Italia a se stessa. Quando si va a leggere i testi di questa fase si ritrova proprio l’Italia di quel particolare momento, perché essi descrivono una visione degli italiani che gli italiani non hanno di se stessi, dato che non si specchiano così. Il ruolo antropologico viene fortemente rovesciato, perché gli italiani si erano abituati a distinguere i “selvaggi” dal loro essere “civilizzati”, mentre di colpo si sono trovati i “selvaggi” in casa che li stanno studiando e descrivono agli italiani le loro abitudini, il loro modo di fare ecc. È un’Italia che viene totalmente sconvolta da quella che è l’immagine classica che si ha dell’Italia stessa. Quando, in genere, i paesi nordici parlano dell’Italia, ad esempio, parlano del “paese del sole” e trovare uno scrittore che dice: “Qui in Italia, che freddo!” è una visione dell’Italia che è totalmente rovesciata. Questa letteratura piano piano si sta evolvendo da un testimoniare autobiografico verso la creatività e sta emergendo quella che alcuni chiamano la seconda generazione. Personalmente sono un po’ restio a chiamarla seconda generazione, perché secondo me questi scrittori fanno ancora parte della prima generazione: anche Igiaba Scego, Gabriella Ghermandi, Ubax Cristina Ali Farah o Jorge Alves Canifa nonostante siano nati qui o ci siano cresciuti e abbiano fatto la scuola nella lingua. La differenza essenziale di questa generazione con la mia è che loro hanno la proprietà della lingua, non ce l’hanno in affitto, non hanno un mutuo da pagare, loro sono già dentro e sono avvantaggiati da questo ma anche, in un certo senso, limitati, perché saranno giudicati con più severità visto che non possono loro essere perdonati gli errori di italiano che noi facevamo. Questa letteratura, secondo me, darà dei frutti importanti, ci credo molto e sono convinto che verranno fuori delle cose straordinarie. I miei primi testi erano testi praticamente didattici, cioè era necessario far conoscere nel mondo della scuola, che io ho cominciato a frequentare da subito, e nelle associazioni, la favolistica africana. Ad esempio, io andavo a parlare d’integrazione nelle scuole quindi i testi che ho scritto all’inizio erano testi a scopo didattico, ora non scrivo più queste cose. Quelli che ho cominciato a scrivere adesso sono testi che mi sento di scrivere e basta, non scrivo più pensando al lettore scolastico, e come me tanti altri. Lo stesso Pap Khouma, ha impostato il suo ultimo romanzo, che è uscito adesso da Baldini Castaldi Dalai (Nonno Dio e gli spiriti danzanti), in maniera del tutto diversa da Io, venditore di elefanti, dove voleva raccontare la sua storia. Siamo in una fase in cui si sta cercando di scrivere qualcosa per descrivere l’imprevedibile, cioè per descrivere il nuovo, per poter parlare dell’uomo, dell’essere, della vita, della morte, che sono quelle cose essenziali che caratterizzano la vita. E si fa questo con gente che ha dietro di sé un bagaglio di esperienza forgiato dall’essere sradicato, dall’esperienza dell’emigrazione, dell’andare via dalla propria terra. Oggi non ci sono più avventurieri, anche gli intellettuali del mondo occidentale cercano sicurezze, oggi i veri e unici avventurieri sono gli emigranti che lasciano tutti senza sapere a che cosa arriveranno, rischiano l’unico bene che hanno, che è la loro vita, senza sapere dove la troveranno domani e quindi sono individui che hanno ancora qualcosa di intenso da dire. Serge Vanvolsen ricorda che per scrivere ci vogliono due cose: bisogna saper scrivere e aver qualcosa da raccontare, si può imparare a scrivere ma qualcosa da raccontare bisogna averlo per forza, se non ce l’hai non racconti niente. Monteiro Martins dice che oggi la scrittura manca di spessore, non di spessore letterario ma di spessore del contenuto, mentre chi è emigrante ha ancora una vita piena, delle esperienze piene da descrivere, sull’uomo e sul suo destino, che è poi il ruolo stesso della letteratura, cioè di poter scandagliare quelli che sono gli elementi essenziali della vita dell’uomo. È un divenire che per me è un momento nuovo nel panorama della letteratura italiana e la letteratura italiana ne ha bisogno, perché la nostra letteratura usa la lingua italiana e questo che piaccia o no va riconosciuto: essa è parte integrante della letteratura italiana. Il problema sarà come giudicare la letterarietà di questi testi, certo non si può giudicare solo coi parametri classici, basati sullo stile o sulla sintassi, per me questi testi vanno giudicati sul piano contenutistico, che è un elemento nuovo, proprio di questa letteratura.
Come hai cominciato a scrivere?
Ho cominciato a scrivere molto casualmente, anche se la passione per la scrittura l’ho sempre avuta. Ai tempi della maturità in Francia avevo scritto una pièce teatrale in cui facevo dibattere diversi personaggi, che poi erano le diverse sfaccettature dello stesso personaggio visto nella sua crisi di rapporto con la Francia rispetto al suo paese di origine. Il titolo era Le tourbillon (Il vortice) e un giorno lo tradurrò in italiano. Quando sono arrivato in Italia però, ero venuto per studiare, ero preso solo dall’idea dello studio e ho accantonato l’idea della scrittura di qualunque cosa. Ho ripreso a scrivere casualmente, perché mia figlia aveva trovato nel ‘97 un concorso per scrittori migranti su una rivista (Il Popotus di “Avvenire”) e mi ha detto: “C’è questo concorso, perché non partecipi? Scrivi tutte le cose che abitualmente ci racconti”. Il titolo era Memoria in valigia, e io avevo tante cose che volevo raccontare, che avevo nella mia memoria, nella mia valigia, soprattutto ero sconvolto dall’idea della perdita del valore della parola e del suo significato nel mondo occidentale allorché sapevo che il concetto della parola era sacro nella mia cultura. Ho voluto cominciare a raccontare e tutto è iniziato così, a questo concorso organizzato dall’associazione Eks&Tra di Rimini, dove ho vinto il primo premio con il mio racconto Quando attraverserò il fiume. Poi l’anno seguente mia figlia mi ha portato di nuovo il bando, ho partecipato di nuovo e di nuovo sono stato premiato. Ho partecipato ancora ad altri concorsi, poi ho cominciato a scrivere per conto mio e oggi mi rendo conto che più scrivo più mi vengono in mente tante cose che dovrei scrivere, più mi viene la voglia, anche perché adesso non sto più cercando di fare cose didattiche, oggi voglio raccontare storie che mi sento di raccontare e basta.
Esiste un gruppo di persone, esistono dei canali di comunicazione, prevalentemente on-line, e anche in Italia c’è una maggiore attenzione editoriale e accademica nei vostri confronti. Dietro a questo movimento c’è sia una condizione sociale, con un aumento di parlanti in Italiano di diversa origine, sia il fatto che voi scrittori siete riusciti a organizzarvi e ad avere occasioni di confronto e di manifestazione. Questo mi sembra importante, soprattutto perché non esiste oggi invece, in modo altrettanto visibile, niente del genere da parte di autori italiani. Questa vostra capacità di fare gruppo è solo una mia impressione o è anche la tua?
Personalmente ho cercato di contattare subito i vari scrittori, di cui vedevo in giro i testi, per incontrarci, perché avevo capito che noi stiamo vivendo in Italia la situazione che Césaire, Senghor e tutto il gruppo dei Négro-africains avevano vissuto quando erano in Francia, cioè stava per iniziare un percorso tale che sentivo necessario formare un gruppo. All’inizio c’è stato anche il discorso editoriale che ci ha spinto ad unirci. Dopo la prima fase, che Gnisci definisce come “esotica”, siamo entrati in una fase “carsica”, dove l’interesse era solo da parte di piccole case editrici che si interessavano al fenomeno e avevamo difficoltà ad essere pubblicati, mancava un canale. Eks&Tra ha fatto molte cose, ha permesso a molti di noi di emergere, però non volevamo finire definitivamente in un canale così, allora abbiamo pensato di trovarci e tutti assieme fare una casa editrice nostra. Quando ci siamo trovati invece, il primo pensiero che abbiamo avuto è stato quello di fare un movimento letterario, perché avevamo coscienza che stavamo per fare qualcosa di nuovo per questo paese, però ci siamo chiesti che cosa ci univa, in base a che cosa potevamo fare un movimento letterario e se l’esperienza della migrazione era sufficiente per permetterci di stare insieme. Ci siamo accorti che non era possibile. Sono venuti scrittori brasiliani, etiopi, senegalesi, di Capo Verde e ci siamo accorti che l’esperienza della migrazione era un legame per tutti quanti però tra di noi c’erano gli “scrittori migranti”, cioè che già erano scrittori nel loro paese, e molti “migranti scrittori”, che sono cioè diventati scrittori a partire dall’esperienza della migrazione. Eravamo talmente diversi che non potevamo unirci, molti “scrittori migranti” poi non ci tenevano ad essere miscelati con i “migranti scrittori”, perché sentivano di essere già arrivati a un certo livello e per loro era penoso il percorso di tornare ad essere di nuovo anonimi, ricominciare da capo e abitare una lingua nuova. Allora abbiamo provato a scrivere un Manifesto e ci siamo accorti che questo ha cominciato a creare una divisione tra di noi, perché qualcuno voleva che questo manifesto fosse aggressivo rispetto al mondo letterario italiano per affermarci subito, mentre altri pensavano che non era questo il metodo. Personalmente la nostra poetica la vedevo più soave, la vedevo come una poetica che dovesse essere in crescita, non potevamo imporci. Che cosa avevamo scritto per dire che noi eravamo quelli che venivano a rifecondare la letteratura italiana? Non era pensabile un atteggiamento di questo genere e questo ha creato delle divisioni. Poi, insieme a Gabriella Ghermandi, Pap Khouma, Raffaele Taddeo, Marcelo Vega, Smari Abdel Malek abbiamo voluto rovesciare il processo e abbiamo cercato di fare insieme qualche cosa per ricompattarci e dare visibilità a noi e alle nostre opere, ma avevamo il problema della mancanza di mezzi economici. Prima abbiamo provato con la Comunità europea, per poter utilizzare i loro fondi e fare una casa editrice, poi con altre associazioni o altre riviste on-line come la Exiled Writers' Ink che è la rivista dei poeti esiliati in Inghilterra, ma non siamo riusciti a trovare una collaborazione e allora abbiamo deciso di cercare i fondi per fare una rivista nostra che non ci desse problemi economici grazie all’uso dei mezzi moderni di comunicazione come Internet ed è nata El Ghibli. Abbiamo trovato grazie alla tenace intraprendenza di Gabriella Ghermandi come sponsor la regione Emilia Romagna e la provincia di Bologna che con la presentazione dell’associazione La Tenda di Raffaele Taddeo ci hanno dato i fondi per partire con questa rivista on-line, con un comitato editoriale che prima era composto anche da tanti altri scrittori che facevano un forte lavoro di volontariato. I testi che arrivavano bisognava leggerli tutti, valutarli tutti e inserirli facendo il trattamento in html, per questo abbiamo dovuto anche imparare il linguaggio telematico e trovare in Alberto Maurizi un webmaster che ci sistemasse la rivista secondo la filosofia che noi volevamo dare alla rivista stessa, una filosofia di open source, cioè volevamo che fosse aperta a tutti e che tutti vi potessero accedere usando il software libero. La rivista è partita molto bene anche se abbiamo perso per strada l’apporto di alcuni scrittori. Abbiamo visto col tempo che sempre di più molti che facevano ricerche o tesi di laurea ci prendevano come punto di riferimento. Abbiamo creato anche varie sezioni, come la Stanza degli ospiti, in modo che gli italiani (emigranti stanziali) potessero mandare le loro opere, abbiamo fatto una sezione che per noi è importante, quella della Generazione che sale, in cui gli alunni delle scuole, emigranti o no, possono scrivere qualcosa sul tema del viaggio, inteso anche in senso lato, ad esempio il viaggio verso gli altri e dentro se stessi o il viaggio fisico della migrazione. Poi abbiamo Parole dal mondo con scrittori dalla Danimarca, dall’Inghilterra, dalla Francia… che ci mandano i testi e noi facciamo la traduzione dalla loro lingua originale alla lingua italiana, anche questo è un lavoro molto gravoso che prima facevamo gratuitamente. Inoltre abbiamo deciso di creare una Sezione Internazionale perché quelli che partecipavano a Parole dal mondo dicevano: “Voi capite i nostri testi perché li traducete in italiano ma noi non riusciamo a capire i vostri quindi vogliamo una sezione internazionale dove anche noi possiamo arrivare ai vostri testi”. Ci servivano dei fondi e la provincia di Milano ci ha dato questa possibilità: quindi scegliamo i testi migliori di quello che è già stato pubblicato e lo traduciamo in arabo, in inglese, in francese e in spagnolo e siamo in grado, con i fondi che abbiamo avuto, di pagare dei traduttori, però la base del comitato editoriale continua a fare sempre un lavoro di volontariato. Adesso c’è Pap Khouma che è il direttore della rivista, c’è Raffaele Taddeo, Gabriella Ghermandi, Candelaria Romero, Mia Lecomte, io, Ubax Cristina Ali Farah, siamo sette persone che lavoriamo sulla rivista. Tutti leggiamo i testi, tutti facciamo la valutazione secondo una media che è stabilita, anche se ognuno ha il suo modo soggettivo di giudicare i testi, dopo di che io e Gabriella componiamo il numero, lo presentiamo agli altri e creiamo un equilibrio tra le varie sezioni. Poi parte il gruppo dell’editing, costituito da Raffaele Taddeo e Mia Lecomte, che si legge tutto il testo. Dopo che abbiamo finito il trattamento sulla pagina di prova, che rimane visibile solo per noi, inseriamo i testi, avvisiamo gli autori di andare a controllare se il testo corrisponde esattamente a quello che ci hanno mandato, e poi torna tutto all’editing. Raffaele e Mia si rileggono di nuovo tutti i testi e quando tutto è pronto mandiamo a tutti quelli che sono iscritti la newsletter con la notizia dell’uscita. Noi abbiamo come scadenza il 15 di ogni tre mesi: 15 Dicembre, 15 Marzo, 15 Giugno, 15 Settembre. Ogni giorno abbiamo circa 400 accessi al nostro sito, che è una cosa che non avevamo sperato inizialmente, da tutte le parti del mondo, dalla Costa Rica, all’Australia, dall’America ai Paesi Arabi. Adesso poi che facciamo queste versioni in lingua araba, c’è un grande acceso dai paesi di lingua araba e la rivista sta diventando un punto di riferimento anche per gli altri scrittori migranti, anche perché vi è anche un Supplemento, che diventa memoria storica di questo fenomeno della letteratura migrante. Infatti stiamo riprendendo in questo Supplemento tutti gli autori maggiori con un’analisi storica e letteraria dei loro testi, in modo che rimanga la memoria di questi testi, perché per esempio non riuscivamo più a trovare in giro le copie di Io, Venditore di Elefanti di Pap Khouma e abbiamo pensato che correvamo il rischio che un giorno non troveremo più questi testi. Vogliamo fare in modo che rimanga la memoria storica di questo evento in cammino, quindi abbiamo iniziato a creare, questo lo sta facendo Raffaele Taddeo, una biblioteca reale, concreta, di tutti i testi della letteratura della migrazione. Adesso tutti gli autori mandano sempre una copia a Raffaele che ne fa una recensione e tiene, fisicamente, in casa tutti i testi che escono, in modo che non si perdano e per poter salvaguardare, sia che si tratti di autori minori o maggiori, quello che per noi è un patrimonio culturale importante.
La tua professione di medico incide sulla tua scrittura o sono due ambiti completamente separati?
Sono essenzialmente due attività separate che si influenzano l’un l’altra prosaicamente, primo perché sono molto più tranquillo di scrivere dato che non vivo di scrittura e non è poco, perché chi vive di scrittura vive a volte delle situazioni molto difficili. In Italia, oggi, o uno scrittore pubblica barzellette o difficilmente guadagna abbastanza da poter vivere, il fatto di avere una posizione professionale sicura che mi permette di soddisfare i bisogni personali e della famiglia è già una tranquillità. D’altra parte essendo una professione che richiede ore di disponibilità notturna, reperibilità ecc., molte volte mi trovo ad aspettare a casa che succeda qualcosa e ho anche il tempo di scrivere, mi torna comodo. Quando sono reperibile accendo il mio computer e comincio a scrivere e molte volte in questi ritagli di tempo rendo di più di quando mi programmo di scrivere. Nel parlare e nello scrivere, se il tema è la medicina, assumo in genere l’atteggiamento del profano, non scrivo da esperto di medicina, non voglio che traspaia che sono un esperto di medicina, non voglio scrivere un trattato di medicina. Quando parlo di una malattia, ne parlo come ne parlerebbe un profano, cerco di evitare la terminologia specifica medica. Sicuramente l’approccio all’impostazione della scrittura è legato alla formazione chirurgica: quando racconto una storia parto, poi incido e arrivo per strati, quindi la metodica nasce dalla formazione mentale che ho acquisito durante gli studi di medicina.
Quali sono stati e quali sono oggi i tuoi rapporti con il tuo paese di origine?
Ho dovuto lasciare il mio paese molto presto e credo che questo abbia influenzato molto il ripiegamento identitario, lo chiamo così, che ho vissuto, secondo me, in modo positivo. Avendo lasciato presto la mia casa, anche se tornavo per le vacanze, ho avuto più curiosità forse verso la mia cultura rispetto agli altri che erano nel paese, addirittura io so che i miei si stupiscono che io conosca dei rituali che ormai tanti giovani del mio paese non conoscono più, perché io li volevo conoscere, perché sono stato allontanato e avevo maggiore curiosità nel conoscerli, soprattutto i rituali magici, i rituali di tradizione. Come si fa nei saluti, nel chiedere la mano o quando ci si sposa, penso di saperlo meglio dei miei fratelli che non si sono mai mossi dal Togo. Nella mia scrittura c’è anche il rapporto con la mia terra: è ovvio che avendo ancora nelle orecchie le storie che gli zii ci raccontavano la sera nel cortile, questa tradizione orale del racconto è parte integrante di me e mi piace molto raccontare. Se devo raccontare qualcosa, comincio a raccontare tutto dall’inizio, con tutti i passaggi, perché veramente chi sta ascoltando entri dentro all’atmosfera, e uso la stessa idea quando scrivo, sento proprio il bisogno di raccontare in questo modo, però il problema è che mi sono trovato in una società che sempre di più vuole sintesi, che vuole che quello che viene scritto sia sintetico, concentrato. La scommessa che io volevo portare nella scrittura era il falò dell’oralità, la chiamo ricerca di “oralitura”, il cercare di portare il ritmo dell’oralità nel testo scritto e ci ho provato nei miei racconti in modo da rallentare addirittura a volte il ritmo del racconto per portarvi dentro il lettore e descrivere delle cose in modo da introdurlo dentro il testo. Ad esempio, molti dei miei testi, quasi tutti, li leggo ad alta voce perché deve essere per chi lo legge come se lo stesse sentendo, come se si fosse lì a raccontarglielo, che, aldilà della scrittura, abbia l’impressione del racconto orale e leggendo ad alta voce ritrovo il ritmo dell’oralità. Alcuni mi accusano che il mio linguaggio è troppo banale, troppo semplice. La domanda di fondo è: “Io, perché scrivo?” Si scrive per comunicare con gli altri, è inutile scrivere una cosa ermetica che poi gli altri non riescono a capire, io scrivo perché la gente possa capire quello che voglio dire e il modo più semplice dove posso coinvolgerla è l’uso di metafore, di immagini che la coinvolgano e le facciano vedere le cose. Quando descrivo dei paesaggi trovo che è come se i lettori fossero lì, quando descrivo il cortile della vecchia Nukuku in Quando attraverserò il fiume voglio portare il lettore seduto anche lui nel cortile che vede gli anziani seduti sotto l’albero che stanno annusando il tabacco, stanno sentendo o masticando la noce di cola, cioè voglio portarlo dentro, farlo vivere dentro. È un piacere per me raccontare, quando poi finisco di raccontare immancabilmente la storia vola, se ne va per conto suo. Anche raccontando gli Imbarazzismi ho voluto concentrare in uno sketch un episodio, lasciando poi l’interpretazione molte volte al lettore stesso, altre volte portando la morale attraverso questo angelo che compare ogni tanto a fare un piccolo commento, sempre usando l’arma dell’ironia, perché il ridere fa luce nelle tenebre. Quando una persona ride apre la bocca ed è come se aprisse un varco dentro di sé dove tu puoi entrare; riuscire a far ridere una persona vuol dire aver già abbattuto una difesa importante, se uno si mette in posizione di difesa e si chiude, il messaggio non passa, mentre l’ironia, secondo me, è un’arma vincente, ce ne vorrebbe sempre di più perché fa passare più facilmente il messaggio alle persone.
Questo discorso che hai fatto sull’oralità ricorda molto quello che ha detto Igiaba Scego e a maggior ragione quello di cui ha parlato Gabriella Ghermandi, che addirittura rifiuta l’idea di pubblicare proprio perché è molto importante per lei l’elemento dell’oralità, dell’invenzione e della re-invenzione nel momento dell’oralità. Tutto questo è molto interessante: per un verso si lega alla nostra cultura contemporanea e alla ripresa dell’oralità, come si può vedere in certa produzione teatrale, come ad esempio in Celestini e Paolini, ma per un altro è assai distante dalla letteratura italiana. Mi chiedo se questa caratteristica della scrittura sia comune anche ad altre produzioni di migranti o se sia più specificamente di provenienza africana.
Sicuramente è più specifica della tradizione africana, perché è propria della condizione africana, afro-italiana, ma anche franco-africana, soprattutto di scrittori come Ahmadou Kourouma che ha introdotto già questo nella sua scrittura: in Aspettando le bestie selvagge il suo linguaggio è intriso di oralità. Forse, per deformare la lingua francese, ha voluto creare una sintesi totale tra la lingua malinké e la lingua francese, importando, ad esempio, anche dei modi di dire. Personalmente invece di “questo ragazzo mi piace”, dico “tutto di lui fa prurito al mio cuore”. Questa è una tradizione orale, un modo di dire; dire “lui mi piace” è comune, banale, mentre riportare questo modo di dire orale diventa molto importante, più incisivo. La scrittura non riesce a riprodurre la tonalità della voce, l’espressione del viso, la gestualità, la partecipazione del pubblico e la ripetitività, quando uno fa un discorso orale tende a ripetere alcune cose, quando scrivo invece quello che è in più l’editor lo cancella perché magari è ripetitivo, senza capire che è una ripetizione voluta. Ho avuto questo problema quando cercavo di ricreare il parlato, l’editor mi accusava di ripetermi troppo, senza capire che era volutamente scritto in quel modo. Un bisogno di agganciarsi alla tradizione orale è un bisogno di ricongiungersi con la memoria tramite l’uso e il recupero di quelli che sono i detti, i proverbi, perché sono elementi della tradizione orale è come setacciare la memoria collettiva. La scrittura è un fatto tutto individuale, invece il riportare un proverbio che è passato da orecchio a orecchio e quindi è resistito nel tempo è la memoria storica dell’Africa. Il recupero della mia appartenenza è il recupero di elementi della mia cultura; non li considero elementi folcloristici, non ricerco gli elementi di folclore, ricerco gli elementi culturali che poi in fondo sono cose universali. Come lo scrittore togolese Kangni Alem faccio mia la formula del portoghese Miguel Torga: “L’universale è il locale senza le mura”, cioè vorrei riuscire a riprodurre dei luoghi molto comuni dove in un attimo tutti possano ritrovarsi dentro. Sono convinto che da parte mia, l’apporto che posso dare a questa letteratura migrante è quello dell’“oralitura”, è quello di riportare il valore della cultura orale dentro il tema della scrittura.
Immagino che questo sia legato alla condizione della cultura di partenza. Quando tu parli della tua scrittura e di quella dei compagni che scrivono accanto a te, mi viene in mente un fatto che a chi è di origine italiana salta abbastanza prepotentemente agli occhi. C’è nelle parole che dici una fiducia nella scrittura, una fiducia nel lettore che invece gli scrittori italiani in genere non hanno. C’è molto più forte nella cultura europea, non solo italiana, a partire dal Decadentismo, da Baudelaire ad esempio, l’idea dello scrivere contro il lettore. Sei d’accordo su questa interpretazione?
Ho molta fiducia nel lettore, un po’ istintivamente, un po’ per i riscontri che ho avuto personalmente dalle lettere che mi arrivano e da quello che la gente mi scrive. Per esempio, una pittrice napoletana ha comprato il mio libro sulla spiaggia, Neyla, e ha fatto tutta una mostra partendo dall’idea di Neyla. Mi ha scritto una signora della campagna bolognese all’ospedale di Erba perché aveva visto in copertina che lavoravo lì e regolarmente almeno due volte a settimana ricevo in ospedale delle lettere di lettori che non mi conoscono e che si sono immedesimati nelle mie storie. Tanti mi incoraggiano dicendo: “Continua a scrivere, è da tanto che non leggo più qualcosa che mi ha colpito, mi ha preso dentro all’anima o in cui mi sono immedesimato così”. Vedo che tanti siti Internet hanno ripreso parte dei miei testi o di Imbarazzismi o di Neyla. Questa fiducia che ho nel lettore ce l’ho perché ottengo un riscontro positivo, un paziente su tre che entra nel mio studio mi chiede quando esce il mio prossimo romanzo. Sento di essere letto, per questo, in un certo senso, le critiche da parte della “Critica” mi lasciano non dico indifferente, perché indifferenti non si è mai e quando uno legge qualcosa di negativo se è una cosa sulla sua scrittura ci rimane sempre male, però la prendo come una opinione da mettere a confronto con tutte le altre che mi arrivano di positivo.
Quali sono i tuoi autori preferiti?
Mi piace molto Guy de Maupassant, perché mi sono innamorato dei suoi racconti, per me il racconto è l’ideale. Quando scrivo cerco di immedesimarmi dentro ai personaggi e il romanzo mi richiede fatica, mentre in un racconto posso sempre tornare indietro a rileggere e rifare sempre questo lavoro. Conosco degli scrittori che quando scrivono i testi fanno una programmazione di tutto, io so dentro di me quello che voglio dire però per immedesimarmi nei personaggi devo sempre rileggere quello che ho scritto su questi personaggi, nel romanzo, questo processo è una fatica immane. Quindi amo il racconto e mi è sempre piaciuto molto leggere i testi di Maupassant, ma amo molto anche tutta la produzione di Zola, perché riesce a portarmi in situazioni realistiche, c’è un realismo forte nella scrittura di Zola. Per quanto riguarda la poesia francese mi piace molto Baudelaire, e le sue immagini le ho anche presentate alla maturità. Invece i primi testi con cui io ho avuto a che fare in Italia erano di Calvino, ad esempio Il cavaliere inesistente, che mi piaceva perché con lui ho ritrovato la dimensione del racconto. Anche se mi dicono che il racconto non va di moda e bisogna scrivere per forza un romanzo perché magari il racconto non vende, ho un’inclinazione per i racconti. Se devo indicare ai miei figli il libro migliore da leggere, dico sempre Calvino, qualunque libro sia.
Forse è interessante, almeno per un lettore italiano, che i tuoi libri vendono almeno 40 mila copie ciascuno.
Bisogna dire prima di tutto che i miei libri editi da Ediarco sono venduti per strada dai ragazzi della Cooperativa Gruppo Come. Mi piace l’idea del libro che viaggia, che migra. Ho coscienza che questo successo di vendita è sicuramente legato al modo di distribuzione, molti magari comprano i miei libri per liberarsi del ragazzo che glieli vende, però molti di questi mi scrivono poi dicendo che l’hanno comprato perché mentre aspettavano il treno o l’autobus c’era questo ragazzo che insisteva e alla fine l’hanno preso, ma poi hanno perso la stazione di arrivo perché erano troppo presi dal libro. A volte lasciano dei messaggi su Internet raccomandando a tutti di non mandare via quei ragazzi perché hanno dei testi interessanti. Spesso vado in Internet, un po’ per narcisismo, e una volta ho trovato un sito legato al mio nome di alcuni ragazzi del comasco che dialogavano tra loro: uno diceva che sarebbe stato interessante organizzare una serata sul tema dell’immigrazione invitando magari l’autore di Imbarazzismi, l’altro rispondeva: “Figurati se risponde al nostro invito!” Mi sono inserito anch’io e ho scritto: “Chiedete e vi sarà dato!” L’incontro si è svolto ed è andato a buon fine.
Intervista rilasciata a Velio Abati e Walter Lorenzoni per Il gabellino-periodico della fondazione luciano bianciardi-anno VIII, numero 13, giugno 2006-dossier 14 p. 38-43
Kossi Komla-Ebri è nato in Togo nel 1954, sposato e padre di due figli, è cittadino italo-togolese residente a Ponte Lambro (Como). In Italia, è dal 1974, si è laureato a Bologna nel 1982 in Medicina e Chirurgia, specializzandosi in Chirurgia Generale all'università degli Studi di Milano. Oggi lavora presso l'ospedale Fatebenefratelli di Erba. Tra i suoi libri, “Imbarazzismi” e “Neyla” home |