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Sagarana La Lavagna Del Sabato 06 Febbraio 2010

NELLE BRACCIA DELL'OCCIDENTE



Lucio Caracciolo


NELLE BRACCIA DELL'OCCIDENTE



 

"QUESTA tragedia è una cosa buona per noi, perché ci fa pubblicità". La
frase sfuggita a George Samuel Antoine, console di Haiti a San Paolo del
Brasile, davanti alle telecamere dell'emittente Sbt, a prima vista appare un
distillato di puro cinismo. Ma rivela probabilmente la speranza di molti
haitiani sopravvissuti al terremoto: assoggettarsi a un protettorato
internazionale. Nel senso pieno del termine. Meglio un governo di stranieri
che l'anarchia e le vessazioni dei banditi. Se poi questi stranieri sono
americani, capofila di una cordata con Brasile, Francia e Canada, investiti
delle responsabilità primarie in quanto potenze più influenti sull'isola,
tanto meglio.

Le assicurazioni della Casa Bianca di non voler governare Haiti, obbligate
dal bon ton diplomatico, passano in second'ordine di fronte all'immediato,
robusto e assai esibito impegno americano nel dopo-terremoto. Per il primo
paese indipendente dell'America Latina (1804), nel quale Simon Bolivar trovò
rifugio e assistenza, sperare nella colonizzazione nordamericana è un bel
paradosso. E forse si rivelerà una chimera, quando fra non molto i
riflettori dei media saranno spenti. Ma nell'ora più triste e insieme più
globale di quella terra miserrima, come negare ai sopravvissuti il sogno di
un futuro diverso? Di diventare un altro Puerto Rico?

La catastrofe che il 12 gennaio si è abbattuta su Port-au-Prince e su
milioni di haitiani ha scatenato una nobile competizione fra nazioni,
organizzazioni internazionali e associazioni private a chi soccorre prima e
meglio i superstiti. La solidarietà di cui siamo testimoni esprime quel
senso di appartenenza al genere umano - al di là di razza, credo, storie e
frontiere - che solo le grandi emergenze sanno suscitare. Nelle scelte dei
maggiori leader mondiali e regionali si possono però intravedere anche le
strategie geopolitiche che segnano questa competizione non solo umanitaria.

A cominciare da Obama: "Questo è un momento che richiede la leadership
dell'America". La mobilitazione militare e civile, l'impegno personale del
presidente, la formidabile eco mediatica rivelano che lo spirito missionario
degli americani, pur in tempi di crisi, resta vivo. Su questo slancio, Obama
si propone di raggiungere tre obiettivi.

Primo e principale: non ripetere l'errore di Bush, che di fronte allo
tsunami asiatico del 2004 e soprattutto al disastro provocato l'anno dopo
dall'uragano Katrina, si mostrò torpido e distratto. Confermando l'immagine
di una superpotenza egoista e declinante. E destando il sospetto che
asiatici e neri americani - le vittime "invisibili" dello tsunami e di
Katrina - non fossero per Bush meritevoli di attenzione. Da quella pessima
performance del suo predecessore, più ancora che dal disastro iracheno,
Obama trasse la convinzione di poter competere per la Casa Bianca. Oggi che
la sua stella non brilla come i suoi sostenitori speravano un anno fa, il
presidente non poteva farsi cogliere impreparato da una simile emergenza.

Secondo: dare profilo specifico alla sua visione - finora piuttosto
retorica - degli Stati Uniti come potenza capace di esprimere la propria
egemonia non attraverso l'esibizione o peggio l'impiego della forza, ma
raccogliendo intorno a sé ampie coalizioni internazionali. E assumendosi la
responsabilità di guidarle. Sotto questo profilo, Haiti è il caso perfetto:
un'impresa umanitaria dall'eco planetaria, circoscritta nel "cortile di
casa" americano, lo spazio caraibico. Dove non esistono potenze in grado di
competere con il colosso a stelle e strisce. La Cina è lontana. Degli
europei conta solo la Francia, sollecitata in questo caso dal richiamo
storico e culturale della francofona Haiti. Riferimento che spiega anche
l'interesse canadese, o meglio del Québec, che per rafforzare la sua
impronta francofona ha importato una vasta colonia haitiana. Parigi e Ottawa
peraltro si muovono di concerto con Washington.

Terzo: impedire che forze nemiche o inaffidabili prendano piede a Haiti. Un
classico Stato fallito, di fatto non governato da nessuno. Haiti non è la
Somalia, certo. Ma i recenti corteggiamenti venezuelani al presidente
Préval, sostanziati da forniture energetiche e progetti infrastrutturali,
miravano a calamitare Haiti nell'Alba, l'asse antiamericano guidato da
Caracas e L'Avana. L'intervento di Obama, che intende porre gli haitiani
sotto la provvisoria (?) tutela statunitense, serve anche a stroncare tali
velleità. Intanto, Cuba ha aperto il suo spazio aereo ai voli di soccorso
americani. Mentre la base di Guantanamo - più nota come prigione per
terroristi che Obama prometteva di chiudere e non ha chiuso - funge da hub
logistico per le operazioni Usa nell'isola terremotata, da cui la separa
solo uno stretto di un centinaio di chilometri, il Windward Passage.

Il principale partner degli Stati Uniti in questa operazione è il Brasile.
Insieme ai primi soccorsi, Lula ha inviato sul posto il ministro della
Difesa Nelson Jobim. A Haiti sono schierati 1.266 soldati brasiliani
impegnati nella missione Onu di stabilizzazione (Minustah), a guida
verde-oro. L'impegno che si protrae da sei anni, con scarso successo, non è
unicamente volto a riportare l'ordine a Haiti. Vuole anche illustrare le
ambizioni brasiliane di potenza non solo sudamericana ma tendenzialmente
panamericana. Dunque proiettata anche verso i Caraibi e l'America centrale.
In un rapporto di cooperazione/competizione con gli Stati Uniti, da cui
pretende un trattamento paritario. Brasilia peraltro resta refrattaria alle
gesticolazioni neobolivariste di Chavez e alla sinistra radicale di Ortega
(Nicaragua), Morales (Bolivia) e Correa (Ecuador).

Quando l'emergenza haitiana sarà trascorsa, speriamo con duraturo sollievo
per quella popolazione, potremo procedere a una doppia verifica geopolitica.
Per l'America, vedremo se avrà dimostrato con successo che non intende
tollerare Stati falliti nell'"estero vicino". Destinati forse un giorno a
fungere da trampolini di lancio di potenze ostili od organizzazioni
terroristiche. Quanto al Brasile, stabiliremo se la sua proiezione di
potenza oltre la frontiera sudamericana può sostanziarsi in una sfera
d'influenza privilegiata, magari in coabitazione con gli Stati Uniti. Così
ponendo fine all'assoluta, bisecolare egemonia a stelle e strisce
sull'emisfero occidentale.
 




(Tratto da La Repubblica on-line, del 16 gennaio 2010.)




Lucio Caracciolo
Lucio Caracciolo




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