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Sagarana La Lavagna Del Sabato 02 Luglio 2011

QUALE FUTURO PER L’OPERA



Aprirsi alla modernità e conquistare un pubblico nuovo? O restare fedeli alla tradizione? È il dilemma di registi, direttori d’orchestra e istituzioni teatrali


Jordi Llovet e Miguel Muñiz De Las Cuevas


QUALE FUTURO PER L’OPERA



 

IL TRIONFO DEL POSTMODERNO

 
Jordi Llovet
 
 
 
 
Negli ultimi anni, nei teatri dell’opera di tutta Europa, abbiamo assistito a una proliferazione di messe in scena insolite. In alcuni casi sono stati oggetto di dibattiti, in altri hanno causato più di una perplessità, in altri ancora hanno suscitato un’approvazione incondizionata ed entusiasta. Abbiamo visto il Don Giovanni dell’opera omonima di Mozart avere un amplesso all’interno di un’automobile e poi lasciare alla platea un preservativo con il suo presunto contenuto, mentre in un allestimento del Ratto del serraglio, sempre di Mozart, uno dei protagonisti esclamava: “Vado a cercare un maiale perché ti scopi e ti vomiti in faccia”. A Salisburgo è andato in scena un King Arthur, di Henry Purcell con tanto di soldati della Wehrmacht e un soprano che agitava i seni nudi con fare volutamente osceno, e Un ballo in maschera di Verdi con una dozzina di personaggi intenti a defecare nei loro rispettivi water subito dopo l’apertura del sipario.
Gli appassionati di opera, e i lettori di giornali in generale, conoscono fin troppo bene questo tipo di spettacoli; è la loro carica provocatoria – innovatrice nel migliore dei casi – ad alimentare le polemiche e ad attirare gli spettatori a teatro. Di fronte a questo fenomeno non ha senso scandalizzarsi. È più utile cercare di capire cosa si nasconde dietro questa proliferazione, davvero spropositata, di messe in scena “non convenzionali”.
L’opera è un’invenzione dei seicento, da attribuire in particolare a Monteverdi, che concepì il suo fondamentale Orfeo come una favola in musica: un’opera drammatica arricchita, secondo le esigenze estetiche del teatro barocco, dall’elemento musicale. Anche se il dibattito sulla natura stessa dell’opera – “prima la musica e poi le parole” o viceversa – è andato avanti fino al novecento, rimane il fatto che non esistono opere senza libretto, ma nemmeno senza musica: i due elementi sono inseparabili, e riuscire a fonderli nel modo migliore è da sempre l’aspirazione di ogni compositore.
Alcuni sodalizi sono stati particolarmente felici: quelli tra Lorenzo Da Ponte e Mozart, Arrigo Boito e Verdi, il Wagner musicista e il Wagner librettista, ma soprattutto quello – straordinario – tra Hugo von Hofmannsthal e Richard Strauss. Altre collaborazioni, invece, hanno avuto minore successo. Ma librettisti e compositori hanno sempre cercato di costruire una storia partendo da una partitura. Tutte le opere sono lavori drammatici che raccontano un fatto nell’ambito di un contesto sociale, politico, religioso e musicale ben determinato e circoscritto nel tempo.
Nell’allestire un’opera, nessuno ha mai osato mettere le mani sull’elemento musicale, mentre molti hanno modificato la parte letteraria. Il motivo, probabilmente, non è che il pubblico di oggi si è stancato delle Aide piene di sfilate interminabili di elefanti e soldati. Piuttosto, mancano ormai i riferimenti epistemologici per capire a fondo una messa in scena che rispetti le circostanze della genesi di un’opera. Se si vuole comprendere l’originale portata drammatica delle Nozze di Figaro, bisogna fare lo sforzo di riportare alla memoria l’ambiente sociale della fine del settecento. Bisogna ricordare che all’epoca i signore godevano ancora di alcune prerogative dell’antico ordine feudale – come lo jus primae noctis – e che la servitù della gleba cominciava proprio allora a ribellarsi contro leggi così vergognose. La grandezza di una messa in scena scrupolosamente rispettosa dell’originale sta proprio nella fedeltà alle circostanze storiche: così l’opera diventa una lezione di storia, un quadro degli usi e costumi di un’altra epoca in grado di offrire, grazie a una musica adeguata agli eventi, una visione generale e sintetica del passato. È proprio qui il nocciolo della questione, il motivo che spiega il moltiplicarsi, negli ultimi anni, di allestimenti audaci e stravaganti. Spinti forse dall’ignoranza dei direttori di scena, dalla falsa convinzione che il pubblico non sia in grado di capire dal desiderio – ormai passato di moda – di épater le bourgeois, i registi hanno scelto di realizzare adattamenti comprensibili solo alla luce di un fenomeno molto triste: la crescente difficoltà degli spettatori (amanti o meno del genere operistico) ad avventurarsi nel “viaggio ermeneutico” necessario per capire qualsiasi opera d’arte.
L’abitudine a scegliere adattamenti insoliti rimarrà in voga per molti anni ancora, perché i meccanismi culturali del postmoderno in cui siamo intrappolati tendono a eliminare lo spessore della dimensione storica, ostacolando l’avvicinamento alle categorie intellettuali del passato. Favoriscono, invece, una visione dell’arte piatta e sradicata da ogni riferimento storico. Un presente “liquido”, sempre più sbiadito, disinibito e aperto a qualsiasi stupidaggine si fa strada a passi da gigante. E preclude sempre di più la possibilità che il pubblico si avvicini a un fatto artistico (politico, religioso o di qualsiasi altro tipo) con intelligenza e con una memoria elaborata, in grado di cogliere l’essenza del passato. Il postmoderno, insomma, si è appropriato anche dei teatri dell’opera. Per colpa delle sue astuzie è andato perduto un altro dei riferimenti che ci permettevano di capire qual è il nostro posto nel grande teatro di cause ed effetti della storia.
 
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INNOVARE PER SOPRAVIVERE
 
Miguel Muñiz De Las Cuevas
 
 
La musica classica in generale, e l’opera in particolare, sono forme d’arte che interessano una minoranza della popolazione: trasformare questo pubblico di nicchia in una “immensa minoranza” è allo stesso tempo un obiettivo e un dovere civile, umanistico e democratico.
Il problema non è più solo che gli appassionati d’opera sono una minoranza, ma anche che spesso costituiscono un gruppo chiuso ed esclusivo.
Aprirlo e ampliarlo è possibile solo a patto di eliminare la sua dimensione elitaria e di mettere in contatto l’opera con il mondo contemporaneo, rendendola moderna e adatta al futuro.
Il prestigio sociale dell’opera snatura la percezione dello spettacolo e allontana una fetta importante di potenziali appassionati, soprattutto tra i giovani. La dimensione esclusiva ed elitaria dello spettacolo operistico è sempre esistita, e ha avuto una ragion d’essere finché questa forma di arte, assai dispendiosa, è stata sovvenzionata dalle élite. Oggi, però, è diventata un fattore negatico: trasforma i teatri in templi, tiene lontani gli spettatori comuni e impedisce l’ingresso a un pubblico nuovo.
 
I nuovi linguaggi creativi
 
La visione moderna e innovatrice dell’opera riguarda non solo le opere contemporanee, ma anche – e forse soprattutto – quelle tradizionali. In queste ultime, se pure il libretto e la musica rimangono fedeli all’originale, il meccanismo drammaturgico ammette approcci innovativi e perfino rivoluzionari nella messa in scena. È quello che il filosofo Salvador Pániker chiama “retro progressismo”.
Reinterpretare e attualizzare un’opera, senza svilire la sua essenza e rispettando la musica e il libretto, è possibile: si tratta di un’operazione indubbiamente rischiosa, ma fondamentale, e in ogni caso inerente a qualsiasi creazione artistica. Così come un’opera rivisitata non perde necessariamente il suo valore universale, allo stesso modo l’essenza del canto non viene tradita quando il “cantante-statua” (negli allestimenti tradizionali così come nell’attuale opera-concerto) diventa “cantante-attore” e fonde la sua voce con l’azione del dramma, le parole e la musica.
Nelle arti plastiche, i tentativi di rinnovare e rivoluzionare i linguaggi creativi sono stati accettati perché si è avuto il coraggio di trattare i temi tradizionali – religiosi, civili o psicologici – con assoluta libertà e con la disponibilità ad aprirsi a un pubblico più vasto. Le madonne dipinte degli artisti rinascimentali non hanno niente a che vedere con quelle di Murillo, e nessuna di queste ricorda il vero volto di Maria: tutte, però, nascono da una stessa tradizione. Il concetto di “scenografia” nell’Adorazione dei magi di Rubens non ha niente a che vedere con la realtà storica di quell’episodio. Lo stesso si può dire delle Meninas di Picasso: tutti questi esempi partono da radici concrete e da un passato che in nessun modo vengono snaturati.
Se si considera l’opera lo spettacolo totale per antonomasia, volendola adattare ai tempi attuali, non si possono chiudere gli occhi di fronte ai nuovi linguaggi che permettono il superamento dei limiti fisici del “teatro-tempio”. L’introduzione della fotografia, del cinema, del video, della televisione, delle nuove tecnologie e di internet apre frontiere creative che possono avvicinare all’opera un pubblico nuovo. Questi linguaggi sono già usati in alcune importanti istituzioni: il Liceu di Barcellona, in collaborazione con il Teatro Real di Madrid, trasmette opere in diretta via internet a più di quaranta università nell’ambito di un programma chiamato “Opera aperta”.
Una forma di arte finanziata in gran parte con fondi pubblici ha il dovere di sviluppare un progetto culturale basato sulla libertà di espressione, capace di superare le preferenze del suo pubblico tradizionale e di coinvolgere tutti gli appassionati: esperti e neofiti, conservatori e modernisti. Tutti i cittadini, amanti o no del bel canto, meritano lo stesso rispetto da parte delle istituzioni culturali, che devono sforzarsi di trasformare l’opera in un patrimonio comune. Anche se molti spagnoli non hanno mai letto il Don Chisciotte o non sono mai stati al Prado, il libro di Cervantes e il museo di Madrid sono comunque considerati un patrimonio della collettività.
C’è da augurarsi che il quattrocentesimo anniversario del debutto della prima grande opera, l’Orfeo, serva ad aprire un dibattito sul futuro di questa forma d’arte, al quale anche il Teatro Real di Madrid, che quest’anno celebra i suoi primi dieci anni di vita, ha intenzione di dare il suo contributo.




Tratto dalla rivista Internazionale n° 687, dell’aprile 2007





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