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Sagarana La Lavagna Del Sabato 18 Giugno 2011

CLARETTA



Loretta Emiri


CLARETTA



 

            Cos’è il ricordo? La memoria è una finzione verosimile, proprio come la letteratura. Possiamo servircene per edificare la nostra stessa identità. Ricordi risalenti a tenerissima età possono essere effettivamente trattenuti? Aveva tre anni e cinque mesi quando la nonna paterna morì, eppure crede di conservare nitide immagini a lei riconducibili. Esile e gentile, lo sguardo triste, piccole lenti cerchiate di metallo, un giornale o un libro sempre a portata di mano. Due lettini affiancati a quello matrimoniale: in uno dormiva il cugino, nell’altro lei quando trascorreva qualche giorno con la nonna. Passato l’arco su cui poggiava la camera da letto, c’era una strada inghiaiata abbellita da un muretto. Aggirato il muro e attraversata la stradina sottostante, si raggiungeva un giardino microscopico con su piantata una croce di legno, siepi e cespugli di rose. Una grande pietra, bassa e squadrata, fungeva da sedile. La maestra raccomandava di non cogliere fiori, nemmeno quelli spontanei, così che allietassero la vista di potenziali altri visitatori.
            Alcune volte la passeggiata fu più avventurosa. Attraversato il minuscolo centro abitato, costeggiavano la siepe della villa di signorotti del luogo e raggiungevano la località chiamata “San Carlo”. Era un terreno triangolare con su edificata una cappellina dedicata al santo; due lati del triangolo fiancheggiavano, rispettivamente, la strada di accesso al paese e un sentiero che portava ai campi. La magia del luogo derivava dall’intenso odore emanato dai pini, e dal tappeto di aghi regalante la sensazione che i passi non toccassero terra. Snocciolando il rosario, la maestra diceva di pregare per il marito. Nella testa della nipote frullavano domande ma, timida com’era, non riusciva a formularle; e poi quella vecchina gracile le incuteva una gran soggezione. Nonostante ciò, se dovesse scegliere degli aggettivi da abbinare ai rari momenti vissuti con quella nonna direbbe che furono piacevoli, definitivi.
             Da tempo immemorabile Scarpetta usa profumo alla fragranza di pino. Accorti stoccaggi le hanno permesso di non rimanerne mai sprovvista, nemmeno quando viveva in piena foresta amazzonica. Prima ancora di visualizzarla, amici italiani e brasiliani hanno percepito la sua presenza a livello olfattivo, presenza non dissociabile, appunto, dall’odore di pino. Non è riuscita a rendersi invisibile agli occhi del mondo ma, grazie a detrattori e coglioni, ci è andata molto vicino: i primi fanno del tutto per occultare o banalizzare la sua produzione; i secondi la ignorano o snobbano come persona, negandole anche informazioni minime che le permetterebbero di districarsi nell’aggrovigliata foresta editoriale. Non segue la moda: quelle appuntite come lame e con tacchi che fanno rumore, le considera armi non scarpe; usa solo calzature che le consentano di attraversare il mondo con la sensazione di stare camminando su un tappeto d’aghi di pino, senza far rumore, senza dar fastidio.
            Le poesie adolescenziali le scrisse nel primo diario: la madre ficcanasò nella sua opera prima e lei, in preda a rabbia e vergogna, in quel momento non trovò meglio da fare che bruciarla. A distanza di dodicimila chilometri e vari anni luce, la costruzione della sua identità letteraria continuò con l’elaborazione di un rapporto riguardante il progetto, che stava portando avanti fra gli indios Yanomami dell’area del Catrimâni, di alfabetizzazione di adulti nella lingua materna. Durante i sopraggiunti anni della fertilità partorì poesie in una lingua non madre. Non vergognandosi più dei propri sentimenti, fece addirittura questione di ricostruire a memoria le prime incenerite poesie, e in parte ci riuscì. Da ragazza, il fatto di aver avuto una maestra per nonna l’aveva tanto inorgoglita. In Amazzonia, realizzando ricerche linguistiche e sperimentazioni didattiche, l’aveva sentita costantemente vicina. Se un giorno fosse riuscita a scrivere qualcosa su di lei, sapeva che avrebbe parlato anche della nuora, di quella sgradevole, ottusa, meschina, invidiosa Gallina.
            A suo tempo, esaminando il libro Amazzonia portatile, il direttore editoriale di casa editrice imparentata con la Chiesa scrisse, fra l’altro, di avervi colto tracce di risentimento. Apparsole riduttivo e soffusamente spregiativo, Scarpetta ripose il parere in un cassetto per non permettergli di troppo ferirla. Tendiamo a rimuovere, in parte o completamente, quei ricordi in cui si annidano sostanze che ci contaminerebbero il carattere; ma, se dosate con sapienza, quelle stesse sostanze possono arricchirci l’identità. Oggi Scarpetta ha trovato la forza di recuperare memorie tossiche: scindendole e ridistribuendo i componenti, ne ha ricavato salutari gocce di riflessione. Nel dizionario il risentimento viene definito una reazione di sdegno o di irritazione provocata da un’ingiuria, un’offesa o qualcosa di simile; mentre risentire significa sentire di nuovo, ma anche sentire vivamente patendo, soffrendo, per danni morali o materiali. Certo di farle cosa gradita, in questi giorni un amico le ha mostrato una rivista missionaria in cui si parla dell’esperienza di alfabetizzazione tra gli Yanomami del Catrimâni; l’articolo accenna alle sperimentazioni di Scarpetta e alle pubblicazioni che ne sono risultate, eppure il suo nome è stato obbedientemente, castamente, poveramente omesso, così che il tutto sembra essere opera di altri. 
            Fu il risentimento a indurre Kafka a scrivere Lettera al padre? Avviene a livello inconscio, ma negli altri tendiamo ad individuare aspetti che ci ossessionano o caratterizzano. Il proverbio dice che la lingua batte dove il dente duole. Il cattolico direttore editoriale è risultato essere un ex prete: che i sassolini lanciati da Scarpetta nello stagno gli abbiano schizzato la lucente armatura di crociato? Un gran desiderio di verità e giustizia è alla base dell’esigenza di rivelare quanto la maestra abbia sofferto a causa di Gallina. Il mondo è dei prepotenti: la scrittura può almeno smascherarli. Difficilmente accettano di mettersi in discussione, raramente modificano i propri atteggiamenti: non valide ragioni per ridurci al silenzio se abbiano qualcosa di personale, di diverso, di sofferto da dire. Stare dalla parte dei perdenti, prendersi cura degli esclusi, denunciare soprusi ogni volta tornando a sentire vivamente, patendo e soffrendo, quelli vissuti sulla pelle. Auspicate conversioni possono non avvenire, non per questo ci sentiremo meno orgogliosi per esserci contrapposti a crociati e galline, per non averne favorito l’impunità con il nostro silenzio. Riuscire a portare in giro i prepotenti. Forgiare soprannomi tremendi che facciano loro drizzare i capelli. Fare in modo che, specchiandosi, non vedano più il riflesso di ciò che credono di essere, ma quello che sono in effetti. Un antidoto all’ingiustizia può essere ottenuto solo scindendo e ridistribuendo i componenti del risentimento.




Il brano “Claretta” è tratto dal libro Quando le amazzoni diventano nonne, pubblicato nell’aprile scorso dalla CPI/RR - Comissão Pró-Índio de Roraima.




Loretta Emiri
Loretta Emiri è nata in Umbria nel 1947. Nel 1977 si è stabilita in Roraima (Brasile), dove ha vissuto per anni con gli indios yanomami. Ha pubblicato il Dicionário yãnomamè-português, la raccolta poetica Mulher entre três culturas , il libro etno-fotografico Yanomami para brasileiro ver, il volume di racconti Amazzonia portatile.




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