La Lavagna Del Sabato 11 Giugno 2011 NAVIGARE NECESSE EST L’inevitabile bisogno di creare flussi di movimento fra Terra emersa e sommersa Marc Augé
L'urbanizzazione del mondo è un fenomeno di tale portata che un demografo l'ha potuto comparare al passaggio dell'umanità all'agricoltura. Il suo paradosso è che il fenomeno non corrisponde a una nuova sedentarizzazione, ma piuttosto alla nascita di nuove forme di mobilità. Ci sono due differenti aspetti che vanno considerati: a) la crescita dei grandi centri urbani; b) l'apparizione di filamenti urbani che saldano tra di loro le città esistenti lungo le vie di circolazione, i fiumi o le coste marittime. Questo fenomeno accompagna il processo noto come globalizzazione, che si definisce sia attraverso l'ampliamento del mercato liberale che attraverso lo sviluppo dei mezzi di circolazione e di comunicazione e che, in tal senso, configura una nuova forma di mobilità. Le città più importanti oggi non possono essere analizzate senza prendere in considerazione le loro infrastrutture stradali, ferroviarie e aereoportuali. Il legame con l'altrove è parte integrante del nuovo urbanismo. L'urbanizzazione esprime dunque tutte le contraddizioni di un sistema come quello della globalizzazione, il cui ideale di libera circolazione dei beni, delle idee, delle informazioni e degli esseri umani è notoriamente condizionato dalla realtà dei rapporti di forza che dominano il mondo. Possiamo qui richiamare le analisi di Paul Virilio che nel suo La bomba informatica ci ricorda che il Pentagono americano concepisce il globale come l'interno del sistema e il locale come l'esterno, «la periferia, per non dire l'estrema periferia del mondo». Sistema ideale che si apparenta a ciò che Francis Fukuyama ha chiamato «fine della storia», senza che tuttavia si possa sapere, come ha giustamente notato Derrida, se con questo si intenda un compimento reale o soltanto tendenziale (e che si definisce, in ogni modo, come la combinazione tra la democrazia rappresentativa e il mercato liberale). L'urbanizzazione del mondo in termini di descrizione etnografica rinvia a svariate figure: spostamenti di popolazioni di diversi tipi, desplazados dell'America Latina, grandi campi di raccolta in Africa e altrove, migrazioni contadine, creazioni urbane ex nihilo in Cina, spinta migratoria dei paesi poveri verso i paesi ricchi... Ragion per cui l'urbanizzazione si presenta sotto due aspetti contradditori ma indissociabili come le facce di una medaglia: da una parte il mondo è una città (la «metacittà virtuale» evocata da Virilio), una immensa città in cui lavorano gli stessi architetti, dove si ritrovano le stesse imprese economiche e finanziarie, dove circolano gli stessi prodotti e le stesse merci; d'altra parte, la grande città è un mondo dove si ritrovano tutte le contraddizioni e i conflitti del pianeta, conseguenze dello scarto crescente tra i più ricchi dei ricchi e i più poveri dei poveri, il terzo e il quarto mondo, le diversità etniche e religiose, etc...Uniformità da una parte, diversità dall'altra. Il mondo-città e la città-mondo appaiono intrecciati l'uno all'altra, ma in modo contradditorio: il mondo-città rappresenta l'ideale e l'ideologia del sistema della globalizzazione, nella città-mondo si esprimono le contraddizioni e le tensioni storiche generate dal sistema. L’accecamento degli sguardi Questa situazione comporta la moltiplicazione dei punti ciechi o, se si vuole, acceca gli sguardi degli abitanti delle città. Viviamo in un mondo di immagini, in cui l'immagine sanziona e promuove la realtà del reale. Ora, il primo effetto prodotto dalla coesistenza tra mondo-città e città-mondo è quello di confondere le immagini. Si può ritrovare questo fenomeno di confusione nell'apparizione di nuove parole che non sono sinonimi, ma non di meno si contaminano a vicenda, sfumano una nell'altra e sono la fonte di nuove paure e potenziali violenze. Prenderò alcune di queste espressioni ad esempio. Sono sicuro, del resto, che siano le stesse in francese e in italiano. Quel che hanno in comune, mi sembra, è anzitutto di innescare una gigantesca metafora che privilegia il linguaggio spaziale. «Esclusione» è la prima di queste parole. Essa, con ogni evidenza, sottintende l'esistenza di un interno e di un esterno; sia fisico, quando si pensa al controllo alle frontiere e alla pressione delle persone originarie dei paesi poveri per entrare nelle regioni ricche del mondo, sia sociologico, quando si pensa a tutti coloro che, all'interno dei paesi ricchi, non beneficiano, o molto poco, di quella ricchezza, tra i quali si trovano per l'appunto molti di quelli che fuggono dalle zone povere del mondo. I clandestini, i sans papier, si distinguono dagli altri immigrati per il carattere non ufficiale della loro presenza, ma la categoria dell'immigrazione regolare non rappresenta di per sé una garanzia assoluta contro lo sconfinamento nella clandestinità: un visto turistico ha una durata limitata, un permesso di soggiorno anche, le leggi sull'immigrazione possono cambiare in funzione della congiuntura politica e economica. I giovani «usciti dall'immigrazione», in Francia, sono francesi, ma un buon numero di essi fanno parte degli esclusi della seconda categoria per colpa di una cattiva scolarità e della disoccupazione. Geograficamente, appartengono ai quartieri «sfavoriti», il che sottintende che i poveri, nella città e nelle sue «periferie» si ritrovino insieme e che essi costitusicano una massa, un gruppo, forse una minaccia. In Francia, la parola «città» («cité») riassume questo aspetto delle cose che sembra condensare in un'unica condizione il fallimento dell'urbanismo, quello della politica economica e del sistema scolare. A questo stato di cose si aggiungono quei vecchi fenomeni (micro-criminalità, traffici di diverso tipo: nel XIXmo secolo si parlava di «classi pericolose») che oggi sono raccolti sotto la definizione di «marginalità» (ancora un termine spaziale che designa per difetto un posto centrale, un centro di riferimento)- Anche in questo caso si riscontra un rischio di contaminazione verbale perché ai margini delle città, ci si imbatte appunto nelle periferie, nelle banlieues. Negli anni '70 le città si presentavano ancora come il compimento di una politica di modernizzazione dell'habitat che suggellava la promozione sociale della classe operaia, la politica di ricongiungimento familiare adottata nello stesso periodo mirava a stabilizzare la situazione di quelli che all'epoca venivano chiamati «lavoratori immigrati» e a spingerli ad «integrarsi» tra gli operai francesi. Ma la comparsa della disoccupazione agli inizi degli anni '80 ha cambiato la situazione. I primi ad esserne toccati sono stati i lavoratori non qualificati che provenivano dall'immigrazione. La paura della disoccupazione ha conquistato la classe operaia. All'interno delle città gli immigrati hanno cominciato a rappresentare la grande maggioranza di quel «polo negativo» di cui ha parlato Gérard Althabe. E' a questi anni che risale l'apparizione di una nuova forma di razzismo che si basa sul timore di essere assimilati al polo negativo. I clandestini sono ancora un altro fenomeno: lavorano senza essere registrati, rappresentano tutti i rischi e i pericoli (e per i datori di lavoro tutti i vantaggi) della delocalizzazione. Dal disoccupato al lavoratore clandestino non c'è che un passo. Vediamo quindi le categorie confondersi, e tanto più facilmente dal momento che diverse fasce di popolazione si ignorano, pur incrociandosi continuamente (come accade quotidianamente nella fermata del Metro di Parigi Chatelet-les-Halles) A queste considerazioni vanno aggiunti degli elementi importanti che ne raddoppiano gli effetti contribuendo ulteriormente all'accecamento degli sguardi: la demografia (i giovani), l'opposizione città-campagna che, a dispetto dell'urbanizzazione, ha ancora un impatto notevole, almeno in Francia (dove l'equazione città=violenza gode di una certa fortuna nel paese profondo), il terrorismo internazionale e la crescita del fondamentalismo islamico (in Afghanistan e in Iraq si sono ritrovati a combattere dei francesi usciti dalle banlieues, caso Moussaoui). Dietro le realtà della ghettizzazione e dell'esclusione plana qualche fantasma e si dissimulano delle minacce reali. Per un pensiero della mobilità Malgrado le realtà del mondo-città, gli europei sono, in buona parte, prigionieri di una concezione cristallizzata, immobile dell'utopia. Le grandi visioni dell'architettura urbana degli anni '60 erano ancora figlie delle illusioni della Città radiosa di Le Corbusier, cioè del presunto desiderio di vivere in uno spazio auto-sufficiente, sul posto, senza bisogno di spostarsi. Uno dei problemi odierni della città è che, quando i commerci che di essa dovevano vivere e che la dovevano far vivere, la abbandonano, non resta più nulla. C'è stata l'epoca, ancora vivace, in cui bisognava «lavorare al paese». Un ideale di radicamento per popolazioni sempre più sradicate e sottoposte alle scoraggianti difficoltà del mercato dal lavoro. Non è stato fatto alcuno sforzo per migliorare le relazioni tra genitori immigrati e figli di immigrati. La stabilizzazione residenziale degli immigrati è sfociata in una doppia separazione: tra le generazioni, nel tempo, e tra i «giovani usciti dall'immigrazione», divenuti giovani delle periferie, nello spazio. Pensare la mobilità significa pensare su diverse scale per evitare le contraddizioni (il mercato comune americano e la chiusura delle frontiere con il Messico). L'integrazione nei paesi di accoglienza non ha senso se non viene accompagnata da un sostegno ai paesi di migrazione. Occorre ridefinire la politica di circolazione. Abbiamo bisogno di utopia, di pensare il tempo e uscire dall'eterno presente fissato nelle immagini che si susseguono, di far muovere lo spazio, cioè di muoverci nello spazio, di andarci a vedere dentro e non di nutrirci di immagini. Dobbiamo uscire dall'egocentrismo culturalista («quant à soi culturaliste») e promuovere l'individualismo transculturale. Tratto da “La differenza”. Traduzione di Attilio Scarpellini. Marc Augé (Poitiers, 1935) è un etnologo e antropologo francese. home |