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Sagarana La Lavagna Del Sabato 28 Maggio 2011

LA MORALE IMMORALE



Marco Revelli


LA MORALE IMMORALE



 

 (…) Morale della storia. Perché anche questa storia, come le altre, ne ha una, sebbene sia, per molti aspetti, una “morale immorale”. La prima considerazione riguarda la politica. E la sua “impotenza”. Questa che ambirebbe ad essere – e per alcuni secoli è stata – la sfera della “potenza”, il luogo geometrico del potere, appare del tutto impotente di fronte alla micro fisica dell’esistenza contemporanea. Con l’intero dispiegamento di mezzi, simboli, risorse e parole di cui dispone, essa si arresta al di qua dei fatti elementari della vita. Sul piano locale, forse potrà decidere dell’arredo urbano di una via (purché sia nel “centro”), della localizzazione di un parcheggio (purché non costi troppo), o della nomina del sovrintendente di un qualche teatro cittadino (purché piaccia ai salotti locali), ma già sottrarre alla minaccia mortale del freddo qualche decina di bambini inclusi nel suo “spazio di prossimità”, assicurare un minimo vitale a piccoli gruppi di disperati approdati ai confini della sua cinta daziaria, questo sembra rimanere miseramente al di fuori della sua portata. Così come, sul piano nazionale, la politica saprà perfettamente riprodurre il proprio “ceto” di mediatori, e rappresentare il simulacro di conflitti pregressi, ma anche solo garantire uno qualunque di quei “diritti” in nome dei quali si scatena la guerra, per quelle poche decine d’individui che ogni giorno riescono in qualche modo a filtrare oltre le frontiere, appare impresa ardua, se non disperata. Figurarsi apportare soccorso ai milioni di naufraghi dello sviluppo che lanciano ogni giorno il proprio estremo segnale d’aiuto a quella parte di società globale che affonda. E per i quali, appunto, quei diritti avrebbero dovuto essere pensati. Nemmeno le parole della politica – snervate, formalizzate, morte – riescono più non dico a intercettare e incorporare i linguaggi del sociale, ma anche solo a comunicare con essi. A costruire discorso “su” e “con” questa parte di società uscita fuori dai margini. (…) A un solo dio (i politici. ndr) si direbbero disposti a sacrificare la propria “retorica delle regole”: al consenso. Alle proprie maggioranze elettorali, da blandire e conquistare. Ma quella è una divinità ostile agli esclusi. È il dio degli altri, degli “inclusi”. E gioca contro.
È questa la seconda “morale immorale” della nostra storia: questa perversione della democrazia, da “strumento” a “ostacolo” del principio di eguaglianza. Questo suo rovesciarsi – quasi per una sorta di “eterogenesi dei fini” – da luogo politico dell’inclusione a condizione funzionale all’esclusione. (…) Se un’accusa può essere fatta ai decisori pubblici che hanno contribuito alla soluzione incivile cui si è giunti, non è quella di autoritarismo o di “élitismo” ma, tutt’al più, all’opposto, di populismo, di subalternità agli umori più elementari e più bassi delle proprie microsocietà d’insediamento, di corrività col senso comune dei propri elettori, fino al punto da sacrificare le soluzioni più efficaci e più umane – ma anche più semplici, più razionali, e tutto sommato “meno costose” – al timore della mobilitazione dal basso, o all’ansia di consenso. (…) Strana dialettica tra Terra e Politica, che segna ogni svolta epocale. Si direbbe che quanto più il Territorio si “spoliticizza” – cessa di essere il luogo del libero confronto tra modelli diversi di società sperata, per farsi integralmente spazio produttivo (…) , tanto più la Politica, al contrario, si “territorializza”. Tende a convertire l’antica rappresentanza degli interessi e della opinioni liberamente confliggenti tra loro, in “rappresentanza territoriale”, indifferenziata al proprio interno, chiusa nei suoi confini, finalizzata a tutelare le esigenze “particolari” della comunità delimitata dalla terra contro le dinamiche universali che la insidiano. E che quanto più il primo (il Territorio) si rivela debole nel delimitare il raggio dei problemi, e nell’offrire risposte ad essi, tanto più la seconda (la Politica) si rifugia in esso, lo assolutizza (perduti i pascoli celesti dell’ideologia e delle aggregazioni sociali stabili) come unico ambito solido di legittimazione: come spazio essenziale della propria vocazione al comando.
La terza “morale immorale” riguarda, infine, la sinistra. La sua inaspettata “insensibilità” alle questioni umane – “genericamente” umane – emergenti nell’epoca dell’estenuazione dello Stato-nazione e delle identità di classe. (…) Ci eravamo abituati a considerare la sinistra come il luogo naturale dell’umanesimo, della solidarietà e dell’uguaglianza. Una sorta di paradigma autocertificato della modernità migliore, temperato alla sensibilità per i diritti, e alla compartecipazione con i più svantaggiati. Ora ci dobbiamo accorgere che l’occhio con cui i suoi rappresentanti guardano al mondo non è generalmente diverso da quello degli altri, impersonale e distaccato, pragmatico fino al cinismo, disincantato. E talvolta è peggiore: più freddo di quello di molti “impolitici”, meno solidale di quello di molti religiosi delle più diverse fedi, o di semplici cittadini dallo sguardo non ancora sfregiato dalla “responsabilità pubblica”. Il fatto è che questa sinistra, giunta esangue alla svolta di fine secolo, ha vissuto la propria robusta giovinezza e attraversato il Novecento imparando a guardare agli altri attraverso le lenti dell’appartenenza, del reclutamento e della selezione dei “nostri”. Le sue diverse componenti, comuniste o socialdemocratiche che fossero,sono state, è vero, di volta in volta internazionaliste, terzamondiste, antirazziste, ma sulla base della comune “appartenenza di campo”, o “solidarietàdi classe”.(…) Della semplice esistenza umana priva di determinazioni (…) dei “rifugiati”, non gliene è mai importato molto. La«nuda vita» – come la chiama Agamben -, questa sinistra non ha mai imparato a guardarla, o forse ha disimparato a farlo. Come stupirsi che che non sappia vederla oggi, che diventa figura generale, forma universale di ciò che un tempo si chiamava “popolo”?la vita che non sa o non può raccontarsi (…) la vita che non si fa storia né aritmetica del potere, che non conta, né viene contata ma semplicemente lotta per sopravvivere, sta sotto la linea del suo orizzonte. (…) Gli scogli di Otranto, le spiagge di Pantelleria o dell’Adriatico –ormai testimoni di un massacro quotidiano – sono oramai guardati a vista da amministratori oculati, attenti ai loro valori di risorsa turistica. E alla loro natura di primo baluardo dell’ordine pubblico interno. La sinistra è stata una gran produttrice di quel genere di amministratore pubblico: sindaci assessori, presidenti di Provincia, funzionari efficenti,tecnicamente preparati, competenti nella pratica complessa della gestione del territorio. E analfabeti, dal punto di vista di una cultura multietnica. Forse una buona idea “riformista”, immediatamente praticabile, sarebbe l’istituzione di corsi di alfabetizzazione per amministratori locali sui grandi temi della migrazione, dell’accoglienza e della coesistenza etnica. Perché su questo si giocherà, in buona misura, il grado di civiltà della società che viene.




Brano tratto da “Fuori Luogo, Bollati Boringhieri, Milano, 1999.




Marco Revelli
Marco Revelli, figlio dello scrittore Nuto, insegna Scienza della politica presso l’Università “Avogadro” del Piemonte Orientale. Tra le sue pubblicazioni: “Le due destre” (Torino, 1996), “La sinistra sociale” (Torino, 1998), “Oltre il Novecento”(Torino, 2001), “La politica perduta” (Torino, 2003). Nel 1999, inoltre, Revelli ha pubblicato per i tipi di Bollati Boringhieri il volume “Fuori luogo”, che racconta della sua esperienza durante l’inverno precedente con un gruppo di Rom provenienti dalla Romania, finiti ai margini del capoluogo Piemontese e che invano ha tentato di aiutare nei rapporti con le autorità locali e nazionali. Infatti, nonostante gli sforzi dell’autore e di pochi altri – Revelli era in quel periodo consigliere comunale di Rifondazione comunista a Torino: sindaco Valentino Castellani – nessuna soluzione venne trovata, giungendo al decreto di espulsione dei Rom (il deportation order) e alla distruzione fisica del campo. In questo periodo di rinnovata intolleranza verso gli immigrati nel nostro paese (i disperati di Brescia e Milano) e di prese di posizione molto forti anche in ambito internazionale (i recenti provvedimenti di espulsione di molti Rom in Francia), il Franco tiratore ha pensato di proporre ai lettori alcune delle riflessioni, spesso assai scomode, che Marco Revelli ha espresso nel suo libro.




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