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Sagarana La Lavagna Del Sabato 16 Aprile 2011

MEMORIA DEL VUOTO



Marcello Fois


MEMORIA DEL VUOTO



 

Giorni come quello in cui i miei genitori stabilirono che avrei accompagnato mio padre a Elìni per la festa del battesimo del figlio di Redento Marras, hanno lo stampo del destino marchiato a fuoco. Uno pensa sempre che siano giorni esattamente come tutti gli altri. E invece si sbaglia perché capitano cose, e qualche volta si vedono cose, che non dovrebbero capitare, o che non si dovrebbero vedere. Per questo uno si dice che non c’è niente di strano, che tutto è uguale a sempre, ma non è così. Per esempio quello stesso giorno, mentre mio babbo e mia mamma cercavano di risolvere la questione del battesimo, nel cortile davanti a casa mia cadde un agnello.
 
Così, piovuto dal cielo. Proprio come una nuvola, diventata pesantissima, che precipita e si spappola sul terreno. Noi bambini eravamo a giocare quando sentiamo un tonfo poco dietro le nostre spalle, e tzia Mena che grida. Poi arriva altra gente e tutti si radunano a vedere la bestiola schiantata al suolo.
Tzia Mena racconta tutto: lei sta spazzando il cortile, si ferma per prendere fiato che la salute non è più quella di una volta, poi sente un fischio prima lontano, poi vicino, sempre più vicino … Alza la testa e vede che, dal cielo, e lo giura sui figli e sui nipoti amen, sta cadendo un anzone. Che gli anzoni non volino è cosa certa, ma è certo anche che quella bestia sperrata a terra è caduta dall’alto.
Come sarebbe dall’alto? Cominciano a dire. Ma tzia Mena non cede: eja, vi dico, dal cielo è caduto, dae susu! Gesùu …
Però c’era da dire che quella donna non è che fosse proprio una persona affidabile … Lasciamo stare. Comunque vengono da noi bambini, da me e da Luigi Crisponi e da Giuseppe Murru, e ci chiedono che cosa abbiamo visto: noi visto niente, ma sentito veramente sì, uno spostamento d’aria e poi un rumore davvero terribile, un suono sordo, come un masso scagliato da lontano o un sacco di patate sbattuto con forza al suolo. Come quando si scivola col culo a terra, che prima del dolore si sente un rumore materiale e compatto. Ecco, così: magari quel rumore poteva corrispondere a quell’immagine impossibile di un animale terrestre che pioveva dall’alto. Insomma in chiesa era pieno di santi e di agnelli che stavano in piedi sulle nuvole; magari, nel caso specifico, quell’agnello particolare aveva messo la zampa in fallo. Si sa no come sono fatte le nuvole, che, per quanto sembrino solide, ingannano. Anche in Paradiso c’è da stare attenti, così sospesi sopra le teste dei mortali. In più c’era da dire che per l’Apocalisse, da quello che raccontavano, un bel po’ di rospi erano pronti a calare sui peccatori proprio dal cielo. Eh, allora magari si stava facendo una prova …
Quando arriva Totore Cambosu la confusione è massima. Ma, lui che è cacciatore e conosce le cose segrete della Natura, dice di stare calmi.
-          Qua non è questione di santi o di nuvole, e nemmeno questione di prove per il Giorno del Giudizio.
Qua è questione di rapaci.
Quando parla Totore il silenzio si fa greve. Lui si china sulla bestia a terra.
-          Mì, - dice indicando la schiena candida dell’agnello dove si vedono striature rossastre come di graffi. – L’ha afferrato da qui, poi dev’essere che gli è caduto.
Tutti lo guardiamo a Totore Cambosu, lui è uno che quando racconta le cose incanta …
La faccenda era semplice: un’aquila reale aveva afferrato un agnello dal gregge, sollevandolo in alto con un colpo d’ali. La bestiola aveva preso ad agitarsi col cuore che le esplodeva dentro al costato, che il terrore le aveva chiuso il collo a tal punto che non respirava quasi. E poi c’era l’aria sottile là in alto. Comunque l’agnello era riuscito a vedere dal cielo cose grandissime diventare piccolissime: il pastore che, sconcertato, radunava gli altri agnelli e agitava il bastone in aria; il montone che, conc’a susu, annusava il maestrale; il cane pastore che abbaiava impazzito cercando di volare a balzi. Alla fine l’anzone ha visto sua madre berbeche che continuava a brucare in mezzo al gregge senza addolorarsi di niente, che tanto da che mondo è mondo è sempre la pecora che ne piange … Così per un attimo l’anzone ha vissuto l’esperienza dell’abile, ma poi deve avere pensato che per fare l’aquila ci vogliono le ali. E ha tentato di volare … Poi dev’essere successo che l’aquila era giovane, di quelle con l’occhio più grande della pancia. E così magari non si è nemmeno resa conto che l’agnello che aveva scelto era più pesante di quanto pensasse, tanto più che la bestiola afferrata per il vello si agitava e non aiutava proprio, così, sentendo che non ce l’avrebbe fatta a portare la preda sul costone, ha abbandonato la presa …
Il resto si sa.
 
Poi nella confusione è arrivata anche Missenta Crisponi che aveva paura che Luigi avesse combinato qualcosa e le hanno raccontato dell’agnello e così lei si è girata verso il figlio e poi è sbiancata, che noi non ce n’eravamo nemmeno accorti ma Luigi aveva una macchia di sangue dell’agnello proprio in mezzo alla fronte. Così Missenta lo prende, poi sputa in un angolo della franda e, sfregando forte con la stoffa umida, gli toglie il sangue dalla fronte. Tzia Mena e le altre donne si fanno il segno della croce: sant’Antoni meu … Che cosa deve succedere adesso?
 
E quanto sarà, due giorni dopo? A Luigi Crisponi, che era il mio amico, gli muore il padre. Lui quel padre l’ha visto poco, forse due volte in sette anni, forse tre, chi lo sa …
Ma la cosa certa è che, quando gli dicono che è morto, non riesce nemmeno a ricordarsi com’è fatto. Sì certo, Bartolomeo Crisponi era alto, e poi? E poi basta, lui, quando gli chiedevano come fosse suo padre, diceva che era alto e lavorava in miniera, fine. Comunque, Luigi lo capì immediatamente, la cosa strana è che, anche senza una faccia da ricordare, il dolore è lo stesso. Eppure, gli dice una volta Serafino Musu, se c’hai nove fratelli qualche volta di più a casa deve essere tornato tuo padre … Ma Luigi lo guarda come a dire che non capisce, e io faccio cenno a Serafino che si tappi quella bocca. Lui, Serafino, è più grande e sa le cose. Così si decide che è inutile continuare, però Luigi insiste.
-          Ma tua mamma i figli, i tuoi fratelli e sorelle, dove li ha trovati secondo te? – sbotta Serafino.
Luigi Crisponi si guarda intorno, poi si mette una mano sulla bocca e sbarra gli occhi.
Intanto dal Pozzo Nove a Montevecchio stanno estraendo il corpo di suo padre morto da quattro giorni. E anche quel morto ha gli occhi sbarrati. Come dicono sempre gli anziani che quando si muore al buio si cerca la luce. Al padre di Luigi Crisponi il destino l’ha sepolto prima che morisse. E allora, forse per superare quel buio tremendo, e magari anche per sopportare il sapore della terra smottata che gli era finita in bocca, aveva aperto gli occhi oltre ogni dire, quasi a bucare il telo compatto della tenebra.
Restituito in una cassa di legno scadente, quel monumento di Bartolomeo Crisoni arriva a casa una mattina di gennaio. La cassa è inchiodata. Ma Missenta non ne vuol sentire di stare a guardare una bara chiusa e chiede di aprire, che lei il marito lo vuol vedere un’ultima volta. E gli altri a dire che lasci stare, che è meglio ricordare i vivi. Missenta fa cenno di sì, ma pensa di no. Lo sa lei e decide lei …
Così schiodano il coperchio della bara per far vedere il morto alla moglie Missenta. Ora che il sangue se n’è andato Bartolomeo ha una carnagione lunare, quasi brillante, come quando era ragazzo, la pelle liscia di una signorina.
Bartolomeo appare snervato dalla morte, con gli occhi chiusi a forza dal medico della miniera, ma resta bello. Non si è nemmeno gonfiato. A vedersi non sembra nemmeno morto. Severo, secco e massiccio, come un tronco fosforescente di betulla, come un calco di gesso abbandonato. Si direbbe fatto di una materia inerte e organica allo stesso tempo: una grossa larva candida, luminosa di luce propria, avvolta da un telo sporco.
Missenta fissa suo marito, poi cerca con lo sguardo l’approvazione delle vicine: lo capite anche voi, lo capirebbe chiunque che, così com’è, con le unghie incrostate di terra, col volto pulito male ancora imbrattato di fuliggine, quel cristiano non si può seppellire. Così le donne lo spogliano dopo averlo disteso sul tavolo della cucina.
Bartolomeo, nudo come il primo uomo, è pronto a ricevere cure amorevoli. Ed è lungo: le gambe gli spuntano fuori dal piano del tavolo per quasi tutto il polpaccio. Ha i piedi nodosi.
La mamma di Luigi Crisponi non vuole nessuno in cucina. Vuole stare con il corpo morto di suo marito. Così le vicine si portano a casa loro i bambini: li nutrono a pan’e casu e latte.
Restata sola, Missenta comincia a esaminare quel corpo che, nonostante suo, suo non è stato mai.
Non ricorda che siano mai stati in un’intimità più profonda di quell’istante, lei e suo marito, eppure hanno messo al mondo nove figli. Comincia a pulirlo con una pezza tiepida. È inquieta e di un’inquietudine tenace, si attarda nei particolari: le unghie nere, il carbone nelle rughe sulla fronte.
Quando ha finito, esausta, si siede con le mani sulle ginocchia.
Quel corpo inerte, pulito, all’improvviso le dà la misura del suo dolore. Che è terribile. E sottile. Ma è anche un dolore franco e profondo. Quasi calmo … come prima della vertigine. Quell’attimo che è stabilità assoluta, più che pace, prima della caduta. Lei, Missenta Corrias, ora vedova Crisponi, quel dolore lo vede così: serio come un bambino che fa il broncio.
E allora si alza. È lì in piedi che le viene un pensiero in testa. Missenta si china verso la bocca del marito per baciarlo. Le labbra di lei sfiorano la bocca di lui che è freddo come il ghiaccio, ma morbida. Ancora, impercettibilmente, sporca di terra agli angoli. Bartolomeo lascia fare e sembra languido e rilassato, sembra persino che, per una volta, apprezzi l’iniziativa della moglie.
È stato facile baciarlo, tra il pensare di farlo e farlo è trascorso l’istante perfetto.
Poi è successo.
Improvvisamente le palpebre di Bartolomeo si spalancano. Ha i bulbi vuoti, uno sguardo senza sguardo, come se avesse un altrove sconosciuto da scrutare.
Missenta vorrebbe urlare. Ma succede qualcosa che è peggio: si sente mancare, perde i sensi, capisce che sta cadendo a terra, cade e, nel cadere, si aggrappa al corpo del marito tirandoselo addosso.
Rumore d’inferno! Che cos’è mai quest’orrore? Che cosa accade per Deus e pe’ ssantos? Qualcuno bussa in cucina: Missè … per l’amor di Dio apri … Missè, che cosa è successo? Ma la donna è pietrificata, non si tratta nemmeno di terrore, è qualcosa di più profondo, come un senso di perdizione. Come quando si scivola a terra, appunto, e non ci si rende conto di scivolare, ma quasi volontariamente ci si lascia andare giusto per non darla vinta al caso. Il corpo nudo del suo uomo la copre con un’impudicizia che non ha mai avuto. Continuano a bussare, ma la testa di Missenta se ne sta andando altrove … Valle a spiegare che Bartolomeo è morto. Lei non ci crederà mai, mai, mai, mai …
L’istante perfetto. E la vertigine. Quella particolare vertigine di Missenta ha avuto una serie infinita d’interpretazioni, ma tre nomi soltanto: vertigine, appunto, nell’unico istante in cui Missenta stessa ha potuto pensarla e quindi darle un nome; poi colpo apoplettico, dal dottor Milone, dopo l’analisi visiva del cadavere; e “secacoro” da tutti gli altri.
Insomma, quando buttano giù la porta della cucina l’unica cosa che c’è da fare è ordinare un’altra cassa da morto. Di quelle economiche.
 
Poi succede che una mattina un ufficiale giudiziario porta le carte ai Crisponi perché devono lasciare la casa, che non è roba loro, ma non si sa nemmeno a chi appartiene veramente.
 
Luigi quella notte stessa ha fatto un sogno.
Ha sognato che c’era un rumore terribile, un frastuono davvero insopportabile, così si era portato le mani alle orecchie, ma il rumore, anziché cessare, aumentava, aumentava. Poi, nel sogno, era suo padre inghiottito dalla terra. Era suo padre e cercava di urlare, ma non riusciva a fare altro che sbarrare gli occhi. Oh, vedete come succede nelle visioni, che uno proprio crede a quello che sogna come se fosse vero. E veramente Luigi, afferrato da quel sogno, credeva di non poter respirare e credeva che non ci fosse modo di lacerare il buio. Credeva che suo padre, come dono dovuto per tutti i doni che non gli aveva mai fatto, gli fosse venuto in visione per raccontargli l’orrore fragoroso della morte lenta. A Luigi sembrò di poter vedere se stesso nello spazio bianco degli occhi spalancati di suo padre, che erano l’unica fonte di luce dentro a quella tenebra grassa. E gli sembrò anche che tutto quel sogno, che continuava a essere realtà e il suo opposto, fosse come una specie di consegna che suo padre moribondo, con gli occhi sbarrati, con la bocca piena di terra, nero di carbone, unto di fuliggine, gli stava lasciando. Anche se non sapeva dire, Luigi, in che cosa consistesse esattamente quel lascito.
Poi accadde che appena sveglio cessò di farsi domande. Accadde che gli fu chiara l’assoluta inutilità di rivendicare qualcosa. E comprese che il lascito di suo padre era quello di farsi docile nelle avversità … E capì che sua madre era morta per aver resistito, per non essersi fatta molle.
Luigi pensò, ma non subito, ne passarono di anni, pensò che sua madre era morta per aver creduto di poter stravolgere il disegno preciso della sua inutile esistenza. E che un’esistenza sensata costa migliaia di esistenze senza senso. Gliel’aveva sussurrato suo padre parlandogli dal bianco degli occhi, guardandolo dallo sprofondo, dall’intestino merdoso di madre terra.






Brano tratto dal libro Memoria del vuoto, Giulio Einaudi editore,Torino, 2006.




Marcello Fois
Marcello Fois




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