Torna alla homepage

Sagarana La Lavagna Del Sabato 09 Aprile 2011

NEL PUNTO MORTO DELLA VISIONE



La distruzione del paradigma guerra/visibilità.


Antonio Scurati


NEL PUNTO MORTO DELLA VISIONE



 

Nella notte verde di Baghdad, all’Hotel Al-Rashid, Peter Arnett e i suoi colleghi stanno sulla soglia tra due età del mondo. Per un verso si trovano nella posizione dei narratori tradizionali della guerra: sono l’ultimo anello di una catena millenaria che si confronta con la strutturale divaricazione tra linguaggio e mondo, tra rappresentazione ed esperienza, tra l’opacità del reale e l’umana richiesta di senso. Sotto questo profilo, l’aporia della televisione della guerra ripropone, esasperandole, le condizioni che da sempre fanno della guerra l’oggetto del racconto per eccellenza e, al tempo stesso, l’inenarrabile per definizione:
 
La richiesta di racconto che viene rivolta ai media è in contraddizione con l’inenarrabilità (nel senso letterale del termine) del conflitto, che è frutto della sua mancanza di un senso umanamente comprensibile. Questa contraddizione è esasperata ulteriormente dal fatto che la guerra è, nella tradizione occidentale, non un oggetto di racconto fra i tanti, ma l’oggetto di un racconto per eccellenza: l’inenarrabilità della guerra si scontra con una domanda sociale di storie, oltre che con una domanda sociale di senso.
(P. Ortoleva, Guerra e mass media nel XX secolo, pp. 9-20, in P. Ortoleva – C. Ottaviano, Guerra e mass media, Liguori, Napoli 1994, p. 17)
 
Ma l’esasperazione massmediatica fa sì che la costitutiva dialettica tra cecità e visione della guerra cambino di segno. Non si tratta più del rapporto simmetrico tra un vedere rivelatore e l’assenza di una parola adeguata ad esprimerlo. Nessuna delle due possibilità offerte dalla tradizione per rimediare all’ineffabilità della visione rivelatrice è più disponibile. Né quella della profezia che rimedia all’indicibile nella rivelazione con un profluvio d’immagini simboliche, affastellando visioni sul centro indicibile della “visione”, né quella del narratore che colma con il rosario di mille racconti la mancanza di una parola adeguata a dire la verità, e in questo modo relativizza l’assolutezza della visione, plasma la sovratemporalità del vero a immagine e somiglianza della propria esistenza nel tempo. Anche per i tre telereporter che si affacciano timidamente alle finestre del loro albergo per scrutare la notte verde di Baghdad, anche per loro, lo splendore accecantedella guerra è “indescrivibile a parole”. Ma per loro, profeti dell’immagine e prototipi del telespettatore, quest’eterogeneità tra elemento verbale e visivo, questa sperequazione tra gli occhi pieni della violenza della realtà e la bocca vuota di parole per dirla, non apre lo spazio salvifico di una narrazione degli accadimenti, che li consegni alla memoria eternante dell’epica o alla meditazione romanzesca sulla sua impossibilità; indica invece soltanto una condizione difettiva. Su questo versante, la posizione di Arnett e dei suoi colleghi segna l’inizio di una nuova era, quella della rappresentazione diretta e simultanea dell’evento attraverso la sua presentazione in immagine, un’era in cui la perdurante incommensurabilità tra il medium e l’accadimento non è più un’opportunità ma un limite. La piena visibilità cessa di essere un ideale regolativo, fonte di imperativi etici, condotte pratiche o valori ideali, per diventare un fattore costitutivo, il principio da cui si genera la stolida, brutale coincidenza di realtà e immagine. La visione diretta, immediata e totale, una volta raggiunta, rivela tutta la propria vacuità, la propria mancanza di senso, la propria inumanità. Un’insensatezza tanto acuta e dolorosa quanto più strettamente legata alla realizzazione di un’idea che era stata cardine di un paradigma culturale millenario. La televisione, realizzando la piena visibilità della guerra, attua la trascrizione materiale del nucleo centrale dell’ideologia guerriera occidentale: l’idea dello splendore della gloria. Ma il correlato semantico di quest’ideologia materializzata è l’insensatezza della visione. Nessuna rivelazione ci attende sui campi di battaglia esposti alla piena visibilità. Soltanto tremule lucine su di uno schermo verdastro. La tecnologia porta a realizzazione l’antico ideale dello splendore della gloria, e così ne decreta la fine.
Assieme all’effimera scia dei traccianti sparati dalla debole contraerea di Baghdad si spegne anche la storia della relazione narrativa tra guerra e visione nella tradizione occidentale. La rappresentazione televisiva della guerra definisce la forma finale che entrambi i termini del paradigma guerra/visione assumono alla fine di quella storia.
Ciò che della guerra si mostra allo spettatore televisivo, rappresenta al tempo stesso il culmine e l’esaurimento delle possibilità della guerra di produrre significati culturali in quanto oggetto di una narrazione imperniata sul “criterio di visibilità”. La guerra televisiva è, insomma, il punto d’arrivo verso cui confluiscono tutte le rappresentazioni narrative dei conflitti armati dell’età moderna a partire dal momento in cui si spezza il paradigma epico.
Il paradigma epico, come abbiamo diffusamente argomentato, coniugava la triade concettuale guerra/visibilità/distinzione con il nesso evento/esperienza/narrazione. Questa coniugazione si era conservata anche quando l’epica aveva ceduto il passo al romanzo, il cui modo narrativo ruota ancora attorno agli stessi termini paradigmatici ma declinati in chiave sempre più problematica, fino a stabilire tra loro una congiunzione negativa invece che positiva. Lo spettacolo televisivo della guerra riassume, quindi, tutta la problematica del romanzo bellico ottocentesco e novecentesco, portando alle estreme conseguenze – cioè alla sua distruzione – la decostruzione del paradigma epico da esso operata. L’inanità della coniugazione spettacolare di guerra e visibilità nei conflitti televisivi sancisce il congedo dall’idea che la realtà possa precipitare in un “evento”, dalla cui esperienza scaturisca una narrazione capace di abbracciare il senso del tutto .
Questo limite definisce anche il campo di possibilità rappresentative proprio della televisione. E qui tocchiamo il secondo dei termini del binomio guerra/visione, e dunque il secondo dei motivi che fanno della rappresentazione televisiva della guerra il punto terminale di una storia delle sue forme narrative. L’obliterazione del nesso tra evento, esperienza e narrazione non stabilisce un vincolo esterno rispetto al potenziale di presentazione del reale di cui è capace il mezzo televisivo. Al contrario, la televisione, proprio impedendo una narrazione che si origini nell’esperienza dell’evento, determina la specifica qualità della visione televisiva della guerra. La televisione della guerra non consiste, infatti, in un’assenza di immagini, ma anzi in una completa riduzione della guerra alla sua immagine mediatica; la tv war non propone il buio ma una luce accecante, non comporta una negazione radicale della visibilità ma una visibilità totale. Siamo qui di fronte a un’esasperazione del visibile come prestazione generata dall’estinguersi della possibilità di narrare un mondo esperibile. L’unica rivelazione di cui la guerra è latrice, una volta confiscata dallo sguardo televisivo, consiste nell’aprirci gli occhi su di esso: più la televisione ci propone l’illusione di una guerra pienamente visibile, più ci svela la sua natura di mezzo la cui rappresentazione del reale, invece di renderlo presente, lo sottrae all’esperienza e al racconto, lo imbalsama nel falso movimento dell’immagine. 




Brano tratto dal libro Guerra : narrazioni e culture nella tradizione occidentale, di Antonio Scurati, Donzelli editore, Roma, 2003.




Antonio Scurati
Antonio Scurati è nato a Napoli nel 1969 e ha studiato a Parigi e negli Stati Uniti. Insegna Sociologia della comunicazione presso l'Università di Bergamo, dove è tra i membri del Gruppo di ricerca sui linguaggi della guerra e della violenza. Su questi argomenti ha pubblicato, tra l'altro, "Televisioni di guerra" (Ombre Corte, 2003), "Guerra. Narrazioni e culture nella tradizione occidentale" (Donzelli, 2003) e il romanzo "Il rumore sordo della battaglia". Per l'editore Bompiani è appena apparso il romanzo "Il sopravvissuto". È direttore del settore Formazione del Festival di Ravello.




    Torna alla homepage home