La Lavagna Del Sabato 15 Gennaio 2011 UN NUOVO MEZZO DI TRASPORTO Blaise Cendras
(…) Dunque, ce ne vogavamo in barchino; dapprima con timide puntate, fra il lusco e il brusco, giacché Garnéro si contentava di andare all’alba a esplorare e a rilevare le nasse e i vivai della riserva d’anguille da lui scoperta nei paraggi per poi rientrare furtivamente, i tascapani pieni, a prepararci e a darci in pasto una marinara al vino all’ora del rancio, verso le dieci di mattina; ma presto Sawo, che non poteva star fermo e che sovreccitato dallo schiamazzo incessante delle anitre selvatiche, delle gallinelle e delle arzavole sugli acquitrini non riusciva a dominare più a lungo i suoi istinti di gitano predone e bracconiere, e che provava un’invidia matta per la pesca miracolosa del suo compagno, s’unì a lui, e così la coppia d’amiconi, dalli a cacciar nel crepuscolo, Garnéro usando il Lebel e Sawo con una doppietta che s’era procurata non so come, e ad avventurarsi molto lontano e fino a molto tardi nelle paludi, rientrando soltanto a buio, dopo una bella sparatoria, onusti d’uccellagione, la squadra pronta a far bisboccia nella cucina di Garnéro, sistemata da quel diavolo d’uomo nella casa del macellaio, una casa isolata, la sola costruzione in pietra nella nostra lacustre città della Ranocchiaia. Sennonché, alzato il fianco, lo stomaco pieno, la pancia al caldo, i piedi all’asciutto, gonfi di vino fino agli occhi, bevuto il caffè, l’ammazzacaffè e il cicchetto, e accesa la pipa dopo un’ultima bottarella di sgnappa, ci sembrava poi duro esser costretti ad alzarci da tavola e iniquo doverci equipaggiare, armare per il nostro giro di pattuglia, giunto il momento d’uscire e d’andarcene a sguazzare nel buio e nel gelo per prendere contatto col piccolo posto del reggimento di Braque, laggiù a casa del diavolo sull’opposta sponda della palude, cosa, questa, che mi suggerì l’idea di servirci del nostro barchino per attraversare a bordo di quello lo specchio d’acqua che separava Frise da Curlu.
Pensammo che il miglior modo di provare il nuovo mezzo di trasporto fosse l’adottarlo, e così cominciammo a navigare, spingendoci al largo per compiere i nostri due giri notturni. Ma siccome il percorso via acqua era molto meno lungo che a piedi, cioè attraverso sentieri, viottoli, insidie, ghirigori nelle torbiere, chiuse, passerelle, colate di terra, canaletti da superare, pantani da costeggiare, e avevamo perciò tempo d’avanzo per giungere all’ora giusta a Curlu, ci mettemmo a perlustrare il nostro nuovo dominio, prima sull’asse generale del nostro itinerario, poi verso le linee, e a poco a poco all’avventura e fin dietro le linee nemiche, dove una volta o due facemmo ardite puntate verso Hem-Monacu, sulla riva sinistra, o verso Bescourt, sulla riva destra, sempre in direzione di Péronne che ci attirava…
Come ci si stava bene nel nostro barchino! Vi erano notti così belle, così limpide, così incantate da farti venir la voglia d’intonare una barcarola alle stelle. Ma fin dall’inizio, Opphopf ci aveva messi in guardia contro la propagazione del suono, che sull’acqua giunge lontano e desta mille echi. Opphopf manovrava il barchino con la pertica. Si trovava nel suo. Era un abile barcaiolo, vigilante e guardingo. Aveva introdotto molta merce di contrabbando nel Belgio, lungo la Lys o l’Escaut, e non procedeva alla cieca, ma tenendo il burchiello al coperto e nella zona d’ombra. Noi invece non ci preoccupavamo di nulla. Ci lasciavamo portare silenziosamente sull’onda. Scivolavamo via. Ci insinuavamo. Accostavamo un isolotto, e tutti saltavano a terra ad accender la pipa. Tempo ne avevamo. Quelli di Curlu non ci aspettavano ancora. L’ora non era ancor giunta. Eravamo in anticipo. Mimetizzavamo la barca con delle canne (una felice trovata d’Opphopf). Andavamo a fare un altro giretto. Uscivamo dal coperto dei giunchi. L’acqua luccicava. Il fondo piatto del barchino schiacciava con uno scricchio le erbe alte e i cespi, facendone volar via la paglia. Ci lasciavamo andare sul filo dell’acqua. Pericolo non ce n’era. Eravamo soli su tutta quell’immensa distesa. Era meraviglioso. Ma Opphopf era prudente, e se vi s’arrischiava, lo faceva a ragion veduta. Potevamo star tranquilli, con lui.
I boches erano a terra. Si vedevano sulle due rive i loro razzi. Si udiva il solito crepitio della fucileria notturna, e il tiro disarticolato delle mitragliatrici sparse all’intorno. Come noi, gli uccelli acquatici che sentivamo muoversi dappertutto nel folto delle piante e degli steli, dovevano essersi assuefatti al brontolio del cannoneggiamento che giungeva da Nord, da Bapaume, in un flusso sempre più infuriato a mano a mano che i giorni, le settimane passavano mentre progrediva l’inverno, e che certe notti, soprattutto le notti di gelo, assumeva una tal vastità, un tal rimbombo, e toccava un tal parossismo di violenza, d’esasperazione, che nemmeno stavamo più ad ascoltarlo, pensando che ormai la marea fosse in fase di stanca, tant’era alta e fragorosa, e che la guerra stesse per finire, anche perché gli uccelli acquatici continuavano il loro cicaleccio e i loro gridolini nel nido come se nulla fosse, spaventati soltanto dall’avvicinarsi del nostro barchino che provocava un’improvvisa alzata in volo sotto il nostro naso, uno sbatter d’ali strepitanti che ci coglieva ogni volta di sorpresa, un fremito di cose impazzite nelle tenebre che c’impressionava e ci pareva più pericoloso delle pallottole sperse che ci raggiungevano dalle due rive, che fischiavano sinistramente, che in certi punti cadevan fitte come gragnola, che sembravano scoppiare a contatto con l’acqua.
A nostra insaputa, quel girovagare ci agguerriva.
A disorientarci, infatti, pur richiamandoci all’ordine, vi erano inoltre sorprendenti effetti di bruma, spirali di nebbia che s’avvolgevano e si svolgevano sull’acqua, moti e illuminazioni di nuvole e subitanee apparizioni e sparizioni di luna fra gli squarci e le quinte del cielo e dell’onda marezzata di riflessi e di mobili macchie d’ombra; e tutto l’apparato scenico raso terra come sul pelo dell’acqua, un albero morto, i cespi galleggianti, i ciuffi d’erba alla deriva, il profilo antropomorfo d’un salice scamozzato, il trambusto fra le canne e i giunchi, struscii d’abiti, cime agitate, misteriosi segni, rami contorti, fruscii di maniche nel vento, brusche folate che facevano gesticolare le fronde e i ramoscelli e sviticchiarsi i bastoncini le cui rade foglie penzolanti, vicine, vicinissime, si protendevano a toccarci il volto come umide mani dalle dita di gelo per metterci in guardia, per farci paura e per tenerci a nostro malgrado sul chi va là fino a mozzarci il fiato, il salto inatteso di qualche animale nell’acqua, un ratto, una lontra, del quale udivamo il gemito di terrore, la precipitosa fuga nel fango mentre ci pareva di sentir sul viso l’ansito rauco e affocato di quell’animalesco spavento.
Rientravamo , spesso, maledettamente impressionati dalla natura, ma senza mai perdere la bussola, appunto per la parte assurda che in seno alla natura recitavamo.
Così, accostavamo sempre a qualche centinaio di metri prima del piccolo posto di Curlu per non svelare il trucco della nostra navigazione notturna e non far venir la voglia anche agli altri di servirsi d’un battello.
Volevamo restare padroni assoluti del nostro dominio sulle acque.
Con un tempaccio tremendo o in una notte di bufera, accostavamo direttamente a un angolino a noi familiare, giacché avevamo i nostri punti di riferimento fra i meandri degli acquitrini, ora che ne conoscevamo tutti i ghirigori, i tronchi di canale, i canali, i canaletti, le correnti languide o sornione, gli stramazzi, gli sfioratori, i laghetti, gli stagni, le acque ferme, e andavamo a rifugiarsi nella casupola d’un pescatore, o nel capanno d’un cacciatore, aspettando l’ora di farci vedere.
E là discutevamo a lungo per cercar di capire come mai, in quel settore sommerso che si sarebbe prestato così bene, ai boches non fosse ancora venuta l’idea d’organizzare, secondo i loro sistemi, delle pattuglie in battello – con fuoribordo, idroscivolanti, sommergibili, sicuro! Mica in barchino – e una volta tanto eravamo fieri d’essere stati i primi ad averci pensato. (…) (Brano tratto dal libro La mano mozza – Titolo originale La Main coupéez – Blaise Cendrars – Traduzione di Giorgio Caproni – Corbaccio 2009 su licenza della Ugo Guanda Editore S.p.a.) Blaise Cendrars (pseudonimo di Frédéric Sauser) è nato a La Chaux-de-Fonds, in Svizzera, nel 1887 ed è morto a Parigi nel 1961. La sua produzione poetica risale soprattutto agli anni tra il 1912 e il 1924. Durante la prima guerra mondiale combatté in Africa nella Legione straniera. Negli anni successivi si dedicò soprattutto alla prosa. Lavorò anche come sceneggiatore e pubblicò saggi sul cinema. In italiano sono state pubblicate le opere in prosa L’oro, Moravagine, Rapsodie gitane, La mano mozza e le raccolte di versi Al cuore del mondo e Dal mondo intero. home |