Torna alla homepage

Sagarana La Lavagna Del Sabato 25 Dicembre 2010

UNA PROVA DI VIRILITÀ



Jørn Riel


UNA PROVA DI VIRILITÀ



 

(…) Lasselille, il piccolo Lasse, era il più giovane cacciatore della Groenlandia nordorientale. La sua domanda di impiego presso la Compagnia si doveva in realtà a una serie di circostanze sfortunate.
Sua madre era svedese, o meglio della Scania, e suo padre danese. Il che avrebbe potuto rappresentare una miscela perfettamente accettabile, se solo il ragazzo avesse avuto il tempo e la calma di maturare tra un paese e l’altro. Le isole nello stretto, Hven o Salthom, a metà tra i due, avrebbero fatto al caso suo. Ma dato che suo padre era un cosiddetto cantoniere “volante”, addetto al tratto di strada tra Hillerod e Nodebo, e come tale non poteva ovviamente abitare in mezzo allo stretto, Lasselille fu obbligato a stabilirsi in territorio danese. Divenne un danosvedese o uno svedodanese, a piacere, e nel suo caso non era sempre piacevole.
Con l’aiuto di una forte personalità il ragazzo avrebbe forse potuto superare gli ostacoli linguistici e culturali. Un cervello pronto e vivace avrebbe giocato la carta svedese facendone un elemento misterioso ed esotico, superiore e fuori dalla portata dei danesi normali. Ma Lasselille non aveva una forte personalità, né molto sale in zucca. Era insicuro, un po’ lento di comprendonio e con un fisico piuttosto infelice. Non aveva abbastanza orgoglio per tenere a distanza la teppaglia, né tanta forza nei bicipiti da gratificare di nasi sanguinanti i ragazzacci che lo chiamavano buzzurro di Scania, Carlo il Tonto o diavolo d’uno svedese.
Per farla breve, Lasselille aveva avuto un’infanzia miserabile.
E poiché desiderava moltissimo lasciarsi tutto alle spalle, fece domanda per essere assunto come cacciatore in Groenlandia orientale. Infilò due maglioni islandesi per enfatizzare il torace e si presentò al direttore della Compagnia. Sforzandosi di usare al meglio il suo dialetto della Scania, s’inventò una giovinezza nella parte più a nord del Paese, tra lapponi e renne. Il direttore, che vide in lui un ragazzo sveglio, e che aveva pure qualche difficoltà a comprenderlo, lo guardò in fondo agli occhi azzurri e ravvicinati e lo ingaggiò seduta stante.
Lasselille fu inviato a Bjorkenborg come apprendista. E qui iniziò una vita che avrebbe ben presto amato. Qui non era né svedese né danese, né buzzurro, tonto o diavolo. Fu considerato dal primo momento una persona normale, a cui dare il benvenuto con una naturalezza che lo stupì oltre ogni dire.
Si affezionò molto Sylte e a Bjork, le prime persone che gli avevano dimostrato una naturale benevolenza, e nel corso dei suoi anni d’apprendistato crebbe sia nello spirito sia nel corpo, come diceva Bjork, dal semplice al doppio.
Per tre anni rimase apprendista. Tre anni bellissimi, in cui imparò quasi tutti i segreti del mestiere. Solo una cosa gli impediva ancora di essere promosso al rango di cacciatore. Lasselille non aveva mai preso orsi. Perciò nessuno desiderava abbattere uno di quei bianchi vagabondi più dell’allievo di Bjorkenborg. Appena le condizioni del tempo lo permettevano si metteva in viaggio sul mare, nei fiordi, addentrandosi nelle valli più remote e visitando tutti i luoghi che i cacciatori esperti sostenevano fossero normalmente frequentati da orsi. Ma un orso vivo non lo vide mai, e di rado un’impronta.
Lasselille aveva passato tre anni a Bjorkenborg . E Bjork, che era il capo di quella stazione di caccia, pensò che ormai Lasselille fosse ben istruito. C’era giusto solo questo fatto degli orsi. Sia Sylte che Bjork catturavano orsi, ma Lasselille era sprovvisto di ogni attrattiva agli occhi dei plantigradi.
Nel corso del quarto inverno Lasselille giurò su tutti i santi che, se non avesse avuto il suo orso prima dell’arrivo della nave, avrebbe rinunciato all’incarico e se ne sarebbe tornato a Hillerod. Era un impegno serio, che mostrò ai suoi compagni a che punto fosse arrivata la sua disperazione. Perciò, quando il primo raggio di sole accarezzò il ghiaccio, Lasselille diede inizio alle sue battute di caccia all’orso.
Già nel suo primo anno alla stazione di caccia, Biork aveva regalato a Lasselille cinque cuccioli. E lui, che mai prima d’allora aveva posseduto un cane, aveva dimostrato una mano felicissima per l’allevamento. Trattava i suoi animali come compagni alla pari, parlava con loro come se fosse la cosa più naturale del mondo, ed essi impararono presto ad ascoltare e a capire. I cani divennero la metà del suo mondo, e Lasselille divenne per loro quasi un dio. Lo amavano senza riserve, lo rispettavano e gli obbedivano, e il loro umore si modellava sul suo.
Andava così anche durante la caccia all’orso.
Partendo da Bjorkenborg i cani tiravano la slitta leggera e pieni d’entusiasmo e di aspettative. Abbaiavano di gioia e voltavano la testa verso Lasselille, che trottava dietro il montante, e gli sorridevano. Lasselille, che vedeva il loro largo sorriso, sentiva il calore e la gioia invadergli il cuore. Lui che in tutta la vita a Hillerod non aveva mai avuto un amico era quasi sopraffatto dalla loro devozione.
Ma quando ebbero vagato per giorni e giorni senza profitto, e Lasselille cominciò ad avere il muso lungo, il buonumore svanì. I cani si avvilirono per conto di Lasselille, rallentarono notevolmente il passo e proseguirono con la testa rasente il ghiaccio e la coda folta nascosta sotto il ventre.
Passarono marzo e aprile, e Lasselille non era ancora riuscito a trovare un orso. Dimagrì e si chiuse in se stesso. Gli occhi gli si cerchiarono di nero, e sembrava sempre sul punto di scoppiare in lacrime da un momento all’altro. Anche i cani offrivano uno spettacolo desolante. Il pelo era diventato opaco e le zampe dolenti, e smisero completamente di azzuffarsi tra loro, cosa che in altri tempi era stata il loro divertimento preferito.
Anche il giorno di Pasqua e quello dell’Ascensione Lasselille e i suoi amici a quattro zampe continuarono a vagare sul ghiaccio. La situazione era così allarmante che l’ultimo giorno di maggio Bjork e Sylte si misero intorno al tavolo per discutere cosa si potesse fare per l’apprendista.
“E’ per la luce, penso io”, affermò il Bjork, al quale l’esperienza aveva insegnato che il cattivo umore poteva derivare sia dalla troppa luce sia dal troppo buio. “E’ per l’orso che non ha mai preso”, sostenne Sylte. “Il problema di Lasselille non ha niente a che fare con la luce. Al contrario, penso che la luce sia stata un sollievo per lui, così finalmente è potuto tornare a caccia. Il giorno che il ragazzo prenderà il suo primo orso tornerà normale”.
“Hum.” Bjork lanciò al suo compagno uno sguardo condiscendente. “E’ ovvio che in una situazione così grave non bisogna escludere nulla”, ammise, “diciamo allora che è un’infausta combinazione di luce e di orsi. E che dobbiamo fare qualcosa”.
Sedevano a tavola, tra loro due bottiglie di vino d’annata del Conte. La stanza era calda perché Sylte aveva cotto il pane, e Bjork si era tolto la maglia di lana perché non sopportava il calore e per dare aria al drago sputa fuoco che gli ornava la schiena.
“Per quanto riguarda la luce non si può fare granché”, opinò Sylte, “e se devo essere del tutto sincero non credo proprio che in questo caso abbia alcuna importanza”.
Il Bjork afferrò una delle bottiglie e si mise a fissare l’etichetta con aria assente. Era uno Chateau Bourville, dono del Conte a Sylte per il suo cinquantesimo compleanno. L’affermazione di Sylte era musica per le sue orecchie. Gli offriva la possibilità, anzi, l’obbligo morale di sfoderare la sua teoria su luce e buio. La quale prevedeva un lungo preambolo sull’interazione tra l’animo umano, il buio assoluto e la luce totale. Lasciò comunque che Sylte proseguisse ancora un po’, per concentrare le forze in vista della stoccata finale e Sylte, che evidentemente, malgrado i nove anni passati insieme a Bjork, non aveva ancora imparato a trattenersi, proseguì: “Prima il ragazzo avrà il suo orso, più in fretta gli tornerà il buonumore. E a quel punto non gli importerà più se c’è il sole o la luna. “Sicuro di sé, Sylte guardò il suo compagno, che annuiva incoraggiante.
“Ah, secondo te è così.” Bjork sorrise, e quel sorriso avrebbe dovuto mettere in guardia Sylte.
“Sì. Non c’è dubbio che sia così. Si tratta di trovare un orso, spingerlo davanti a Lasselille e farglielo abbattere.” Bjork non rispose, ma continuò a sorridere, e solo allora Sylte cominciò a fiutare qualcosa. Confuso, tirò l’elastico che fungeva da stanghetta ai suoi occhiali e si rese conto all’improvviso d’essere caduto in trappola. “Non è mica tanto complicato”, concluse esitante.
Riempirono in silenzio ciascuno il suo bicchiere, ciascuno con la sua bottiglia. Un silenzio da mettere a vivo i nervi. Quando ebbero gustato il vino e goduto del duraturo senso di combustione che era la caratteristica principale dei vini del Conte, Bjork si abbandonò confortevolmente contro lo schienale della sedia e disse con tono un filo dottorale:
“Stando a come la metti tu, amico mio, la faccenda parrebbe semplice e lineare.”
Sylte si accasciò sulla sedia. Ora era sicuro che sarebbe successo. Bjork si preparava a uno dei suoi interminabili sproloqui. Quando usava le parole “amico mio”, si poteva essere certi che un’estenuante conferenza era nell’aria. Bjork proseguì:
“In fondo, amico mio caro, tu hai una dote unica per presentare le cose in maniera unilaterale.”Abbassò la voce e sospirò. “Sei d’una semplicità spaventosa, Sylte: un tratto tipico di tutte le specie primitive.” La voce riprese vigore: “Ma niente è semplice. Quante volte te lo devo dire. Niente e poi niente è semplice, nella vita, per colui che pensa. Anche la cosa più piccola, anche quello che può sembrare chiaro e lampante, è in realtà complicato e difficile, e richiede intelligenza e cultura per essere risolto.”
Sylte fece un respiro profondo. Ogni speranza in una soluzione semplice al problema di Lasselille era svanita. Il Bjork aveva già cominciato a schierare in campo l’artiglieria. Questa volta iniziò con una stranezza come le tirelle dei cani. “Facciamo un esempio”, disse. “In questo caso un esempio è indispensabile, dal momento che non hai mai appreso il pensiero astratto.” La sua voce vibrava d’animazione. Bjork fece una breve pausa per dare un’ultima limatina mentale alla sua introduzione. Sylte approfittò dell’occasione per versarsi un altro bicchiere di vino.
“Sì, trovo che le tirelle facciano benissimo al caso nostro. Infatti abbiamo qui qualcosa che si è ingarbugliato ben bene, e sbrogliarlo costerà una fatica del diavolo. Sì, le tirelle sono alla tua portata perché è un oggetto abbastanza quotidiano.”
Sylte annuì. Sapeva che era richiesto di annuire di tanto in tanto, altrimenti Bjork avrebbe pensato che non capiva, e ne avrebbe approfittato per lanciarsi in un mucchio di noiose digressioni. Poi si tolse gli occhiali: gli sembrava che sarebbe riuscito ad affrontare meglio quel che doveva seguire se Bjork scompariva in una grigia foschia.
Bjork si leccò le labbra. “Le tirelle, sì.” Assaporava le parole come fossero confetti. “Le tirelle, quando sono ingarbugliate dalla corda maestra fino al primo dei cani. È difficilissimo guidare la slitta in quelle condizioni, no?” Prese atto che Sylte annuiva, e che perciò seguiva il ragionamento.
“Bene. Paragoniamo ora la situazione di Lasselille alle tirelle dei cani. L’insieme delle tirelle rappresenterà i fili del pensiero nella mente del ragazzo.”
A Sylte sarebbe piaciuto sapere che razza di fili fossero, e se davvero erano solo cinque, ma ebbe la saggezza di tenere la bocca chiusa.
Bjork mostrò le lunghe dita e le intrecciò. “I pensieri di Lasselille sono come una muta di cani non addestrata. Ondeggia da una parte all’altra, qui salta sopra a una tirella e là ci passa sotto.” Fece la dimostrazione con le dita, e Sylte assentì.
“Che risultato avremo?” Bjork sorrise come un maestro di scuola che ha fatto una domanda difficile allo scaldapanche della classe. Si sentiva perfettamente a suo agio. Era l’esperto capo della stazione di caccia di Bjorkenborg che analizzava le condizioni psichiche del suo apprendista.
Sylte fissò a bocca aperta le dita attraverso le lenti spesse dei suoi occhiali. “Che bisognerà sbrogliarle”, disse. (…)




Brano tratto dalla raccolta Uno strano duello. Traduzione dallo svedese di Maria Valeria D’Avino – Iperborea editrice, 2005.




Jørn Riel
Jørn Riel è nato nel 1931 a Odense. È tra gli scrittori danesi più amati in patria, dove ogni suo titolo supera le duecentomila copie. Dopo sedici anni tra i cacciatori in Groenlandia, è inviato dell’ONU in Medio e Estremo Oriente. Attualmente vive in Malesia, alternando soggiorni in Nuova Guinea e in Europa. “Autore dell’anno” nel ’94, riceve nel ’98 il Premio della Letteratura Nordica in Francia e nel 2004 il prestigioso Premio Nathansen. Sono già usciti da Iperborea: Safari artico, La vertigine fredda e Una storia marittima.




    Torna alla homepage home