La Lavagna Del Sabato 17 Luglio 2010 SU CAPITALISMO, COLONIALISMO, DONNE E POLITICA ALIMENTARE Un’intervista a Silvia Federici Max Häive
Silvia Federici, ricercatrice, attivista ed educatrice è nata in Italia, ma si è trasferita negli Stati Uniti nel 1967 con una borsa di studio di filosofia presso l'Università di Buffalo (NYS). Da allora ha insegnato in varie università nordamericane e a Port Harcourt, in Nigeria. Professoressa emerita della Hofstra University (Long Island, New York), vive a Brooklyn.
Veterana attivista del femminismo, la sua opera prende forma e dialoga con le numerose lotte che hanno incoraggiato la sua vita. Dai primi anni 70, insieme a teoriche come Mariarosa Dalla Costa e Selma James, ha fondato la International Feminist Collective e ha organizzato la celebre campagna Wages for Housework (un salario per il lavoro domestico). Questo movimento ha riunito un insieme di gruppi femministi per lanciare la rivoluzionaria sfida al cardine capitalista e patriarcale, esigendo sovranità economica per le donne nell'elementare lavoro della riproduzione sociale.
Federici è stata un elemento centrale del Midnight Notes Collective e co-fondatrice del Committee for Academic Freedom in Africa (CAFA), organizzazione che sostiene le lotte degli studenti e degli insegnanti contro gli adeguamenti strutturali in Africa. Tra il 1991 e il 2003 è stata coeditrice del CAFA Bulletin. Nel 1995 contribuì a fondare il progetto contro la pena di morte della RPA (Radical Philosophy Association). [Per approfondimenti biografici http://www.alpcub.com/federici.htm]
Caliban and the Witch: Women the Body and Primitive Accumulation (Brooklyn, Autonomedia) è il suo eclatante libro del 2004 che ha ricevuto grandi elogi dalla critica ed è stato ampiamente commentato tanto nei circoli accademici , quanto in quelli delle militanti; ha fornito un quadro completo, con informazioni chiare e storicamente rigorose, sulle interazioni tra patriarcato, capitalismo, colonialismo e violenza dal XV al XVIII secolo.
Il libro ha contribuito tanto alle analisi marxiste sull’accumulazione originaria, che lasciano fuori il discorso di genere, quanto al discorso accademico, di moda, sulla biopolitica. Quest'ultimo, dice Federici, ha avuto la tendenza a dimenticare l'opera di Foucault e dei seguaci del processo di stregoneria dal XVI al XVII, che furono parte integrante della distruzione sistematica del potere delle donne sulla riproduzione biologica e sociale e sulla creatività, processo essenziale per l'evoluzione del "sistema delle chiusure" (enclosure) [cfr: http://it.wikipedia.org/wiki/Enclosures, ndt] e della colonizzazione, oltre che scenario di nascita tanto del capitalismo propriamente detto, come dello stato moderno.
In questa intervista, realizzata da Max Häive, Federici mette insieme le sue riflessioni sull’alimentazione, la produzione agricola, l'occupazione delle donne, l’accumulazione capitalista globale e le lotte in tutto il mondo.
Max Häive (MH): Il suo lavoro storico è centrato sul modo in cui il processo, che Marx denominò "accumulazione primitiva" [vedi http://www.resistenze.org/sito/ma/di/di/mddia0.htm#AccumulazionePrimitiva] - modo in cui nasce il capitalismo partendo dalla distruzione di altre forme di vita - ha attuato una sistematica distruzione del potere delle donne originando più pregnanti divisioni all'interno della classe operaia . Puoi dirci che relazione c’è con la storia della politica alimentare?
Silvia Federici (SF): Esiste una relazione diretta tra la distruzione del potere sociale ed economico delle donne nella “transizione verso il capitalismo” e la politica alimentare nella società capitalista. In tutto il mondo prima dell'avvento del capitalismo, le donne avevano il ruolo principale nella produzione agricola. Disponevano dell’accesso alla terra, dell’uso delle sue risorse e del controllo sulle coltivazioni e tutto questo garantiva loro autonomia ed indipendenza economica dagli uomini. In Africa disponevano di propri sistemi di lavorazione del terreno e di coltivazione, fonte di una cultura specificamente femminile: si occupavano della selezione delle sementi, un'operazione fondamentale per il benessere della comunità e la cui conoscenza si trasmetteva da una generazione all'altra. Lo stesso potrebbe dirsi per il ruolo delle donne in Asia e nelle Americhe.
Anche in Europa, nel periodo tardo-medievale, le donne godevano del diritto all’uso della terra e dell’utilizzo dei boschi "comuni", dei laghi, delle praterie, che costituivano un'importante fonte di sostentamento. Oltre al lavoro agricolo insieme agli uomini, possedevano orti in cui coltivavano verdura, erbe medicinali e piante. In Europa e nelle regioni colonizzate dagli europei, l'accumulazione primitiva e lo sviluppo capitalistico cambiarono la situazione. Con la privatizzazione delle terre e l'espansione delle relazioni monetarie, si sviluppò una maggiore divisione del lavoro nell’agricoltura, che separò la produzione alimentare effettuata per trarre profitto (con fini lucrativi), dalla produzione alimentare per il consumo diretto; svalutò il lavoro riproduttivo partendo dall'agricoltura di sussistenza, designando gli uomini ad essere produttori agricoli principali e relegando le donne al rango di "aiutanti", braccianti agricole o lavoratrici domestiche.
Nell’Africa coloniale, per esempio, i funzionari britannici e francesi scelsero sistematicamente uomini per le assegnazioni dei terreni, delle attrezzature e per la formazione; la meccanizzazione dell'agricoltura costituì l'occasione per emarginare ulteriormente le attività agricole delle donne. Mutava così l’agricoltura femminile, forzando le donne ad aiutare i loro mariti nelle coltivazioni commerciali, modificando i rapporti di potere tra uomini e donne e istigando nuovi conflitti tra loro. Oggi il sistema coloniale per il quale i titoli di proprietà della terra si concedono solo agli uomini, continua ad essere la regola delle "agenzie di sviluppo" e non solo in Africa.
Va detto che gli uomini sono stati complici di questo processo, non solo nella rivendicazione del controllo sul lavoro delle donne, ma sino a cospirare, in considerazione della crescente scarsità di terre, sul ritagliare il diritto delle donne all'utilizzo delle terre comuni (lì dove vivevano) riscrivendo le regole e le condizioni di appartenenza alla comunità.
Nonostante la riluttanza delle donne alla loro emarginazione, al loro continuo compromesso nell’agricoltura di sussistenza e alle loro lotte per reclamare la terra, questi cambiamenti hanno avuto un profondo effetto sulla produzione alimentare. Come descrive chiaramente Vandana Shiva nel suo libro Staying Alive [1], con l'esclusione delle donne all'accesso alla terra e l’annullamento del loro controllo sulla produzione alimentare, sono andate perse enormi conoscenze, pratiche e tecniche che hanno tutelato per secoli l'integrità del suolo, del territorio ed il valore nutrizionale degli alimenti.
Oggi agli occhi delle agenzie di sviluppo l'immagine dell’agricoltura di sussistenza è degradante. Così inizia, per esempio, l'ultima relazione annuale della Banca Mondiale [2], dedicata all'agricoltura: "Una donna africana piegata sotto il sole, sradicando sorgo con una zappa in un campo arido con un bambino stretto alla schiena: è la genuina immagine della povertà contadina". Infatti, per anni, seguendo le orme di un economista peruviano, Hernando de Soto, la Banca Mondiale ha cercato di convincerci che la terra è un bene morto quando viene usata come sostentamento e rifugio e diventa produttiva invece, quando si usa in banca come garanzia per ottenere finanziamenti.
Dietro questa visione si nasconde un’arrogante filosofia che ritiene che solo il denaro crei ricchezza e crede che il capitalismo e l'industria possano ricostituire la natura. Ma la verità è un'altra. Con la scomparsa dell’agricoltura di sussistenza femminile si sta perdendo una ricchezza incredibile, con gravi conseguenze per la qualità e la quantità di cibo a nostra disposizione. Ciò che la Banca Mondiale non ci dice è che il valore nutrizionale degli alimenti si perde nella industrializzazione dell'agricoltura. Non ci dice che è grazie alla lotta delle donne che continuano a rifornire i fabbisogni delle loro famiglie, coltivando spesso terre pubbliche o private lasciate incolte, che milioni di persone hanno potuto sopravvivere in mezzo alla liberalizzazione economica.
MH: Tutto questo spiega l'importanza del lavoro agricolo, in particolare il lavoro delle donne, per i processi di globalizzazione. A tuo giudizio come si inserisce il lavoro agricolo nella nostra concezione di lavoro globale? Numericamente l'agricoltura rimane il settore che impiega da più tempo manodopera, soprattutto femminile, su scala mondiale. Ma sembra rimanere nell'oscurità delle analisi sulle mutevoli forme del lavoro e del capitale oggi.
SF: Si tratta di un errore dei movimenti di sinistra sottostimare, nella pratica e nell'analisi, l'importanza del lavoro agricolo nell'economia politica di oggi e di conseguenza, nella capacità di trasformazione delle lotte degli agricoltori per la terra.
Naturalmente questo errore non lo commettono i capitalisti. Il rapporto della Banca Mondiale che ho citato prima indica, tra l'altro, che la riorganizzazione delle relazioni agricole ha la priorità nei programmi di ristrutturazione. Mentre è impressionante il numero di persone occupate nei lavori agricoli (probabilmente circa due miliardi di persone), la sua importanza non deve misurarsi solo in funzione delle sue dimensioni assolute. E' importantissimo l’apporto che il lavoro agricolo effettua sulla riproduzione sociale. Come ho già detto è l'agricoltura di sussistenza in particolare, in capo per la maggior parte alle donne, la fonte di sussistenza per milioni di persone che altrimenti non avrebbero mezzi per comprare il cibo al mercato. Inoltre, la rivalorizzazione, l'estensione ed il reinserimento al lavoro agricolo nelle nostre vite costituiscono una tappa obbligata, se vogliamo costruire una società autosufficiente e non di sfruttamento.
Ci sono molti gruppi e movimenti politici, anche nel nord industrializzato (le ecofemministe in particolare), che riconoscono questa esigenza. E' anche positivo che negli ultimi due decenni vi sia stato il crescente movimento degli orti urbani, riportando l’agricoltura nel cuore delle nostre città industriali. Ma purtroppo molte persone di sinistra non hanno ancora superato sia l'eredità della lotta di classe nell’era industriale che poneva al centro unicamente la fabbrica ed il proletariato industriale, sia il credere nella via tecnologica come unica per liberarsi dal capitalismo.
In Moltitudine [3] di Negri e Hardt, per esempio, possiamo leggere che il contadino è destinato a scomparire dalla scena storica a causa della crescente integrazione della scienza e della tecnologia nell’organizzazione della produzione agricola e nella smaterializzazione del lavoro. E’ preoccupante che Negri e Hardt citino l’ingegneria genetica a sostegno della loro visione del contadino come una categoria storica che si avvia alla morte, considerando le aspre battaglie intraprese da parte degli agricoltori di tutto il mondo contro gli OGM che, dal loro punto di vista, sono date per perse.
In realtà, ciò a cui stiamo assistendo è un processo di riavvicinamento alla terra, di "urbanizzazione rurale", che la crisi attuale non può che accelerare. Ciò sta già avvenendo in Cina: chi era già migrato verso le città sta tornando nelle zone rurali, destinato a costituire un corpo di lavoratori in costante movimento tra due poli.
In Africa, molti abitanti delle città stanno tornando ai loro villaggi, ma spesso vanno e vengono, non essendo in grado di trovare mezzi di sussistenza sufficienti in un unico luogo.
MH: C'è qualcosa di profondamente terrificante in questa immagine di pedine che si muovono costantemente guadagnandosi a fatica da vivere in un mondo pieno di recinzioni . Mi ricorda quella parte di Caliban and the Witch, in cui si parla di persone senza fissa dimora, le persone condannate a vagare come se fossero state espropriate delle loro terre attraverso recinti medievali. In questa stessa ottica Zygmunt Bauman utilizza la metafora del vagabondo (mettendola a confronto con quella dei privilegiati "turisti") per descrivere il paradigma dell’espropriazione umana [4] nella globalizzazione. Di conseguenza, questo dovrebbe correggere l'affrettata celebrazione della mobilità senza restrizioni dell'esistenza, che molta gente nella sinistra considera come le basi di una nuova politica.
Una delle cose che ho sempre ammirato nel suo lavoro è la capacità di continuare a mantenere al centro la globalizzazione ed il colonialismo. Negli ultimi anni ha lavorato molto sui nuovi processi di enclosures in Africa sotto il neocolonialismo ed il neoliberalismo. Può dirci che cosa è legato al perdurare della crisi alimentare globale?
SF: Non basterebbe un libro per descrivere le numerose forme di interconnessione attraverso le quali il colonialismo nuovo o vecchio ed il neoliberismo, hanno contribuito a creare l'attuale crisi alimentare. Oggi stiamo assistendo a qualcosa che è solo l'ultimo atto del lungo processo che si è sviluppato nell’arco di due secoli. Il colonialismo ha sconvolto i sistemi agricoli in Africa, Asia e Sud America attraverso l’espropriazione della terra, l'introduzione delle coltivazioni commerciali e delle monocolture e l'attuazione di politiche che degradano l'ambiente (ad esempio il disboscamento) o allontanano i lavoratori dalla produzione di alimenti.
L'indipendenza non ha posto rimedio a questa situazione, anche se ha permesso la creazione di un mercato alimentare interno. La riforma agraria, che si basava sulla restituzione della terra rubata che i precedenti sudditi coloniali chiedevano come frutto della lotta di liberazione, è stata portata a termine in maniera solo marginale.
In un contesto che continuava ad essere di dipendenza economica e politica dalle antiche potenze coloniali, i nuovi stati hanno conservato il modello di agricoltura commerciale orientato all'esportazione, che il colonizzatore aveva impiantato, benché minasse sotto tutti i punti di vista l'ecologia e le relazioni sociali nelle zone rurali, a partire dalle relazioni tra uomini e donne menzionate prima.
Un altro paio di colpi alla produzione di cibo nel Terzo Mondo nel periodo dopo l’indipendenza, sono rappresentati dai “programmi di aiuti alimentari”, un’arma della guerra fredda tanto efficace, quanto gli interventi militari per la creazione di nuove forme di controllo politico e la “Rivoluzione Verde”. …La Rivoluzione Verde industrializzò l'agricoltura del Terzo Mondo, la rese dipendente dalle importazioni dall'esterno di semi ibridi, pesticidi e fertilizzanti ed espulse i piccoli agricoltori dalle loro terre.
Nei primi anni 1970 le disastrose conseguenze di decenni di degrado coloniale e postcoloniale dell’ambiente rurale, divennero visibili sotto forma di ricorrenti carestie, la più grave delle quali colpì Cinturón del Sahel, al sud del Sahara, dove morirono più di centomila persone e molte di più sono state costrette ad emigrare in modo definitivo. Negli anni ottanta, quando in nome della crisi del debito e della ripresa economica la Banca Mondiale ha imposto alle nazioni del Terzo Mondo un rigido programma neoliberista, l'agricoltura dei “paesi in via di sviluppo” era già disastrata e la fame nera e la malnutrizione erano ormai una realtà endemica.
In questo contesto i requisiti per la "sistemazione strutturale" - liberalizzazione delle importazioni, eliminazione dei sussidi agli agricoltori, la deviazione dalla produzione agricola verso la produzione di "alta qualità" di "beni di lusso" per il mercato export - segnalarono un disastro incombente, come avevano già annunciato ripetutamente più volte le organizzazioni di agricoltori, gli attivisti contrari alla globalizzazione e gli ambientalisti.
Si aggiungano a questo gli effetti perduranti del disboscamento e dell'inquinamento, gli accordi commerciali che sanzionavano l'appropriazione del sapere tradizionale da parte degli agricoltori del Terzo Mondo, il controllo imprenditoriale crescente e davvero totalitario della produzione di semi: ecco che abbiamo, per dirla con le parole di Mariarosa Dalla Costa, una "politica del genocidio". Infatti molti agricoltori, soprattutto in India, hanno perso la vita rovinati da queste politiche. Dobbiamo prestare attenzione, pertanto, quando sentiamo che il rialzo mondiale dei prezzi degli alimenti in mesi recenti è frutto dello stesso impulso speculativo che creò la bolla immobiliare. La speculazione è possibile solo in certe condizioni ed è di queste condizioni che dobbiamo preoccuparci.
Quella che abbiamo di fronte è una crisi molto più profonda di quanto generalmente si riconosce e non può essere risolta attraverso maggior "regolazione". Il neoliberalismo, gli impulsi speculativi del capitalismo finanziario, la promozione dei biocombustibile, tutto ciò ha esacerbato le tendenze che si iscrivono nella logica dell'agricoltura e della produzione di alimenti del capitalismo. Finché si produrranno alimenti a fine di lucro questi saranno strumento per costringere la gente ad accettare forme indesiderate di sfruttamento e la scarsità di cibo continuerà ad essere obiettivo predominante della produzione agricola, come pianificano governi ed istituzioni finanziarie. Ciò che è necessario è un cambiamento sistemico, un modo completamente diverso di agricoltura, che non avveleni coloro che producono e consumano alimenti. E questo richiede, in primo luogo, un sistema molto diverso di relazioni sociali e di valori.
MH: Mi rallegro che abbia menzionato il fatto che gli alimenti e la politica alimentare si trasformano in armi che riproducono, estendono ed intensificano sistemi di sfruttamento, segnatamente il sistema capitalista e patriarcale di valori che è fondamentalmente genocida. In questo numero della rivista tentiamo di sviscerare il concetto di "sovranità" applicato al cibo. Da una parte, il termine si riferisce alla costruzione fondamentale della politica internazionale dell'Europa degli imperi: lo Stato-nazione differenziato ed il suo esclusivo diritto sul territorio e sulla popolazione. Ma dall'epoca dei movimenti anticoloniali di liberazione nazionale, il termine sovranità ha adottato nuovi significati, riferendosi al diritto dei paesi all'autodeterminazione. Il termine ha stimolato anche molte riflessioni innovative in campi teorici critici con un rinnovato interesse nella biopolitica e nella globalizzazione. Che senso dà al termine? Crede che sia utile o appropriato? Dove e quando?
SF: Penso che dobbiamo sospettare del concetto di "sovranità", dato il suo legame genetico con la storia dello Stato-nazione.Ma nel caso della "sovranità alimentare" dovremmo concentrarci sul suo uso, più che sul suo significato genealogico.
"Sovranità" oggigiorno, come usato dagli inizi degli anni 90 da parte degli agricoltori appartenenti a Via Campesina, è un arma contro la conquista imprenditoriale internazionale della produzione di alimenti, contro l'espropriazione di terre, contro gli alimenti transgenici, l'industrializzazione e la commercializzazione dell'agricoltura. In questo senso "sovranità" non ha nulla delle connotazioni monarchiche o nazionaliste vincolate al termine. È un appello all'autonomia, all'autodeterminazione ed un rifiuto del modo capitalista di intendere l’agricoltura che espropria la gente delle sue terre e del suo sapere tradizionale, sottomettendo a mortali regolazioni internazionali e trasforma i suoi alimenti in veleno. Usando le parole di Mariarosa Dalla Costa: la "sovranità" rappresenta un'affermazione del diritto delle popolazioni a decidere che cosa mangiare e come produrlo e considera gli alimenti come "bene comune" prima che come merce [5].
La questione, ovviamente, è se dovrebbe intendersi "sovranità" nel senso di totale "autarchia". A dispetto di certe dichiarazioni che suggeriscono questa possibilità, credo ci sia un errore. Per secoli sono esistite estese reti commerciali e sofisticati sistemi di scambio in Africa e nelle Indie, prima dell'arrivo degli europei che li mutarono. Perciò, non dovrebbe preoccuparci che quelli che ricorrono oggi alla "sovranità" siano restii a commerciare coi paesi vicini ed in reti regionali del tipo di quelle che esistevano prima della colonizzazione. È già in funzione un ingente sforzo per costruire scambi regionali basati sui principi di dignità ed autonomia. Questo sarà senza dubbio una delle sfide principali che si troveranno ad affrontare i movimenti di giustizia sociale nei prossimi anni.
MH: A questo proposito la sua ricerca storica e contemporanea sul lavoro e la lotta delle donne è stata estremamente perspicace. In che misura sono fattori da prendere in considerazione nella politica della sovranità alimentare, il lavoro e la lotta delle donne?
SF: Il lavoro e le lotte delle donne rimangono centrali sulla questione della "sovranità del cibo" oggi.
Sono le donne a pagare il prezzo più alto dell’aumento del prezzo del cibo ed il fatto che il loro accesso alla terra e la loro capacità come produttrici agricole siano stati gravemente compromessi, è una delle ragioni dell’aumento di questo prezzo.
Come ho già detto in precedenza, le donne sono state produttrici e trasformatrici di alimenti nel mondo da tempo immemorabile. Al giorno d’oggi, in alcuni parti del mondo (Africa soprattutto), l’80% degli alimenti che si consumano sono prodotti da loro. La loro agricoltura di sussistenza permette di vivere a milioni di persone che, se non fosse così, non potrebbero comprare il cibo al mercato.
Tuttavia, la loro capacità di coltivare alimenti si vede sempre più minacciata dalla progressiva scarsità di terre, dalla loro privatizzazione e dalla privatizzazione dell'acqua e dal cambiamento registrato nei paesi del Terzo Mondo verso una produzione agricola destinata all'esportazione, ora denominata agricoltura "ad alto valore" per la Banca Mondiale.
Queste tendenze si rafforzano reciprocamente. Nella misura in cui la terra a disposizione degli agricoltori diminuisce in maniera costante, perfino in quelle regioni in cui la maggioranza della popolazione dipende dall'agricoltura, le donne diventano oggetto di processi di esclusione da parte dei propri parenti di sesso maschile e dagli uomini della propria comunità, cosicché l’accesso alla terra ed il mantenimento dei propri diritti tradizionali diventa sempre più difficile. Ciò rappresenta una minaccia di prim’ordine alla produzione ed al consumo di alimenti di grandi segmenti della popolazione.
Anche il controllo sugli alimenti consumati è nelle mani delle donne.
Si sta sviluppando attualmente una campagna in America Latina ed in Africa, diretta da gruppi ed associazioni di donne, che rivendica il diritto alla terra garantito nelle leggi e nelle costituzioni dei propri rispettivi paesi. Nel frattempo le donne hanno continuato ad essere all'avanguardia nell’agricoltura urbana e nelle lotte per la terra. In molte città africane, da Accra a Kinshasa, si dedicano ad appezzamenti per coltivare mais, manioca e peperoni, cambiando il paesaggio delle città africane, integrando così la quantità di cibo per le loro famiglie e promuovendo la loro indipendenza economica.
Ma il campo di battaglia è ancora la redistribuzione delle terre e la garanzia che le donne ne abbiano pieno accesso (anche all'acqua che scorre attraverso esse).
Come hanno sottolineato alcune scrittrici femministe come Mies Maria e Vandana Shiva, la sovranità alimentare è meglio garantita quando la produzione alimentare è "nelle mani delle donne ", intendo dire che le donne tendono meglio a controllare il modo in cui si producono e si consumano gli alimenti.
MH: Sembra che quelle esigenze si siano fatte strada fino ai saloni dei poteri internazionali, sebbene di forma specificamente neoliberale. Il recente "movimento" del microcredito concretizza l'idea delle donne del Terzo Mondo come produttrici economiche essenziali, promuovendo prestiti quantitativamente esigui. I critici sostengono che una cosa del genere non è altro che una sorta di neoliberismo dal basso, che cerca di fare delle donne nuovi “uomini” dell’economia del Terzo mondo, agenti di ulteriori limitazioni. Che cosa pensa di questo movimento?
SF: Quelli della Banca Mondiale ed altre agenzie hanno scoperto le donne come produttori economici, sostenuti dall'idea che si può più facilmente controllare le donne data la loro responsabilità verso la famiglia. Sanno che esse faranno di tutto per garantire l'alimentazione dei loro figli, perchè vadano a scuola e sanno di poter contare sul loro essere responsabili quando devono pagare i debiti.
Sono anche disposti ad integrare le donne nell'economia monetaria e screditare le attività di sussistenza che considerano una minaccia per l'egemonia del mercato.
Quello che molte donne preferirebbero soprattutto, è invece avere la terra; questo darebbe loro una maggiore indipendenza, oltre alla possibilità di vendere le loro eccedenze nei mercati locali.
Ma è una soluzione che i pianificatori economici non propongono, perché va contro a qualsiasi forma di redistribuzione, nella convinzione che la terra deve essere usata solo per scopi commerciali.
Non c'è da stupirsi che la Banca Mondiale sia stata un forte sostenitore del microcredito ed i suoi Programmi di sistemazione strutturale stiano creando la stessa povertà, a causa dell’esproprio delle terre, che si supponeva "alleviata" dai programmi di microcredito.
I programmi di microcredito sono anche fonte di divisioni nel seno delle comunità e tra le donne: selezionando quelle "degne" di credito vengono separate da quelle che non lo sono sottomettendole così ad una vigilanza reciproca che mina la loro solidarietà. Rappresentano anche un perverso mezzo ideologico, suggerendo che tutto quello che si deve fare per ottenere un risultato positivo è autodisciplina, stendendo così un velo pietoso sulle disastrose condizioni nelle quali vivono la maggioranza delle donne nei villaggi indio o africani grazie a politiche alle quali non hanno potuto partecipare.
Chi si mostra critico sottolinea che il rimborso del debito è spesso a scapito delle esigenze delle famiglie e delle donne e che, dopo molti anni di esperienza, non ci sono prove che i programmi di microcredito abbiano avuto un impatto positivo sulla loro vita
MH: Mentre nel sud del mondo abbiamo assistito ad un'enorme ascesa dei movimenti sociali sul tema della sovranità imprenditoriale nella globalizzazione degli alimenti, sembra che i movimenti alimentari del nord del mondo, soprattutto in America del Nord, abbiano avuto la tendenza a seguire una logica consumistica (slow food, alimenti biologici, etc..) Crede che possano nascere nuove forme organizzative sulla questione del cibo che superino lo stato di cose?
SF: Il contrasto è certo, ma c'è una serie di tendenze in questi ultimi anni che indicano che si stanno sviluppando nuove forme di organizzazione rispetto agli alimenti che vanno oltre il limitato concetto del proprio interesse rappresentato dall'esigenza di alimenti biologici.
In primo luogo abbiamo il movimento degli orti urbani di cui sopra, esteso a molte città nordamericane. Ha continuato ad acquisire sempre di più una dimensione politica, grazie in parte agli attacchi provenienti dal vecchio sindaco di New York, Rudy Giuliani.
Il suo progetto di radere al suolo decine di frutteti a New York nella metà degli anni '90 ha risvegliato la coscienza di tutti e ha avuto l'effetto di far crescere il movimento. Ora ci rendiamo conto che gli orti sono i semi di un'altra economia indipendente del mercato. Non compiono solo una funzione economica fornendo cibo più economico e fresco a molti che non potrebbero permetterselo, ma creano una nuova vita sociale: sono luoghi di incontro, di cooperazione ed educazione reciproca tra genti di differenti età e culture.
Esiste anche un rinnovato interesse per l'agricoltura tra i giovani dell'America del Nord, per conoscere le proprietà di erbe e piante e per creare una nuova relazione con la natura.
Continuamente conosco gente giovane negli Stati Uniti sinceramente schifata dalla cultura consumistica che li circonda e che diventano vegetariani o vegani preoccupati per il costo ecologico ed umano e degli allevamenti degli animali e per il rifiuto della sofferenza animale. La diffusione delle cooperative alimentari, la Community Supported Agriculture e gruppi come Food Not Bombs (alimenti non bombe), indicano l'esistenza di questa nuova coscienza. Il problema che dobbiamo affrontare per costruire un movimento di massa è che, per cambiare la coscienza, non è sufficiente cambiare la pratica a pranzo e nella spesa. La mancanza di accesso alla terra, la mancanza di denaro, spazio e tempo (per comprare, cucinare e conoscere le condizioni di produzione di ciò che mangiamo) sono i principali ostacoli a tale riguardo.
Il movimento alimentare deve inserirsi in movimenti più ampi che affrontino la complessità delle nostre vite. Allo stesso tempo, i movimenti sociali devono promuovere campagne per fermare:
* Gli allevamenti intensivi di animali su scala industriale, crudeli quanto disastrosi per la nostra comunità.
* L’incessante devastazione di milioni di ettari di terreno e chilometri di coste destinate ad allevamenti di bestiame ed ittici, che spostano ed impoveriscono masse di popolazioni, distruggono la terra e producono alimenti velenosi.
* La sistematica espropriazione delle ricchezze naturali dei paesi del Terzo Mondo, con il pretesto dell’adeguamento strutturale, che li costringe a esportare i loro prodotti alimentari, esaurendo le loro zone di pesca, disboscando le loro foreste, saccheggiando i loro terreni agricoli per produrre frutta e verdura di lusso e biocarburanti.
Infine, essere consapevoli delle lotte che si svolgono in altri paesi ci aiuta a combattere la nostra lotta contro le esportazioni di cibo: è importante avere informazioni, che qui in America del Nord stentano ad arrivare. Ho saputo, per esempio, del rifiuto della UE ad importare polli congelati dagli Stati Uniti che vengano bagnati nel cloro prima del confezionamento. Ho saputo che la carne "prodotta" negli USA contiene un ormone cancerogeno, e così via...
Note
1] Shiva, V. (1988), Staying alive: women, ecology, and development, Londres, Zed Books [edición española: Abrazar la vida: mujer, ecología y desarrollo, Horas y Horas, Madrid, 1995].
[2] (2007), World development report 2008: agriculture for development. Washington, D.C., The World Bank.
[3] Hardt, M. y Negri A. (2004), Multitude: war and democracy in the age of Empire, Nueva York, Penguin [edición española: Multitud: guerra y democracia en la era del Imperio, Debate, Madrid, 2004].
[4] Bauman, Z. (1998). Globalization: the human consequences, Nueva York, Columbia University Press [edición mexicana: La globalización: consecuencias humanas, Fondo de Cultura Económica, México, 2003].
[5] Dalla Costa, M. (2008), "Food Sovereignty, Peasants and Women",The Commoner (12).
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