La Lavagna Del Sabato 29 Maggio 2010 POLITICO E IMPOLITICO Dove sta davvero il qualunquismo? Marco Revelli
“L’uomo qualunque” di Giannini
In “tempi non sospetti”, ben prima del V-Day e della sgangherata discussione che ne è seguita sui principali quotidiani, avevo avanzato, sommessamente una proposta. Quella di abolire, per lo meno per un fatto di igiene linguistica, due termini già allora abusati: antipolitica e qualunquismo. O comunque di sospenderne l’impiego nella discussione in corso sulla “crisi della politica”. Il primo perché l’espressione “antipolitica” è diventata, in forma sempre più evidente, e persino spudorata, la clava agitata da coloro (ras dei mass media e uomini politici) che sono, con i loro comportamenti, la principale causa del discredito in cui è caduta la politica, per mettere a tacere chi, al contrario, muove loro critiche legittime nel desiderio di un’agire politico se non “virtuoso” per lo meno più decente. E’ in sostanza l’artificio lessicale per accusare chi invoca il medico di essere il propagatore della malattia, secondo una vecchia tecnica da Grande Fratello. Il secondo – il termine “qualunquismo” – perché non regge a un sia pur sommario confronto storico. Perché l’analogia tra il montante brontolio di protesta nei confronti del “ceto politico” della cosiddetta “Seconda Repubblica” e quanto avvenne sessant’anni fa, alle origini della “Prima”, non sta in piedi. Anzi, le due esperienze appaiono di segno esattamente opposto.
Il movimento fondato da Guglielmo Giannini nel dicembre del 1944 e durato fino alle elezioni del 1948, infatti, sbeffeggiava le nascenti (appena in embrione) virtù della politica – le “virtù repubblicane”, potremmo dire – mobilitando i vecchi vizi della pigrizia morale e del conformismo. La protesta attuale invoca invece un minimo di morale pubblica contro il degrado di quelle virtù, ne denuncia l’abbandono, e la trasgressione mobilitando quel che resta di un residuo senso dell’”impegno collettivo”. Il primo si alimentava dell’immobilismo avaro di chi non vuol essere “chiamato in causa”, dell’acre diffidenza piccolo-borghese nei confronti dell’azione pubblica: dava voce e parola alla massa di consenso che aveva sostenuto passivamente, per quieto vivere, per opportunismo e paura della storia, per atavico e inveterato rifiuto del contrasto aperto delle idee e della lotta politica, il fascismo, e che ora si proiettava come forza inerte nell’Italia repubblicana pretendendo di rappresentarne la continuità nella medietà, urlando e irridendo allo stesso modo in cui prima aveva taciuto e marciato. Questo, al contrario, pur con le sue incertezze, i suoi errori, le sue possibili cadute di stile, si esprime attraverso la partecipazione e la voglia di prendere la parola, di vedere e di contare. Soprattutto di “controllare” e di capire, non accucciandosi ai piedi del potere (pur di guadagnarsene una benevola immunità) ma al contrario giudicandone le azioni, e chiedendo trasparenza.
È significativo che “L’Uomo qualunque” – il giornale del “movimento” – avesse selezionato come oggetto principale dei propri sguaiati attacchi gli uomini politici più nobili dell’antifascismo: i fuori-usciti, quelli che per non essere rimasti “accucciati ai piedi del potere” durante il regime avevano dovuto subire l’esilio, il carcere, il confino, e che ancora quando i primi articoli firmati da Giannini andavano in stampa a Roma, rischiavano la vita combattendo in montagna al nord. E fra questi, in particolare quelli del Partito d’Azione – “il piccolo, ridicolo, ma pericolosissimo partito setta che infesta l’Italia postmussoliniana”, secondo Giannini -: in realtà la forza politica più “eticamente impegnata”. Accusata appunto di “moralismo” dai realisti politici dello stesso schieramento antifascista perché orientata a fondare la “nuova Italia”, su virtù pubbliche impegnative, e a scavare un solco in qualche modo antropologico, una rottura di stile e di valori, con l’”altra Italia”, quella della monarchia e del fascismo. Uomini come Ferruccio Parri, il simbolo dell’”eticità in politica”, soprannominato beffardamente da Giannini Fessuccio Parmi; come Emilio Lussu, qualificato “l’avvocato pazzo”; come Piero Calamandrei, la cui statura giuridica, morale e umana non poteva esser messa in discussione da nessuno, e che sulle pagine de “L’Uomo qualunque “ diventava, gratuitamente, “un clown che fa l’antifascista … un pagliaccio del circo Arbell”; giudicati, tutti insieme, “uomini da niente” sulla base di nessun argomento se non il rancore che può provare la passività storica, chiusa nel proprio “privato” come in una cripta, di fronte all’attivismo pubblico di chi aveva avuto il coraggio delle “scelte”. Lo stesso spirito che porterà i qualunquisti a rovesciare l’espressione “vento del nord” nel volgare “rutto del nord” (in nome del “quieto vivere" del resto d’Italia), e a liquidare la Resistenza come l’occasione per un buon numero di arrivisti di spartirsi le spoglie di un potere resosi disponibile: “Sciami di mosche e stormi di topi saranno tutti in corsa per chi arriva il primo sulla carogna, anche scheletrita dai digiuni di anni” scriverà Patrissi, altra penna de “L’Uomo qualunque”.
… e la critica della politica d’oggi
Nulla di tutto ciò nelle variegate e molteplici forme che ha assunto la “critica della politica” – meglio sarebbe dire: la critica della cattiva politica – in questi mesi. Oggetto dei suoi strali non sono la parte più virtuosa della classe politica, non è la moralità politica vissuta come eccesso d’invadenza nella sfera privata; né il carattere esigente dell’impegno richiesto da un modello di agire pubblico considerato troppo giacobinamente orientato alla virtù repubblicana. Mastella non è Parri. D’Alema e Fassino, con tutto il rispetto, non sono Calamandrei. E trafficare per comprarsi una banca non è come scendere in armi, da liberatori, dalle montagne. Così come denunciare gli inaccettabili privilegi di chi si vota liquidazioni milionarie per cariche elettive che dovrebbero vedere una vicinanza e una equivalenza di reddito accettabili tra rappresentati e rappresentanti, o rifiutare l’oscena connivenza e commistione tra potentati politici, reti lobbistiche e sistema dell’informazione, non è la stessa cosa che eccitare il popolaccio con l’accusa di accaparramento e di occupazione delle cariche se indiscutibili uomini di cultura come Salvemini o Salvatorelli ritornano sulle loro cattedre ingiustamente sottrattegli dal fascismo per persecuzione politica. Insomma, non accettare che chi siede in un organo elettivo percepisca dieci, quindici, venti volte quanto un lavoratore salariato, e che dopo trenta mesi e un giorno di attività parlamentare maturi la propria pensione; pensare che costoro non possano pretendere di vedersi riconosciuta una qualche legittimazione a decidere sull’allungamento dei termini di quiescenza di chi ha lavorato più di trent’anni alla catena di montaggio, o sul reddito di chi stenta ad arrivare a fine mese, significa tentare di dare un qualche senso e significato al concetto di democrazia. Additare nel ritorno degli esuli antifascisti ai posti di responsabilità che i loro meriti intellettuali, professionali, etici giustificavano, una forma di occupazione del potere, espressione della “miseria morale dei soliti ometti in cerca di stipendio” all’insegna del “ora tocca a noi!” – come fece, appunto, “L’Uomo qualunque” nell’estate del ’45 – significa dar semplicemente sfogo al rancore dei mediocri. Tra le due cose c’è una bella differenza, che nessuna retorica delle analogie verbali può cancellare. È stato scritto, da un critico “malevolo” degli attuali movimenti accusati di “antipolitica”, Dino Cofrancesco, che essi si differenziano qualitativamente dal “qualunquismo storico”, perché il “peccato d’origine” di questo “era l’insensibilità al tema della partecipazione, il non aver capito che, senza il conflitto politico regolato tra partiti costituzionali, le libertà civili e la privacy rischiano grosso … e che ritirarsi dalla politica significa consentire alla politica di invadere il proprio “ritiro”. Mentre, al contrario, “il peccato d’origine dell’odierna antipolitica sta, paradossalmente, nel suo non essere tale, ovvero nel tentativo di sfruttare la protesta della gente comune contro la piaga del malgoverno per affidare al popolo il conseguimento degli obiettivi che, legittimi o illegittimi, fanno parte della vecchia sinistra statalista e giacobina”. Un argomento, questo, che al di là della “malevolenza”, appunto, e dell’evidente approssimazione nell’attribuire alla variegata area che contesta le più recenti derive della politica istituzionale e governativa un residuo statalismo, coglie tuttavia nel segno là dove registra un rovesciamento e un’opposizione tra le due forme di protesta. E dove colloca l’elemento di differenziazione sostanziale tra i due tipi di critica della politica esattamente nel tema della partecipazione. Negata, nel qualunquismo storico – ma diciamo pure: nel qualunquismo tout court, per sua natura antipartecipativo. Non necessariamente passivizzante in forma totale ( anche l’uomo qualunque ogni tanto, come le pulci, s’incazza e urla), ma certamente ostile all’onere della scelta e della presa di posizione consapevole. Estraneo, per costituzione antropologica, al rischio del giudizio autonomo e della responsabilità; alla fatica dell’informazione autonoma e alla difesa pubblica delle proprie idee. E invece (la partecipazione) esasperata, portata per certi versi al limite estremo di valore in sé, nelle forme attuali di critica della politica, dove l’elemento partecipativo è ricodificato come condizione sine qua non di una democrazia destinata, altrimenti, irrimediabilmente a una deriva oligarchica. Vissuto come forma necessaria di “invasione di campo”. Di contesa dello spazio pubblico nei confronti di una rappresentanza degradatasi a “casta”: come si vede, l’esatto opposto rispetto a un universo mentale quale quello qualunquista, che invece gioca sul ritiro dalla sfera pubblica. Sul ripiegamento su un privato a-sociale.
Potremmo aggiungere, continuando il ragionamento, che mentre nell’un caso – il qualunquismo – si esprime la disponibilità a una “delega” senza “rappresentanza”, il bisogno di affidamento della cosa pubblica a un potere remoto, che non impegni e con cui non ci si impegni; nell’altro caso – nella situazione attuale – emerge l’indisponibilità alla “delega” nei confronti di una rappresentanza fallita. Di un corpo di “rappresentanti” resisi indisponibili e irresponsabili nei confronti dei rappresentati. In sostanza, di una crisi, profonda, di legittimazione nei confronti di ciò in cui si era creduto, cui per una fase ci si era, in forme diverse, legati, e che ora si scopre estraneo e indifferente. E se nel primo caso, di Giannini e dei suoi seguaci, si può parlare in senso proprio di antipolitica: di rifiuto esplicito di ciò che costituisce l’essenza del “Politico” – il conflitto pubblico e regolato, la presa di posizione netta e contrastante sul terreno dei valori per la definizione dei fini collettivi -; nel secondo caso si dovrebbe paradossalmente parlare di “iperpolitica”.
Di un’”eccedenza” di politica in questo inedito modello di “democrazia della diffidenza” (di Democratie de la defiance, come la chiama Pierre Rosanvallon) basata sul sospetto fondato e sistematico dei (non) – rappresentati nei confronti dei rappresentanti (inaffidabili). Sull’ansia di controllo nei loro confronti. E, in ultima istanza, sulla sottrazione del mandato e sulla (tendenziale) domanda di riappropriazione di sovranità.
Profonde differenze
Altrettanto paradossalmente si potrebbe dire che, proprio sulla base di quanto detto sopra, se di qualunquismo e di negazione della politica nel senso nobile del termine si deve parlare, questi stanno non sul versante dei critici più radicali ma su quello dei protagonisti considerati “normali” – quelli, per così dire, “certificati” – della vicenda politica attuale: quel fronte amplissimo di forze che monopolizzano, nello spazio esploso dei mass media, la sfera della “rappresentazione” (non più della rappresentanza) politica. A destra, certo, dove più evidenti sono i segni del qualunquismo tradizionale, nel populismo scurrile della Lega, nell’urlo rauco contro “Roma ladrona” e la rivendicazione malmostosa di una secessione che è abbandono dall’ambito della responsabilità collettiva; nella retorica del partito-azienda, nella logica degli affari come paradigma universale ed esclusivo dell’agire, nelle minacce di sciopero fiscale e nella accettazione entusiastica del ghe pensi mi; o, ancora, nell’autoritarismo per ora felpato di un neonazionalismo a vocazione carismatica. In fondo, è in quell’area che, storicamente, sono finiti tutti gli uomini dell’Uomo qualunque: nell’allora neonato Movimento sociale (il grosso), nel Partito monarchico, in quello liberale (non tanti, ma qualcuno). A destra, dunque. Ma anche a sinistra (si fa per dire). O in quel grande centro che si va creando con la nascita del Partito democratico, in cui, se non di antipolitica (che è tema troppo forte, e presupporrebbe comunque troppa passione) certo di vocazione a una dimensione impolitica si può parlare.
Cos’è, infatti, se non “impolitica” la vocazione unanimistica (il retrogusto egemonico) che lo muove e che ne guida la retorica: l’enfasi del “partito degli italiani”, per tutti gli italiani: quello capace di far tacere le passioni, i confronti ideali (riclassificati come contrasti ideologici, e dunque banditi), i conflitti sociali. Quello che s’impone e impone di “unire” anche ciò che è di per se stesso diviso, di conciliare quanto è per sua natura contrapposto (capitale e lavoro, laicismo o confessionalismo, sviluppismo ed ecologismo, destra e sinistra, ma anche etica e affari, pubblico e privato …) in un grande racconto edificante: insomma, il “ma-anchismo” veltroniano, per dirla con Crozza, l’essere con gli uni anche con gli altri, per questo ma anche per quello … E cos’è, d’altra parte, se non una forma di agire e di pensare sostanzialmente “impolitica”, il dogma della realtà così com’è, la proclamazione della sua intrascendibilità, non superabilità, e dunque l’assunzione dell’esistente (anche del pessimo esistente) come principio regolativo. Come dogma su cui regolare l’azione di governo (unica forma concepibile dell’esserci)? Laddove la politica (quella vera, nobile, non l’ordinaria amministrazione) sarebbe, al contrario, apertura dell’esistente ad alternative possibili (e spesso tra loro contrapposte), scelta di prospettive, invenzione di possibili trascendimenti. E’ questo, in fondo, l’unico collante che lega tra loro identità politiche e storiche così diverse, come il cattolicesimo politico e la tradizione socialista e comunista italiana, e un viluppo così articolato di interessi lobbistici: la volontà di stare dentro la forma data della società quale nell’immediato si dà, per assecondarne il movimento. Per offrirsi come struttura professionale di amministrazione. Non per niente sono i sindaci – gli amministratori per definizione – l’ala marciante della nuova entità. I gestori del territorio e troppo spesso, purtroppo, i suoi arroganti guardiani. Anche per questo, suggerirei a chi sta dentro questo progetto di andarci cauto nell’evocare con troppa enfasi concetti come quello di “ antipolitica”, che, se presi sul serio, gli si potrebbero rivolgere contro. (Brano tratto dal libro Controcanto: sulla caduta dell’altra Italia, Chiarelettere editore, Milano, 2010.) Marco Rovelli (Massa, 1969) insegna, suona e scrive. Tra i suoi libri Lager italiani (2006, Rizzoli), un “reportage narrativo” dedicato ai Centri di permanenza temporanea (Cpt). Nel 2008 ha pubblicato Lavorare uccide (Rizzoli), sulle morti sul lavoro in Itália. Suoi racconti e reportage sono apparsi su “Nuovi argomenti”, “L’Unità” e “Il manifesto”. home |