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Sagarana La Lavagna Del Sabato 28 novembre 2014

LA SOLITUDINE DI LUCIO MASTRONARDI



Rosaria Tenore


LA SOLITUDINE DI LUCIO MASTRONARDI



Se gli chiedi di mostrarti la tomba di Lucio Mastronardi, in due minuti il custode ti ci accompagna, e poi se ne va. E tu rimani lì, sotto il sole, dinanzi a una sepoltura non dissimile dalle altre che le stanno vicino. La lastra di granito rosso, la lampada di vetro, i fiori secchi recenti e intonati al colore della pietra. Nessuna epigrafe, niente, solo il consueto datario.

A destra della lapide, in alto, la madre Maria: i capelli bianchi ondulati, un vestito leggero, il sorriso gentile, protettivo. Giù in basso, il figlio Lucio. Vi è ritratto da giovane, in giacca e cravatta. È bello, distinto, il nero dei tanti capelli che gli ombreggia la fronte, gli occhi immensi che guardano l’obiettivo senza fissarlo e ne sembrano quasi impauriti.

Riposano così i Mastronardi, uno accanto all’altra, nella parte vecchia del cimitero di Vigevano. Tutt’intorno l’erba è secca, il ghiaietto rado, i pini ammalati. Se guardi in alto per deviare da te l’emozione che ti prende, ti accorgi che il cielo della città si è come accoccolato sopra le loro cime dimezzate dai giardinieri comunali.

L’ultima volta che ho visto Mastronardi è stato sul ponte al Ticino, forse il giorno medesimo in cui si è affogato, forse il momento prima che si buttasse di sotto, non lo so. Comunque era di pomeriggio e lui stava là, appoggiato alla ringhiera, come in attesa di qualcuno. Il ponte ti viene incontro sulla statale per Milano all’improvviso, lungo e stretto, dopo l’ultima curva della brughiera.

Appena ha scorto la macchina, ha preso a camminare quasi di fretta, di spalle, mezzo sciancato per l’ultimo volo dal suo balcone non andato a segno. “Venga, Mastronardi, che la porto a casa”, gli ho detto accostando. Ricordo che era spettinato, livido, tutt’occhi. Mi ha risposto di no con la testa senza nemmeno fermarsi, né io in quel momento sapevo che ne era stata denunciata la scomparsa e che lo stavano cercando.

Da pochi giorni ho finito di leggere, e molto più attentamente che le altre due volte, “Il maestro di Vigevano”. Trentasei anni sono passati dalla sua uscita. Era il 1962 e Lucio Mastronardi aveva trentadue anni. Confesso che il piccolo mondo mastronardiano ve l’ho ritrovato intatto. Prezioso. Illuminante una zona più che vasta del nostro universo moderno, nella quale stupidità, attivismo e corruzione intercettano, in maniera incomposta, intelligenza, dignità, ideali, sentimenti.

Ancora una volta il libro mi si è rivelato come uno scontro, frontale direi, tra l’autore e la propria città. Un conflitto irrisolto, disumano, ma paradossalmente necessario alla sua esistenza di uomo e di scrittore. Conosco bene la società vigevanese, so in che modo si porta con chi le scrosta “il catrame” di dosso. Vigevano è un posto speciale, è una città che, se non possiedi un talismano potente, il più delle volte ti annienta.

Nella vita e nella pagina Mastronardi è l’angosciato testimone di questo microcosmo nel quale una schiera di industrialotti, padroncini, impiegati statali e casalinghe sgomitano freneticamente per salire dalle cantine della piccola impresa familiare ai tetti dell’agognato fabbrichino.

In tutto questo brulicare di denaro facile, affetti sfasciati, repentine fortune e altrettante improvvise disgrazie, l’occhio dello scrittore ci si conficca dentro per disvelare il deserto che gli fa da sfondo, la totale assenza di cultura e di valori.

In questo deserto Lucio Mastronardi vive e lavora. A volte, per respirare una boccata di aria fresca, si reca a Pavia quando c’è Calvino oppure scrive all’amico Vittorini per chiedere consigli e conforto. Intanto la piccola e media borghesia vigevanese gli tiene gli occhi puntati addosso. In certi momenti essa sa riconoscere il proprio deserto culturale, però mai e poi mai perdonerà a chi pubblicamente ne ha scavato le sabbie.

Ma tornando a noi, nel rileggere il libro è stato come se il passo dei miei ricordi rallentasse e, pagina dietro pagina, sostasse a lungo nei pressi di quelle vie, di quei muri, di quel ponte dove era inevitabile imbattersi in Mastronardi.

Sia chiaro Mastronardi io non sapevo neppure che esistesse. Nel ’62 io avevo tredici anni e giocavo ai quattro cantoni nelle strade di Cerignola dal tramonto in avanti. Sapevo tutto delle americhe, ma nessuno mai mi aveva parlato del paese delle scarpe. Ignoravo che di lì a dieci anni sarei arrivata a Vigevano per lavoro e che vi sarei rimasta moltissimo tempo.

Quando ho visto Mastronardi per la prima volta, lui veniva su da via Giorgio Silva diretto alla piazza, ancorando al centro dei portici un passo largo, lievemente sbilanciato da un lato. Non l’ho riconosciuto subito, ma dalle occhiatacce che si sono levate dai tavolini all’aperto del Bar Commercio, da quel: ocio, talkè il maestr!, dal tono di spregio dell’irridente platea, allora sì che ho intuito chi fosse. Lui si ferma, si gira da questa parte e sfodera uno sguardo allucinato con dentro mulinelli di risentimento e di sfida. Poi si allontana senza dire niente. E quelli, giù insulti e sghignazzi.

Fanno sempre così, mi diceva un mio amico. A questi non gli è ancora andata giù, no, mica per il libro, figurati, non l’hanno mai letto. No, è stato il film che li ha mandati in bestia. Si sono riconosciuti nei personaggi, capisci? È da allora che al povero Lucio gliela stanno facendo pagare.

Il mio amico non ci dormiva la notte per questo. Conosceva Mastronardi da sempre, mi raccontava tante cose di lui, persino della casa paterna dalle penombre rassicuranti, i mobili antichi, le porte delle stanze con i vetri colorati. Mi ripeteva che da ragazzo Lucio era allegro, di compagnia e che gli piaceva ballare. “Non immagini quanti scrittori sono venuti a trovarlo dopo il successo del Maestro. Anche Pasolini, lo sapevi? Guarda, proprio lassù”, diceva indicandomi una finestra in Piazza Ducale, sopra il negozio del parrucchiere Luigi.

“Vedi, questi vigliacchi abusano della sua fragilità, lo emarginano, lo rifiutano senza neanche più nasconderlo. Sfido io, Lucio li ha messi in piazza, li ha coperti di vergogna”. Nell’ascoltare le sue parole e nell’osservare quello che ci accadeva intorno, mi rendevo conto in che modo degli uomini dall’apparenza gioviale e tranquilla potessero ingegnarsi a neutralizzare chi li aveva sbugiardati agli occhi dell’intera nazione. Neutralizzare: ecco la parola chiave rivolta a ridurre in cenere il coraggio di un solo uomo. Neutralizzare, sterilizzare. Una volta sterilizzato quell’uomo, qualunque cosa egli avesse mai detto o scritto, sarebbe stato niente altro che il farneticare di un folle, dello scemo del paese. Fine.

Dopo quella volta del Bar Commercio, incrociare Mastronardi in Via del Popolo o altrove per me era motivo di orgoglio e di gioia segreta. All’apparire in lontananza del suo soprabito sbilenco, mi correva un fremito nel cuore mentre mi veniva in mente quella sua frase che dice: “lascio che la vita scorra e io scorro con la vita; scorriamo insieme finché mi fermerò”.

Adesso io non so se, come dicevano in paese, in molti aspettassero pazientemente che il suo andare si fermasse per sempre, ma quella domenica di aprile del 1979, quando il Ticino si è finalmente degnato di restituirci il suo corpo, mi è proprio sembrato che da una considerevole parte della città si levasse un sospiro contenuto di liberazione. Però al funerale, quando sono arrivati gli industrialotti del Bar Commercio con le superbe nuche piegate e facce meste, trasudando elogio e lutto, il mio amico ed io quel sospiro lì lo abbiamo sentito davvero.





“La solitudine di Lucio Mastronardi” č tratto da Storie 32-33/1998





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