La Lavagna Del Sabato 22 Novembre 2014 KOLKATA Danilo Taino Di fronte a un piatto di chicken afghani da 55 rupie — una settantina di centesimi di euro — e a una tazza di caffè bollente da 15, Sabir Mitra dice che suo padre non gli ha mai parlato di Madre Teresa. «Nemmeno mio nonno, che di Calcutta mi ha detto tutto — afferma con sicurezza —. Penso che Madre Teresa sia un’invenzione dell’Occidente». Siamo nella Indian Coffee House di College Street. Sabir, 20 anni, è seduto a un tavolo con tre amici, due maschi e una ragazza: studiano a pochi passi da questo glorioso caffè, alla Presidency University di Kolkata (il nome di Calcutta dal 2001). E discutono: come si fa da decenni nella città più colta dell’India. Fuori, la strada è un chilometro e mezzo di librerie, tomi vecchi e nuovi, negozi e bancarelle sui due lati:Boi Para, in lingua bengali «Colonia di Libri». Dentro, la Coffee House è un cubo altissimo: i ventilatori a pale pendono dal soffitto; i tavoli sono quasi sempre occupati; i camerieri in bianco servono caffè. Sul lato giallo opposto ai finestroni, un ritratto a figura intera di Rabindranath Tagore, il grande poeta e intellettuale indiano, primo premio Nobel d’Asia: nel 1905, da Boi Para guidò la manifestazione antibritannica contro la divisione in due del Bengala. Negli anni, ai tavoli del caffè-ristorante si sono seduti scrittori, poeti, economisti, politici indiani e stranieri. I registi Satyajit Ray, Mrinal Sen e Aparna Sen vi hanno discusso di cinema; i cantanti da colonna sonora Manna Dey e Kishore Kumar da qui traevano ispirazione; l’attore Shashi Kapoor ne era un habitué e ancora appare di tanto in tanto; lo scrittore Vikram Seth prende appunti davanti a un’omelette; l’economista e filosofo Amartya Sen ci va ogni volta che torna in città; il poeta Malay Roy Choudhury vi ha fondato il Movimento della Hungry Generation negli Anni Sessanta: qui, nella Indian Coffee House di College Street, cooperativa dei lavoratori, grandi nomi, cittadini semplici, studenti, tutti hanno partecipato e partecipano alle adda, le discussioni su qualsiasi argomento delle quali i bengalesi vanno fieri. Cultura e lunghi menù di politica. E qui hanno messo in discussione i loro pareri molti degli occidentali che si sono confrontati con Calcutta: Dominique Lapierre, Günter Grass, Louis Malle. Tra gli appunti delle lezioni di matematica, un chai e una battuta contro la dinastia Gandhi al potere a Delhi, Sabir e i suoi amici danno vita alla loro adda, si dividono su Madre Teresa. Soprattutto sul suo contributo alla Gran Città di Calcutta. Kalith, 21 anni, studente di Fisica, dice che no, Sabir sbaglia. «Madre Teresa era europea (albanese, ndr) ma solo in India — sostiene — avrebbe potuto essere capita. La sua spiritualità, il rapporto con la morte, l’interesse per i poveri sono caratteri indiani, non occidentali, o almeno non del tutto. È diventata un modello per il mondo e di questo dobbiamo ringraziarla: ha fatto conoscere l’anima dell’India. Avrebbe potuto fare quello che ha fatto in una città, anche la più misera, dell’emisfero occidentale? In Africa, in America Latina?». «Spero di no per loro. Madre Teresa — interviene Geeta, 19 anni, la ragazza — è diventata il simbolo più potente di Calcutta nel mondo, ma per dire che è il Buco Nero di cui si parla sempre appena la si evoca. Tu dici Kolkata e nessuno pensa a cosa succede davvero qui, alle chance che abbiamo di migliorare; tutti pensano a Madre Teresa, ai morti di malattie, ai disperati sui marciapiedi, alla religione che si stende sui cadaveri. Forse non era il suo obiettivo, ma ha creato l’immagine di una città disperata e per la quale non c’è niente da fare. Ma ti sembra disperata Kolkata?». No. Calcutta non sembra una metropoli disperata. Cadente sì: i palazzi neoclassici costruiti dagli inglesi nessuno li ha più toccati e si sgretolano nell’umido tropicale. Povera, anche: i bambini nelle pozzanghere di strada battono per numero quelli di ogni altra metropoli indiana. E pure lenta: il movimento verso l’economia globale che ha investito Mumbai, Delhi, Bangalore qui è arrivato attutito ed è stato respinto da più di trent’anni di governo comunista del West Bengal. Ma disperata no. È la città delle visioni più incredibili: un’autobotte che esplode contro un muro; un pastore con il gregge tra le automobili; una dozzina di persone appese a un tram; un uomo seminudo che trascina un risciò e sopra quattro bambini in divisa della scuola; le Mercedes nuove di zecca parcheggiate vicino al Kalighat, il grande tempio dedicato a Kali, la divinità nera della città, e lì a fianco i venditori di incensi e ghirlande che si affollano all’ingresso del Nirmal Hriday, la «Casa dei bisognosi morenti» di Madre Teresa. Ma resta la città degli studiosi, dei libri, della cultura, dei centri di ricerca, che oggi vede fuggire migliaia di cervelli, ma potrebbe essere, e forse sarà, una delle megalopoli più innovative — e affascinanti — del secolo. La questione in discussione alla piccola adda della Indian Coffee House è proprio questa: Madre Teresa ha contribuito a congelarla nell’immagine di «città dalla notte spaventosa», come diceva Rudyard Kipling, e di «città della gioia», la cui essenza sono le vite dello slum e dell’uomo del risciò raccontate da Lapierre? «L’immagine — dice Sabir — è il problema minore. Il vero problema è che Madre Teresa ha rafforzato e glorificato una tendenza che già era presente a Calcutta. L’idea che per i poveri non c’è niente da fare, che l’unica cosa è accoglierli quando stanno morendo, non per curarli e dar loro una speranza di guarigione, ma per dire che il sacrificio li avvicina alla santità. La sua era la dottrina della sofferenza, accolta volentieri da chi non ha mai voluto cambiare le cose. Anche dai comunisti. I quali, dedizione a Cristo a parte, hanno sempre negato che questa città potesse battere la povertà e la miseria, e lo hanno impedito». Nel 1943, Calcutta — fino al 1911 capitale amministrativa del British Raj, il dominio britannico sull’India — fu devastata dalla Grande carestia: si stima che morirono tra i tre e quattro milioni di persone. Nel 1947, dopo l’indipendenza dalla Gran Bretagna e la Partition — la divisione tra India e Pakistan — la migrazione di centinaia di migliaia di indù che fuggivano dal neonato Pakistan dell’Est, musulmano (oggi Bangladesh), riversò su Calcutta un’onda di umanità senza casa, senza cibo, senza medicinali. In qualche modo, si può dire che da allora la città non si sia del tutto risollevata. Nel 1977 le sinistre guidate dal Partito comunista indiano (marxista) presero il potere per mantenerlo fino al 2011 e, per molti versi, isolarono il West Bengal dall’apertura e dalla crescita economica del resto dell’India: quando, nel 2009, decisero finalmente di consentire la costruzione di una grande fabbrica del gruppo Tata per produrre l’auto più economica del mondo, la Nano, su un terreno non lontano da Kolkata, si sviluppò un forte movimento contadino contrario, sostenuto dalla politica populista Mamata Banerjee; i comunisti furono sconfitti alle elezioni del 2011, Mamata divenne chief minister dello Stato e Tata andò a costruire la fabbrica nel Gujarat, con tappeto rosso steso dal governatore Narendra Modi (il probabile prossimo primo ministro dell’India). L’opposizione al cambiamento, l’idea che l’India sia una terra dove lo sviluppo non può attecchire, la rassegnazione a mantenere poveri i poveri fanno parte di un’ideologia che ha radici profonde, a Calcutta e nel Bengala indiano. Madre Teresa è un ramo non secondario di questo albero. Geeta, la ragazza, dice che anche l’opposizione della suora albanese all’aborto, ai contraccettivi e al divorzio non ha aiutato i disperati della città. «Non si può dire — aggiunge — che gli occidentali abbiano stimolato Kolkata ad avere un’idea positiva di se stessa e a proiettare un’immagine decente all’estero. Nel suo libro (Mostrare la lingua, ndr) Günter Grass vede solo la desolazione. Il film di Louis Malle su Calcutta dimentica la città che c’è attorno ai derelitti per le strade. E anche Lapierre ne ha una visione limitata. È troppo dire che gli occidentali non hanno capito niente? Che Kolkata non è Madre Teresa, che non è la città dei morenti? Guardi qua fuori, le migliaia di venditori di libri. E i ragazzi e gli anziani che li sfogliano. Le sembra una città che muore?». No, non sembra. Tratto dal Corriere della Sera del 09 Maggio 2014. Danilo Taino home |